Cassazione, sez. un., 22 maggio 2009, n. 21501 Reato continuato e indulto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del procedimento

Con istanza 31-10-08 A.G. – proponendo opposizione all’ordinanza emessa il 24-10-08 dalla Corte di appello di Messina, in veste di giudice dell’esecuzione – chiedeva alla medesima, a norma degli artt. 672, 667 c.p.p., di provvedere all’applicazione in suo favore dell’indulto concesso dal D.P.R. n. 394/90 e quindi di quantificare in concreto la misura della residua pena che egli avrebbe dovuto espiare.

Deduceva in particolare: che egli era stato condannato dalla citata Corte, con sentenza definitiva 25-6-05, ad anni 6 di reclusione per reati condonabili per effetto del D.P.R. n. 394/90 ed altresì della L. 241/06; che con l’ordinanza impugnata gli era stato riconosciuto l’indulto con riguardo ad anni tre di reclusione, ex L. 241/06; che la Corte non aveva deciso in merito all’applicazione del beneficio ai sensi del D.P.R. 394/90, tenendo conto dell’epoca di commissione dei vari fatti. Con pronuncia 28-11-08 la Corte di appello rigettava la richiesta dell’A.. All’uopo rilevava: che la condanna subita dal predetto concerneva plurime vicende di concussione (poste in essere tra l’84 ed i primi mesi del ’92, capo P) nonché di turbata liceità degli incanti (consumata nel luglio ’87, capo DI), reati tutti uniti dal vincolo della continuazione; che per i primi addebiti era stata inflitta la reclusione nella misura di anni 5 e mesi 10 e per l’altro reato di mesi 2; che il più grave episodio concussivo si era concluso prima dell’ottobre dell’89 e che la pena per il medesimo poteva determinarsi in anni 4 di reclusione; che taluni di quelli ulteriori erano stati realizzati, come sopra riportato, negli anni successivi; che per la fattispecie incriminata dall’art. 317 c.p. è prevista una sanzione minima superiore a due anni; che, pertanto, un eventuale condono concesso ex D.P.R. n. 394/90 avrebbe dovuto essere revocato perché il beneficiario aveva riportato condanna a pena detentiva non inferiore ad anni 2 per delitto commesso nel quinquennio dall’entrata in vigore del provvedimento di clemenza (art. 4 cit D.P.R); che questa circostanza valeva ad escludere l’applicazione invocata.

A fondamento della propria conclusione la Corte territoriale richiamava la giurisprudenza di legittimità secondo cui, in caso di più condotte criminose unite dal vincolo della continuazione, la pena per il delitto satellite suscettibile di comportare la revoca dell’indulto, va individuata in relazione non già all’aumento inflitto ex art. 81 c.p., bensì al minimo edittale normativamente sancito, con massima riduzione consentita per le riconosciute attenuanti.

Avverso tale decisione il condannato ha ora proposto ricorso per cassazione, denunciando violazione di legge con riferimento agli artt. 81 c.p., 1, 4 D.P.R. n. 394/90, 125, 672, 674 c.p.p. e vizio di motivazione.

Precipuamente è stata contestata la tesi seguita dai giudici di merito, segnalandosi come questa fosse contraria al dettato dell’art. 4 del decreto concessivo del ’90 ed al principio del favor rei; inoltre sono stati richiamati i precedenti di questa Corte di segno opposto a quelli menzionati nell’ordinanza impugnata, in base ai quali, onde stabilire se l’indulto debba essere revocato (o non applicato), anche in caso di ritenuta continuazione tra più reati, occorre tenere conto della pena che in concreto risulti essere stata inflitta per i fatti successivamente commessi.

Il ricorso veniva assegnato alla I sezione della Cassazione ed il Presidente, su istanza del difensore, valutato il contrasto giurisprudenziale in materia e la delicatezza della questione, disponeva trasmettersi gli atti alle Sezioni Unite.

Motivi della decisione. Il quesito sul quale queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi è dunque il seguente:

"se ai fini della revoca dell’indulto ai sensi dell’art. 4 D.P.R. 394/90 – in caso di condanna per vari reati uniti dal vincolo della continuazione – alcuni (tra i quali il più grave) consumati prima della scadenza del termine per la fruizione del beneficio ed altri successivamente, nei cinque anni dall’entrata in vigore del provvedimento di clemenza – si debba avere riguardo alla pena in concreto irrogata, a titolo di aumento ex art. 81 e. 2 c.p., per ciascun reato ovvero alla sanzione edittale minima per essi prevista, con massima riduzione consentita da eventuali circostanze attenuanti". La risposta all’interrogativo vale anche per l’eventualità, quale quella attuale, in cui l’indulto non sia ancora stato applicato, ma occorra verificare la ricorrenza o meno di una causa di revoca: infatti, se l’accertamento fosse positivo, il diniego del beneficio sarebbe legittimo e doveroso atteso che altrimenti lo stesso, una volta concesso, dovrebbe essere subito revocato, con inutile dispendio di attività giurisdizionale (Cass. S.U. 24-1-96 n. 2780 Rv. 203976 ed in seguito: Cass. 28-3-03 n. 19752 Rv. 223850; Cass. 25-11-08 n. 45770).

Preliminarmente sono opportune alcune considerazioni in ordine al reato continuato, all’indulto ed ai rapporti tra i due istituti.

L’omessa indicazione da parte del giudice della cognizione delle varie componenti della pena complessivamente inflitta per il reato continuato (omissione che non configura nullità alcuna, non essendo questa prevista dalla legge) comporta il potere/dovere del giudice dell’esecuzione di provvedere alle necessarie specificazioni interpretando il giudicato, ossia ricavando dalla sentenza irrevocabile tutti gli elementi, anche non chiaramente espressi, che siano imprescindibili per finalità esecutive ed in particolare per l’applicazione di cause estintive (Cass. 21-2-96 n. 36 Rv 203816; Cass.1-3-97 n. 2057 ; Cass. 25-6-99 n. 214634 Rv. 214634; Cass. 15-5-08 n. 23653 Rv. 240612).

D’altro canto costituisce principio ormai consolidato che, in tema di indulto e salva diversa disposizione, il reato continuato va scisso – sia per l’ipotesi in cui, in ragione del titolo alcuni fra gli episodi criminosi unificati risultino esclusi ed altri compresi nel relativo provvedimento, sia per quella in cui alcuni siano stati commessi prima ed altri dopo il termine di scadenza ivi stabilito – allo scopo di consentire che il beneficio venga riconosciuto per i singoli fatti che vi rientrano (Cass. S.U. 16-11-89 n. 18 Rv. 183004; Cass. S.U. 24-1-96 n. 2780 Rv. 203975 e successivamente: Cass. 14-3-97 n. 2057 Rv. 207693; Cass. 29-10- 04 a 43862 Rv. 23005; Cass. 16-3-05 n. 19740 Rv. 231796). Trattasi di operazione realizzata nell’interesse del condannato il quale, se si avesse riguardo alla data di cessazione della continuazione ovvero se dovesse prevalere il titolo del reato per cui l’indulto non è applicabile, sarebbe ab origine privato dello stesso per tutti gli episodi. Sussiste peraltro la possibilità che taluno dei fatti commessi successivamente integri una causa di revoca dell’avvenuta concessione (si vedano le sopra citate decisioni): la norma di riferimento per il D.P.R. 394/90 è l’art. 4 che prevede questa conseguenza se colui che ha fruito del beneficio "commette entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, un delitto non colposo per il quale riporti condanna a pena detentiva non inferiore a due anni". Del pari è indiscusso che il frazionamento del reato continuato esplichi efficacia anche nel senso che la ricorrenza di una causa di revoca, a fronte di più violazioni rientranti nel quinquennio, va accertata considerando non già la pena complessiva concernente le predette, ma quella da attribuirsi a ciascuna di esse: invero è la lettera della legge a segnalare che il limite, non superabile, deve contraddistinguere un singolo delitto (Cass. 28-3-95 n. 1882 Rv. 201281; Cass. 30-10-96 n. 5655 Rv. 206249). A questo punto diviene rilevante il quesito sopra formulato (che si pone anche per l’art. 3 L. 241/06), in relazione al quale si riscontra un netto contrasto nella giurisprudenza delle sezioni della Cassazione.

In numerose pronunce è stato affermato che, qualora l’aumento di pena ex art. 81 c.p. per un reato idoneo a dar luogo alla revoca sia stato fissato in misura inferiore alla sanzione minima edittale, è necessario riportarsi a quest’ultima, con massima riduzione consentita da eventuali circostanze attenuanti; a sostegno della soluzione adottata si è evidenziato che, a seguito dello scioglimento della continuazione finalizzato a valutare la concedibilità o la revoca dell’indulto, ciascun reato riacquista la propria autonomia venendo quindi meno qualsiasi ragione per cui la pena inflitta a titolo di aumento possa ancora produrre effetti (Cass. 18-11-94 n. 5525 Rv. 200035; Cass. 28-2-96 n. 1319 Rv. 204487; Cass. 14-11-97 n. 6396 Rv. 209003; Cass. 14-1-99 n. 363 Rv. 212959; Cass. 29-11-01 n. 5257 Rv. 220683; Cass. 28-4-03 n. 19752 Rv. 223852; Cass. 25-11-08 n. 45770 Rv. 242265); identico principio risulta enunciato in materia di fruizione di benefici penitenziari, in fattispecie nella quale il condannato per reati uniti dal vincolo della continuazione aveva espiato per intero la sanzione applicatagli per quello ostativo, essendo esso un reato satellite (Cass. 11-2-00 n. 990 Rv. 21550; Cass 5-11-08 n. 46246 Rv. 242086).

Secondo un diverso orientamento è stato invece ritenuto, pur senza svolgere uno specifico percorso giustificativo, che occorre avere riguardo alla pena in concreto inflitta per il reato satellite ovvero per ciascuno dei reati satelliti, in caso di pluralità dei medesimi, commessi entro il quinquennio (Cass. 30-10-96 n. 5655 Rv. 206249; Cass. 11-5-98 n. 2624 Rv. 210793; Cass. 5-12-97 n. 6881).

Queste Sezioni Unite ritengono di aderire all’indirizzo minoritario per le seguenti argomentazioni.

Innanzitutto assume sicura portata il dato testuale rappresentato dalla circostanza che l’art. 4 DPR 394/90, disciplinando la revocabilità dell’indulto, usi l’espressione "riporti condanna", il che evoca il concetto di pena inflitta dal giudice.

In proposito va osservato che il legislatore nell’ancorare determinate conseguenze giuridiche alla gravità del reato, quale posta in luce dal trattamento sanzionatorio, fa riferimento alla pena prevista dalla disposizione incriminatrice ovvero a quella inflitta con la sentenza di condanna: le espressioni usate non sono indifferenti, ma significative dell’intento di attenersi, nel primo caso, alla valutazione operata in via preventiva dalla norma e, nel secondo, all’applicazione effettuata dal giudice nell’ambito del suo potere discrezionale in base ai criteri enumerati dall’art. 133 c.p. A conferma di tale logica si rileva, ad esempio, che nel nostro sistema processuale in tema di inefficacia della custodia cautelare per effetto della sua durata, commisurata agli addebiti, v’è richiamo, sino a che non sia intervenuta una sentenza di condanna, alla pena edittale, mentre per le fasi successive si dà rilievo a quella in concreto inflitta (artt. 300, 303 c.p.p.); tuttavia, anche dopo la sentenza, viene presa in considerazione la pena edittale per quanto concerne la durata complessiva della misura nonché per l’ipotesi di condanna in primo grado, confermata in appello e per impugnazione del solo pubblico ministero, essendo chiara in queste situazioni la prevalenza accordata alla tutela correlata al tipo di violazione; di converso per la scelta delle misure l’art. 275 e. 2 c.p.p., nel sancire il principio di proporzionalità, -è- usate l’espressione "sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata" ed identico parametro è adottato dall’art. 299 e. 2 c.p.p. per la sostituzione delle stesse: ciò dimostra la ravvisata opportunità di tenere conto degli specifici dati caratterizzanti il comportamento ascritto; altre norme in tema di condizioni di applicabilità delle misure personali (artt. 280,287c.p.p) si rapportano a figure astratte di reati e di sanzioni. In siffatta ottica il Procuratore Generale, nella sua requisitoria, ha opportunamente sottolineato come il provvedimento di clemenza 394/90 all’art. 3 abbia escluso l’applicabilità del beneficio per tutta una serie di delitti, individuati tramite le rispettive norme incriminatrici, così evidenziando la volontà di rafforzare la prevenzione generale per violazioni di particolare allarme sociale, mentre, in materia di revoca, la disposizione di cui all’art. 4 si palesa ispirata a finalità di prevenzione speciale e volta a controllare la meritevolezza del beneficio da parte del singolo condannato, per cui soccorre la determinazione alla quale è pervenuto il giudice.

Né vale obiettare che, seguendo l’impostazione in discorso, si creerebbe una disparità di trattamento tra chi commette un ulteriore reato legato dal vincolo della continuazione con un altro o altri pregressi e chi invece lo realizza al di fuori di un originario disegno: basti rilevare che si versa in situazioni basate su diversi presupposti.

Invero, il codice penale attribuisce ad una condotta penalmente rilevante, se attuata in continuazione, un disvalore attenuato e per questo motivo risulta previsto un più benevolo trattamento sanzionatorio, il quale consente di mitigare gli effetti del cumulo materiale con la possibile conseguenza che il reato satellite venga punito in misura inferiore al minimo edittale: ciò posto, l’aumento applicato rappresenta la pena congrua per detta violazione, la cui gravità è accertata dal giudice tenendo conto dell’esistenza in capo all’agente di un unico programma criminoso, elemento che indubbiamente contribuisce a connotare la fattispecie.

Così pure non può incidere l’argomento addotto dall’opposto indirizzo giurisprudenziale, secondo cui, una volta addivenuti al frazionamento del cumulo, il riferimento alla sanzione applicata a titolo di aumento sarebbe ormai privo di giustificazione. Trattasi di conclusione giuridicamente non condivisibile: invero la scissione comporta che i singoli reati riacquistano la loro autonomia sotto il profilo del titolo e dell’epoca degli stessi, ma non implica che la pena inflitta per ciascun fatto, dopo essere stata isolata nella sua specifica entità, sia da ritenersi superata o sostituita da quella applicabile se la condotta criminosa fosse stata sanzionata come separatamente realizzata.

A dimostrazione di quanto sopra basti osservare che in ipotesi di due reati avvinti dal vincolo della continuazione – commessi entrambi entro il termine previsto dal provvedimento di clemenza, essendo il più grave escluso dal beneficio – a seguito della scomposizione viene condonato in tutto o in parte l’incremento di sanzione applicato per l’addebito meno grave: rendere autonoma la pena significa, proprio, considerare l’aumento in sé e riconnettere al medesimo i debiti effetti.

Del resto le Sezioni Unite nelle sentenze 5-10-99 n. 14 (in tema di applicazione di benefici penitenziari al reato continuato) e 27-11-08 n. 3286 (in tema di valutazione del danno cagionato o risarcito nell’ambito di un reato continuato) hanno avuto modo di precisare che "per effetto dello scioglimento del cumulo… ciascuna fattispecie di reato riacquista la sua autonomia, sia quanto a pena edittale, sia quanto a pena applicata o applicabile in concreto": orbene, l’alternativa tra pena edittale e pena concreta viene a dipendere dal dictum legislativo.

A ciò aggiungasi che in realtà lo stesso orientamento che viene disatteso sostiene che debba farsi riemergere la sanzione minima edittale per la sola evenienza in cui il giudice abbia fissato l’aumento per la continuazione in misura inferiore, mentre rimarrebbe ferma la pena in concreto applicata, qualora essa fosse pari o superiore a detto minimo (il che a norma dell’art 81 c.p. ben può verificarsi): ne deriva l’incongruenza, evidenziata dal Procuratore Generale, che a seconda dei casi si seguirebbero due diversi criteri, pur in presenza di unico precetto. Al contempo non può sottacersi che la disciplina della continuazione, salvo le eccezioni stabilite dalla legge, in quanto volta a rendere possibile un trattamento di minore rigore, è ispirata al favor rei (Cass. S.U. 16-11-89 n.18; S.U 26-2-97 n. 1 Rv. 207939) e che la Corte Costituzionale ha espressamente collegato all’interesse del condannato l’eventualità che le singole pene debbano riassumere la loro autonomia, il che indubbiamente suggerisce un’interpretazione delle norme in materia che sia conforme a tale "ratio" dell’istituto (Corte Cost. sentenza 10-3-98 n. 312). Infine, ancora, nella recente sentenza del 26-3-09 le Sezioni Unite, investite di quesito analogo a quello attuale – sorto in relazione a fattispecie processuale ove, essendo intervenuta sentenza di condanna non definitiva per un reato continuato, si discuteva circa l’eventuale dichiarazione di inefficacia ex art. 300 e. 4 c.p.p della custodia cautelare applicata solo per il reato meno grave -, hanno aderito all’opzione interpretativa secondo cui per stabilire "l’entità della pena irrogata", alla quale commisurare la durata della custodia già subita, occorre considerare l’aumento concretamente inflitto ai sensi dell’art. 81 c.p.

In conclusione deve affermarsi il seguente principio di diritto: "in caso di reati uniti dal vincolo della continuazione – alcuni dei quali, compreso il più grave, commessi entro il termine previsto dal provvedimento di clemenza ed altri successivamente – la pena per quello o quelli satelliti, suscettibili di comportare la revoca dell’indulto e quindi di precluderne l’applicazione, va individuata nell’aumento inflitto a titolo di continuazione per ognuno di questi, spettando al giudice dell’esecuzione interpretare sul punto il giudicato, qualora ivi siano state omesse le singole specificazioni". Di conseguenza, venendo alla vicenda in esame, risulta che la concessione del beneficio è stata illegittimamente negata, ritenendosi che entro i cinque anni dall’entrata in vigore del D.P.R. 394/90 l’A. avesse commesso ulteriori fatti di concussione, comportanti revoca di un’eventuale concessione: ciò in quanto si è effettuato erroneo riferimento alla pena edittale minima prevista per l’ipotesi delittuosa astratta; invece, poiché l’aumento complessivo per tutti i reati satelliti di concussione (in numero di 6) è stato riconosciuto, in sede di esecuzione, nella misura di anni 1 e mesi 10 di reclusione, è evidente, anche senza necessità di addivenire ad ulteriori determinazioni, che il trattamento sanzionatorio adottato per ognuno dei medesimi e precipuamente per ognuno di quelli commessi entro il termine suddetto, non è idoneo a far scattare la condizione risolutiva.

S’impone quindi, in accoglimento del ricorso dell’A., l’annullamento dell’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Messina la quale, attenendosi al principio enunciato, dovrà procedere a nuovo esame della fattispecie, verificando l’applicabilità o meno dell’indulto di cui al D.P.R. 394/90 in considerazione della data di commissione dei vari reati oggetto della condanna definitiva subita dal ricorrente.

P.Q.M.

La Corte, annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte di appello di Messina.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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