T.A.R. Lombardia Brescia Sez. I, Sent., 17-01-2011, n. 77

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo
Con il ricorso principale la XXX impugna il provvedimento del 18. 11. 2008 con cui il Comune di Toscolano Maderno aveva annullato in autotutela il permesso di costruire che le aveva rilasciato il 6. 6. 2006.
L’amministrazione aveva deciso di annullare il permesso di costruire perché si era accorta (in ritardo) che la Soprintendenza per i beni architettonici aveva annullato in autotutela l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dallo stesso Comune, e senza la quale il permesso di costruire non poteva essere efficace.
Più precisamente, in un primo momento il Comune e la ditta ricorrente avevano ritenuto che il provvedimento della Soprintendenza fosse giunto fuori tempo massimo ed avevano deciso di procedere comunque al rilascio del titolo edilizio ed all’inizio dei lavori. In corso d’opera si sono resi conto che in realtà il provvedimento era tempestivo ed il Comune ha deciso di provvedere in autotutela ad annullare il titolo.
Con il ricorso per motivi aggiunti la ricorrente impugna anche il parere negativo di compatibilità paesaggistica del 23. 3. 2009 espresso dalla Soprintendenza sulla pratica di sanatoria paesaggistica che aveva nel frattempo attivato la ricorrente allo scopo di regolarizzare in qualche modo le opere già realizzate.
I motivi che sostengono il ricorso principale sono i seguenti:
1. il provvedimento sarebbe illegittimo per eccesso di potere per travisamento del fatto per erronea ricostruzione della sequenza procedimentale (ci si lamenta in particolare che non sarebbe vero quanto scritto nel provvedimento impugnato che addossa alla società l’errore di non aver impugnato il provvedimento della Soprintendenza e quindi di averlo fatto consolidare),
2. il provvedimento sarebbe illegittimo per violazione degli artt. 146 e 159 d.lgs. 42/04 in quanto l’introduzione da parte della ricorrente di un procedimento di sanatoria avrebbe dovuto comportare l’obbligo di sospendere le determinazioni sull’annullamento del permesso di costruire,
3. il provvedimento sarebbe illegittimo per violazione dei principi di proporzionalità e contraddittorietà, perché la misura scelta sarebbe la più grave e perchè il Comune ha provveduto dopo diciotto mesi di assoluta inerzia;
4. il provvedimento sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 21nonies l. 241/90 per mancanza di indicazione dell’interesse pubblico ulteriore all’eliminazione dell’atto (il motivo è proposto per due volte nello stesso testo per verosimile errore materiale di impaginazione della difesa del ricorrente).
Nel ricorso era formulata altresì istanza di risarcimento del danno subito individuato però con la frase "è doverosa la formulazione di una domanda per ora generica di risarcimento dei danni qualora si profili una conclusione del procedimento non favorevole alla ricorrente", che rende tale domanda equivalente, o poco più, al salvis iuribus che si è soliti leggere nella conclusione di molti scritti difensivi.
Si costituiva in giudizio il Comune di Toscolano Maderno, che deduceva l’infondatezza dei motivi di ricorso.
Nel ricorso principale era formulata altresì istanza cautelare di sospensione del provvedimento impugnato.
Con ordinanza del 15. 7. 2009, n. 455 il Tribunale respingeva l’istanza con articolata motivazione sul fumus.
La ricorrente introduceva poi ricorso per motivi aggiunti contro il parere negativo di compatibilità paesaggistica del 23. 3. 2009 espresso dalla Soprintendenza sulla pratica di sanatoria paesaggistica che aveva nel frattempo attivato allo scopo di regolarizzare in qualche modo le opere già realizzate.
Il ricorso per motivi aggiunti è sostenuto da un unico motivo che è il seguente: il provvedimento sarebbe illegittimo per eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento del fatto, in quanto la Soprintendenza ha motivato il parere contrario rilevando che l’edificio è impostato ad una quota superiore di 3 m. a quella dell’edificio adiacente, mentre, a giudizio della ricorrente, la differenza di quota sarebbe solo di m. 1,33.
Si costituiva in giudizio l’Avvocatura dello Stato, che deduceva l’inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti (perché indirizzato a parte differente da quella del ricorso principale in cui era evocato il solo Comune) e comunque l’infondatezza dei motivi di entrambi i ricorsi (in memoria, si spiega in particolare che la sanatoria paesaggistica era comunque inammissibile).
Il ricorso veniva discusso nel merito (sia ricorso principale che motivi aggiunti) nella pubblica udienza del 24. 2. 2010, all’esito della quale il Tribunale emetteva ordinanza istruttoria con cui disponeva che la Soprintendenza depositasse relazione sulla descrizione del sito di interesse.
La relazione veniva depositata solo il 14. 12. 2010 (e diceva che l’edificio è stato impostato a quota superiore a quella della strada per m. 2.54 + la quota dei garage che è più alta di quella della strada di m. 0.70 + il rialzo del tetto che ha aggiunto altri m. 0.86, con la conseguenza che l’edificio è più alto di quanto sarebbe opportuno per m. 4.31. La Soprintendenza proponeva di risolvere la questione demolendo un piano e adottando una copertura piana), in prossimità dell’udienza fissata per la ulteriore trattazione del merito del ricorso che veniva discusso all’udienza del 15. 12. 2010, e all’esito della stessa passava in decisione.
In udienza ricorrente e Comune chiedevano una C.T.U. dirimente, l’Avvocatura riteneva si potesse anche decidere il ricorso già in diritto senza approfondimenti sul fatto, ed in ogni caso era remissiva ad ulteriori adempimenti istruttori.
Il Tribunale riservava la decisione.
Motivi della decisione
I. Sia il ricorso principale che quello per motivi aggiunti sono infondati.
II. Nel primo motivo del ricorso principale si deduce che il provvedimento sarebbe illegittimo per eccesso di potere per travisamento del fatto per erronea ricostruzione della sequenza procedimentale (ci si lamenta in particolare che non sarebbe vero quanto scritto nel provvedimento impugnato in cui si addossa alla società l’errore di non aver impugnato il provvedimento della Soprintendenza e quindi di averlo fatto consolidare).
E’ un motivo anzitutto difficile da giuridicizzare come vizio del provvedimento impugnato, anche se viene proposto nelle forme (buone per tutti gli usi) del travisamento del fatto.
E’ comunque opportuno ricordare cosa è successo, e perché è sorto il contenzioso odierno: il Comune ha deciso di annullare il permesso di costruire perché si è accorto (in ritardo) che la Soprintendenza per i beni architettonici aveva annullato in autotutela l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dallo stesso Comune, e senza la quale il permesso non era efficace. Più precisamente, in un primo momento il Comune e la ditta ricorrente avevano ritenuto che il provvedimento della Soprintendenza fosse giunto fuori tempo massimo ed avevano deciso di procedere comunque al rilascio del titolo edilizio ed all’inizio dei lavori. In corso d’opera si sono resi conto che in realtà il provvedimento era tempestivo ed il Comune ha deciso di provvedere in autotutela ad annullare il titolo.
E’ anche opportuno aggiungere che – nel rimpallo di responsabilità che si sono scaricate a vicenda il Comune e la ditta ricorrente su chi avesse commesso l’errore – è stato il geometra incaricato dalla ditta a concordare con il Comune l’emissione del permesso di costruire nonostante il decreto di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, confidando nella tardività dello stesso (si confronti il doc. 6 del ricorrente: lettera del geometra del ricorrente con studio in Gargano alla ditta, che siede in Predazzo, per aggiornarla degli sviluppi del caso).
Ed è stato sempre questi che ha concordato con il geometra del Comune di mettere a posto le cose alla buona, presentando una richiesta di variante in sanatoria in cui cambiasse qualcosa rispetto al progetto originario pur di avere un titolo in base a cui formulare una nuova domanda alla Soprintendenza (si guardi il doc. 12 del ricorrente: "non essendo stato possibile trovare una soluzione con il Soprintendente, il geom. Z. consiglia di presentare una variante in sanatoria. Essendo il fabbricato ormai prossimo al completamento, si è optato per modificare la struttura della copertura per avere un motivo di variante: si è proposto un tetto a mansarda in sostituzione del tetto previsto costituito dal solaio in laterocemento, sottotetto a copertura a struttura lignea").
La Soprintendenza – com’è noto – ha risposto in modo negativo anche a questa domanda di variante escogitata in modo estemporaneo dalle parti, ed il relativo provvedimento è stato impugnato con motivi aggiunti.
Ciò posto, quando il ricorrente deduce nel primo motivo che il provvedimento sarebbe illegittimo per eccesso di potere per travisamento del fatto per erronea ricostruzione della sequenza procedimentale (ci si lamenta in particolare che non sarebbe vero quanto scritto nel provvedimento impugnato in cui si addossa alla società l’errore di non aver impugnato il provvedimento della Soprintendenza e quindi di averlo fatto consolidare e che il Comune aveva manifestato anch’esso la volontà di sanare la costruzione), non si fa altro che proporre la propria versione di fatti che, nella loro materialità, sono comunque indiscussi.
Indiscussi perché è certo che entrambe le parti abbiano confidato nella tardività del provvedimento della Soprintendenza, e che ciascuna per proprio conto ha fatto le proprie valutazioni (il Comune prendendosi il rischio di emettere comunque il permesso di costruire; l’impresa prendendosi il rischio di non impugnare il provvedimento della Soprintendenza preferendo la strada dell’andare avanti subito con i lavori).
Ciascuna di esse si è resa conto che la procedura adottata non teneva sul piano formale, e in modo consensuale hanno scelto di provare con l’espediente della variante in sanatoria per riavere un titolo paesaggistico idoneo a sostenere i lavori.
La con sensualità cessa solo nel momento in cui il Comune ha deciso unilateralmente (e senza concordarlo con la ditta) di annullare in autotutela il titolo edilizio in attesa che si formasse un titolo paesaggistico utile.
In tutto ciò non c’è alcun travisamento del fatto in quanto nel percorso logicoargomentativo del provvedimento impugnato non si propone una ricostruzione fattuale differente, ma ci si limita a calcare la mano sulla mancanza di affidamento della ditta ricorrente per spiegare che essa conosceva benissimo il provvedimento della Soprintendenza e si è presa il rischio di andare avanti comunque, e questa motivazione in realtà era necessaria in quanto è noto che i provvedimenti di annullamento in autotutela devono contenere una motivazione sul superamento dell’affidamento (ed infatti la ricorrente lo deduce nell’ultimo motivo), mentre non era necessario che la motivazione del provvedimento contenesse anche tra i passaggi della stessa pure il mea culpa del Comune sull’errore commesso (anche) dai suoi uffici.
III. Nel secondo motivo si deduce che il provvedimento sarebbe illegittimo per violazione degli artt. 146 e 159 d.lgs. 42/04 in quanto l’introduzione da parte della ricorrente di un procedimento di sanatoria avrebbe dovuto comportare l’obbligo di sospendere ogni determinazione sull’annullamento del permesso di costruire.
E’ senz’altro vero che il Comune si è deciso per l’annullamento in autotutela in modo unilaterale dopo aver concordato con l’impresa i passi precedenti per regolarizzare la situazione (ma il Comune dispone di poteri unilaterali! E legittimamente ha scelto ad un certo punto, ed a fronte delle responsabilità per il mantenimento di una situazione comunque antigiuridica, di sganciarsi dall’impresa e prendere una strada autonoma).
Ma nessuna violazione di legge è stata commessa perché se (alcuna) giurisprudenza sostiene che, quando è presentata istanza di sanatoria, occorre sospendere il procedimento relativo all’ordine di demolizione di una costruzione abusiva, non c’è alcun orientamento giurisprudenziale che sostiene che occorra sospendere anche i provvedimenti in autotutela per rimuovere atti di cui ormai è certa la illegittimità, e che continuano comunque a produrre effetti finchè non vengono formalmente eliminati.
IV. Nel terzo motivo si deduce che il provvedimento sarebbe illegittimo per violazione dei principi di proporzionalità e contraddittorietà, perché la misura scelta sarebbe la più grave e perchè il Comune ha provveduto dopo diciotto mesi di assoluta inerzia.
La censura di proporzionalità parte dall’assunto che il provvedimento adottato dall’amministrazione sia una misura sanzionatoria e che le sanzioni debbano essere proporzionate; ma l’annullamento in autotutela di un titolo edilizio in nessun senso può essere considerata una sanzione, in quanto è un mero ripristino della legalità violata (arricchito di valutazioni sull’interesse pubblico di cui si dirà infra). Alla sua emanazione non si attaglia, pertanto, il canone della proporzionalità evocato dal ricorrente.
La censura di contraddittorietà nel comportamento del Comune è legittimata dal comportamento incerto del Comune, che prima autorizzato l’opera sul piano edilizio, poi ha tentato di tamponare l’attività illegittima con una procedura irritale di sanatoria ad hoc, e poi ha deciso di tirarsi fuori annullando in autotutela il titolo, ma "l’attività illegittima della p.a. non può certamente determinare contraddittorietà con la successiva adozione di provvedimenti legittimi (Tar Catania, I, 1294/08), mentre non può esservi contraddittorietà nella decisione di non aspettare l’esito della procedura di sanatoria prima di procedere all’annullamento in autotutela, perché come si è spiegato supra, in attesa della sanatoria (paesaggistica), non occorra sospendere anche i provvedimenti in autotutela (di natura edilizia) per rimuovere atti di cui ormai è certa la illegittimità, e che continuano comunque a produrre effetti finchè non vengono formalmente eliminati.
V. Da ultimo, nel ricorso principale si deduce che il provvedimento sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 21nonies l. 241/90 per mancanza di indicazione dell’interesse pubblico ulteriore all’eliminazione dell’atto.
In realtà, l’interesse ulteriore rispetto a quello al mero ripristino della legalità violata serve per superare l’affidamento del destinatario del provvedimento alla conservazione dello stesso. Nel provvedimento si motiva diffusamente sulle ragioni per cui tale affidamento non esiste (e di cui in parte si è riferito supra) talchè nessuna altra motivazione era dovuta.
VI. Sui motivi aggiunti l’Avvocatura ha dedotto preliminarmente l’inammissibilità in quanto presentati contro soggetto (lo Stato) diverso dal resistente (il Comune) del ricorso principale.
La deduzione dell’Avvocatura in effetti trova buoni argomenti nella lettera dell’art. 21, co. 1, secondo periodo, l. 1034/71, vigente ratione temporis all’epoca di incardinazione del ricorso, secondo cui "tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti".
L’inciso "tra le stesse parti" non era suscettibile di interpretazione equivoca, essendo evidente che un ente territoriale è una parte diversa dallo Stato, che è difeso secondo regole diverse da quelle che caratterizzano la difesa dello Stato, e che può prendere conclusioni diverse da quelle che prende lo Stato.
Ciò nonostante, in giurisprudenza si è diffusa, e prevale, una interpretazione molto estensiva della definizione normativa di "stesse parti", in cui si arriva a sostenere che la parte pubblica è unica, e si giustifica anche la introduzione nello stesso ricorso di motivi aggiunti proposti contro amministrazioni diverse.
Il problema è stato superato nel Codice del processo amministrativo che all’art. 43, co. 1, dispone che "i ricorrenti, principale e incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte, ovvero domande nuove purché connesse a quelle già proposte". E’ sparito l’inciso sulle "stesse parti", e la generica disposizione "purchè connesse a quelle già proposte" non può che essere intesa nel senso della connessione oggettiva, e non soggettiva, tra le domande.
Nel caso in esame, si preferisce prescindere dall’eccezione perché il ricorso per motivi aggiunti è infondato nel merito, come si spiega nel punto successivo.
VII. Anche il ricorso per motivi aggiunti spiegato contro il provvedimento con cui la Soprintendenza ha negato la compatibilità paesaggistica in sanatoria deve, infatti, essere respinto.
Nel ricorso si sostiene che il provvedimento sarebbe illegittimo per eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento del fatto, in quanto la Soprintendenza ha motivato il parere contrario rilevando che l’edificio è impostato ad una quota superiore di 3 m. a quella dell’edificio adiacente, mentre, a giudizio della ricorrente, la differenza di quota sarebbe solo di m. 1,33; nel corso del giudizio le parti hanno continuato a controvertere sulle quote di raffronto dell’edificio con la quota strada e con quella dell’edificio confinante, su cui si è chiesto un approfondimento istruttorio.
L’approfondimento istruttorio, in realtà, non è necessario perché a monte la sanatoria paesaggistica non poteva essere concessa, e quindi il provvedimento vincolato non poteva essere afflitto da eccesso di potere per difetto di istruttoria e travisamento del fatto, che – vi siano o meno – sono comunque irrilevanti.
L’Avvocatura ha sostenuto tale tesi nella sua memoria difensiva. La Soprintendenza ha tenuto un atteggiamento più incerto, perché ha preso nel procedimento tre diversi provvedimenti sulla istanza di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica:
– il 12. 9. 2007 una mera richiesta di integrazione documentale perché nella domanda non si capiva nulla,
– il 26. 11. 2007 un provvedimento in cui scrive in effetti che non può essere rilasciata alcuna autorizzazione in sanatoria,
– il 23. 3. 2009 il provvedimento impugnato con cui la Soprintendenza rigetta sul rilievo della impossibilità di ritenere compatibile il manufatto per l’alterazione del quadro ambientale.
La sanatoria paesaggistica – è noto – è stata eliminata dal nostro ordinamento, e pertanto un provvedimento di sanatoria ad oggi non potrebbe essere comunque rilasciato. Meno noto è quando sia entrato esattamente in vigore il divieto di sanatoria, posto che le norme degli artt. 146, 159 e 167 del codice dei beni culturali sono cambiate più volte in quanto le stesse hanno (giustamente, vista la loro importanza) costituito il terreno degli scontri tra i diversi indirizzi politici delle maggioranze parlamentari che si sono succedute negli ultimi anni nel governare il paese.
Infatti, già il d.lgs. 42/04 conteneva una norma (l’art. 146, co. 10, lett. c) che vietava l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, che era stata variamente interpretata in giurisprudenza, in quanto – essendo ricompresa nell’art. 146 che prevede il procedimento a regime (la cui entrata in vigore era differita) era ritenuta da taluni non applicabile al procedimento transitorio previsto dall’art. 159.
E’ noto che il Ministero sostenne, con parere di cui alla nota n. 11758 in data 22 giugno 2004, che si trattasse di disposizione impiantata nell’art. 146, ma applicabile anche alla fase transitoria in cui la procedura era retta dal procedimento ex art. 159.
In ogni caso, successivamente interveniva la disposizione dell’art. 26 d.lgs. 157/06 che riformulava l’art. 159 e dettava espressamente il divieto di sanatoria anche alla fase transitoria; tale divieto veniva introdotto proprio per superare definitivamente interpretazioni giurisprudenziali che avevano rinviato sine die l’applicazione del divieto sostenendo che la sua operatività dovesse differirsi alla fine della fase transitoria dell’art. 159 d. lgs. 42/04 (proprio come vorrebbe continuare a sostenere oggi il ricorrente).
Dopo il d.lgs. 157/06, entrato in vigore il 5. 5. 2006, non vi è alcun dubbio che la sanatoria paesaggistica sia vietata anche per la fase transitoria.
Il caso in esame si è svolto tutto dopo la entrata in vigore del d.lgs. 157/06, in quanto i lavori, legittimati dal permesso di costruire del settembre 2006, sono stati realizzati tutti dopo tale data, e d’altronde l’istanza di compatibilità paesaggistica, che ha aperto il procedimento in cui si inserisce il provvedimento impugnato, è del 30. 7. 2007. Non è quindi proprio possibile sostenere che per tale procedimento non operasse il divieto di accertare la compatibilità paesaggistica per opere diverse dalle opere minori di cui all’art. 181, che qui palesemente non ricorrono.
VIII. Quanto all’istanza di risarcimento del danno asseritamente patito, si è detto all’inizio che essa non è stata adeguatamente sostenuta da ricostruzioni della fattispecie dell’illecito civile, e del danno da esso cagionato, apparendo più che altro una clausola di riserva ("è doverosa la formulazione di una domanda per ora generica di risarcimento dei danni qualora si profili una conclusione del procedimento non favorevole alla ricorrente").
IX. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia, I sezione interna, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
RESPINGE il ricorso.
RESPINGE l’istanza di risarcimento del danno.
CONDANNA il ricorrente al pagamento in favore delle amministrazioni costituite delle spese di lite, che determina in euro 4.000, oltre i.v.a. e c.p.a. (se dovute), per ciascuna di esse.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Petruzzelli, Presidente
Sergio Conti, Consigliere
Carmine Russo, Referendario, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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