Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-07-2012, n. 12782 Mobbing

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo

M.N. conveniva in giudizio avanti il Tribunale del lavoro di Milano la Nigra servizi integrati soc. coop. chiedendo il riconoscimento di una qualifica superiore, la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimatogli per giusta causa e che fosse accertata la responsabilità della società per i comportamenti "mobbizzanti" posti in essere nei suoi confronti nel corso del rapporto di lavoro. Il Tribunale del lavoro di Milano con sentenza n. 4437/2007 accoglieva solo la prima domanda concernente il superiore inquadramento.

Sull’appello del lavoratore la Corte di appello di Milano con sentenza del 27.1.2010 rigettava l’appello. La Corte territoriale riteneva non provato il dedotto comportamento persecutorio, vessatorio e discriminatorio nei confronti del M. in quanto alcuni episodi descritti come intenzionalmente diretti a danneggiare quest’ultimo e motivati da un "fumus persecutionis" nei confronti dello stesso come il trasferimento del lavoratore o il suo demansionamento in realtà erano giustificati dalla difficoltà di reperire una posizione di lavoro per il M., che era stato a lungo assente. I certificati medici prodotti non provavano in specifico quale fosse la causa specifica del "disadattamento reattivo" alla situazione lavorativa, rispetto alla quale sussistevano anche questioni di ordine economico. La frase pronunciata dal M. "stai attento a quello che fai" era grave ed univocamente minacciosa, pronunciata nei confronti del Direttore della casa di cura (OMISSIS) (ove era addetto il ricorrente) che l’aveva appena richiamato e quindi costituiva un comportamento idoneo a rompere il rapporto fiduciario tra le parti, anche perchè comportamenti del genere non erano nuovi. Peraltro non era stato impugnato i capo della sentenza con la quale era stata rigettata la domanda di riconoscimento del carattere simulato del rapporto associativo e non era stata impugnata anche la delibera di espulsione del ricorrente dalla cooperativa.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il M. N. con due motivi; resiste parte intimata con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione di norme del diritto. Artt. 2087 e 2043 c.c. Risarcimento danni per "mobbing". Era stata provata una serie di condotte erosive della personalità e professionalità del dipendente con un progressivo logoramento della sua stessa integrità fisica. La grave sindrome ansioso-depressiva era da ascrivere a problemi ingenerati nell’ambiente di lavoro ed alle continue vessazioni subite ad opera della Cooperativa.

Il motivo è infondato. Nel motivo non si dubita della pregevole ricostruzione dell’istituto di origine giurisprudenziale denominato "mobbing" e dei suoi presupposti ormai da tempo configurati dalla stessa giurisprudenza di legittimità (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata); si richiamano invece episodi già esaminati dai Giudici di merito che hanno escluso, con una puntuale ricostruzione dei fatti, che sia il trasferimento subito sia l’adibizione a mansioni inferiori fossero dovuti all’intento di perseguitare con gratuiti atti vessatori il ricorrente; in realtà ha sostenuto a Corte territorialttaii episodi erano giustificati proprio dalla difficoltà di reperire posizioni idonee di lavoro ai ricorrente che era stato a lungo assente (per ben due giorni su tre dal 4.2.2005; cfr. pag. 4 del provvedimento impugnato). Anche i certificati medici prodotti sono stati esaminati dalla corte territoriale che ha osservato come dagli stessi non emergesse la causa specifica del disadattamento reattivo sofferto dal ricorrente. Pertanto sul punto del risarcimento del danno per violazione degli artt. 2043 e 2087 c.c. (cosiddetto da "mobbing") la motivazione appare congrua e logicamente coerente, con un riferimento puntuale alle risultanze di causa; mentre le censure sono in realtà mirate ad una rivalutazione del fatto, come tale inammissibile in questa sede.

Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. La frase pronunciata non costituiva una minaccia, ma era rivolta ad un terzo estraneo, inoltre non era stata provata.

Anche il secondo motivo appare infondato. Il fatto è stato dettagliatamente ricostruito nella sentenza impugnata dalla quale emerge, alla stregua delle prove espletate, che la frase fu pronunciata nei confronti del Direttore della casa di cura (OMISSIS) ove il ricorrente era addetto e che indubitabilmente si presentava, dato anche il contesto, come una minaccia (il Direttore aveva appena ripreso il M.); il ricorrente non era nuovo in reazioni del genere. Pertanto; posto che la frase deve essere ritenuta per il suo contenuto semantico e per il contesto in cui fu pronunciata come una minaccia, la motivazione per cui il licenziamento è stato ritenuto giustificato appare congrua e logicamente coerente e fondata su argomenti condivisibili. Peraltro si deve in ogni caso osservare che nella sentenza impugnata si è ricordato che il lavoratore non ha impugnato il capo della sentenza di primo grado che ha rigettato la sua domanda di simulazione del rapporto associativo nè ha proposto opposizione alla delibera di esclusione da socio. Su tale punto della sentenza impugnata non vi è stata impugnazione, sicchè appare comunque definitivo il provvedimento di espulsione dalla Cooperativa datrice di lavoro.

Si deve quindi rigettare il ricorso: le spese del giudizio di legittimità – liquidate come al dispositivo – seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 40,00 per esborsi, nonchè in Euro 3.000,00 per onorari di avvocato, oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2012

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