Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 23-07-2012, n. 12769 Licenziamento Mobbing

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo

Con sentenza del 6 aprile 2004 il Tribunale di Roma ha condannato l’Unione Italiana Ciechi al pagamento in favore di K. G. della somma di Euro 6.506,00 in via equitativa a titolo di risarcimento del danno per l’illegittimo demansionamento per il periodo 22 marzo 2001 – 15 novembre 2001, ed ha dichiarato illegittimo il licenziamento irrogato al K. condannando l’Unione Italiana Ciechi alla riassunzione del ricorrente o, in mancanza, al pagamento del risarcimento del danno nella misura di sei mensilità pari ad Euro 19.518,00. Con sentenza non definitiva dell’11 giugno 2008 la Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’appello incidentale proposto dall’Unione Italiana Ciechi in relazione alla dichiarata dequalificazione, ed ha accolto il medesimo appello incidentale in relazione al riconosciuto danno alla professionalità, dichiarando la nullità del relativo capo della sentenza perchè ultra petita. La Corte territoriale ha motivato tale pronuncia considerando che la domanda relativa al demansionamento può considerarsi inclusa in quella relativa al mobbing di cui costituisce una delle manifestazioni; quanto, invece, al danno alla professionalità la Corte romana ha considerato che la relativa domanda non può essere compresa nel dedotto demansionamento, mentre il danno richiesto e relativo all’immagine ed al danno biologico si riferisce solo alla sfera psico fisica, per cui il capo della domanda relativa al suddetto danno alla professionalità deve considerarsi nullo perchè costituente domanda nuova. Con sentenza definitiva del 17 dicembre 2009 la stessa Corte d’appello, in parziale riforma della suddetta sentenza di primo grado, ha condannato l’Unione Italiana Ciechi al pagamento in favore del K. della somma di Euro 4.284,54 a titolo di risarcimento del danno biologico, e della somma di Euro 48.795,00 pari a quindici mensilità di retribuzione, dichiarando inammissibili, in quanto costituenti domande nuove, le conclusioni in appello relative alla reintegrazione ed al risarcimento del danno pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento alla reintegra. In particolare la Corte romana ha quantificato il danno biologico a mezzo di consulenza tecnica, mentre ha ritenuto legittima la pronuncia relativa alla reintegra conseguente all’illegittimo licenziamento sussistendo il requisito dimensionale, per non aver il datore di lavoro, a cui incombe il relativo onere, provato il contrario. Tuttavia la stessa Corte d’Appello ha ritenuto inammissibile la domanda di risarcimento relativa all’illegittimo licenziamento L. n. 300 del 1970, ex art. 18 e pari a tutte le retribuzioni maturate dall’epoca del licenziamento a quella della effettiva reintegra, in quanto il ricorrente ha chiesto, con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la reintegra ed il risarcimento pari a quindici mensilità e non la tutela reale che consente la condanna richiesta.

Avverso tali sentenze ha proposto ricorso per cassazione il K. articolandolo su dodici motivi.

Resiste con controricorso l’Unione Italiana Ciechi che propone ricorso incidentale articolandolo su tre motivi.

Il K. resiste con controricorso al ricorso incidentale.

Motivi della decisione

I primi tre motivi del ricorso principale riguardano l’impugnazione alla sentenza non definitiva. Con il primo si lamenta error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 112 cod. proc. civ.. In particolare si deduce la nullità della sentenza e del procedimento per la proposizione della domanda di risarcimento del danno alla professionalità nel primo grado di giudizio, e violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.

Con il secondo motivo si lamenta error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione agli artt. 112, 324, 329, 342, 346 e 434 cod. proc. Civ.. In particolare si deduce la nullità della sentenza e del procedimento per la mancata impugnazione in appello del capo della sentenza di primo grado che ha riconosciuto il danno alla dignità, violazione del giudicato e violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e del principio del tantum devolutum quantum appellatum.

Con il terzo motivo si deduce omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5. In particolare si assume il difetto di motivazione in ordine alla mancata proposizione in primo grado della domanda di risarcimento danni conseguenti all’accertato demansionamento, ed in particolare del danno alla professionalità e del danno all’immagine ed alla dignità, e difetto di motivazione in ordine alla declaratoria di nullità.

Con gli altri motivi si censura la sentenza definitiva. In particolare con il quarto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento agli artt. 83, 84 e 100 cod. proc. civ. in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5 ed agli artt. 1353 e 1354 cod. civ., e violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. deducendosi l’inesistenza di un valido atto di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra, il mancato esercizio del diritto potestativo di opzione nelle forme richieste dalla legge, il difetto di interesse ad agire, e la condizione impossibile e conseguente nullità dell’esercizio del diritto di opzione.

Con il quinto motivo si lamenta error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 112 cod. proc. civ.. In particolare si deduce la nullità della sentenza e del procedimento, l’omessa pronuncia sulla domanda di reintegra, la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e del principio del tantum devolutum quantum appellatum.

Con il sesto motivo si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 18 assumendosi la sussistenza dell’obbligo di reintegrazione anche ove si ritenesse esistente un eventuale esercizio del diritto di opzione.

Con il settimo motivo si lamenta error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione agli artt. 414, 420, 345 e 437 cod. proc. civ. deducendosi la nullità della sentenza e del procedimento per la proposizione della domanda di reintegrazione già in primo grado.

Con l’ottavo motivo si lamenta difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 in ordine alla reintegra.

Con il nono motivo si deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 414, 420, 437 e 345 cod. proc. civ. nella parte in cui la sentenza impugnata ha considerato inammissibile, ritenendola nuova, la domanda di risarcimento del danno subito dal lavoratore dal licenziamento all’effettiva reintegra.

Con il decimo motivo si lamenta difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 in ordine all’interpretazione della domanda da parte del giudice di primo grado così come operata dal giudice di appello.

Con l’undicesimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18 nella parte in cui non è stato riconosciuto il diritto al pagamento delle retribuzioni dal licenziamento alla reintegrazione.

Con il dodicesimo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18 riguardo alla sussistenza dell’obbligo di reintegra e di risarcimento del danno.

Con il primo motivo del ricorso incidentale si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2103 cod. civ. nonchè dell’art. 345 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per avere erroneamente affermato che non costituisce inammissibile modificazione della domanda in appello far valere la violazione dell’equivalenza quando in primo grado si è prospettato esclusivamente il mobbing. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 3000 del 1970, art. 18 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per avere la corte d’Appello erroneamente affermato che l’onere della prova relativo alle dimensioni dell’organico aziendale graverebbe su datore di lavoro. In subordine si solleva la questione di costituzionalità delle norme che disciplinano l’onere della prova dei requisiti dimensionali per la tutela reale, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. in relazione alle situazioni in cui, nel corso del processo cambi l’orientamento delle Sezioni Unite e non venga concesso alla parte che subisce tale sbandamento del diritto di difesa, conseguente al ribaltamento dell’onere della prova, la rimessione in termini per contro dedurre e difendersi.

Con il terzo motivo, relativo al ricorso incidentale condizionato, si lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, della L. n. 604 del 1966, art. 8 e 112 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per avere erroneamente affermato che la domanda avverso il licenziamento fosse quella relativa alla L. n. 300 del 1970, art. 18 e non quella relativa alla L. n. 604 del 1966, art. 8 ed insufficiente e contraddittoria motivazione.

I primi tre motivi del ricorso principale possono esaminarsi congiuntamente riferendosi tutti all’interpretazione della domanda introduttiva. I motivi sono infondati. Questa Corte ha recentemente ribadito che l’interpretazione della domanda giudiziale è riservata al giudice di merito ed è perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che essa confligga con qualche specifica norma di diritto. Pertanto, la Corte di cassazione è abilitata all’espletamento di indagini dirette al riguardo soltanto allorchè il giudice di merito abbia omesso l’indagine interpretativa della domanda, ma non se l’abbia compiuta ed abbia motivatamente espresso il suo convincimento in ordine all’esito dell’indagine (Cass. 11 marzo 2011 n. 5876). Nel caso in esame la corte territoriale ha ampiamente motivato con considerazioni logiche e giuridicamente corrette, il limite della domanda iniziale rivolta al risarcimento del danno fisico e biologico con esclusione di quello alla professionalità sottolineandone la diversa natura. Tale giudizio, come detto congruamente motivato, sfugge ad ogni censura di legittimità in questa sede.

Sono invece fondati gli altri motivi del ricorso principale che pure possono essere esaminati congiuntamente riferendosi tutti alla ritenuta inammissibilità della domanda risarcitoria conseguente alla dichiarata illegittimità del licenziamento. Osserva il collegio che il riconoscimento della nullità del licenziamento comporta, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18 la reintegra nel posto di lavoro "ex tunc", con tutti i diritti conseguenti, la cui richiesta è implicita in quella di sostanziale ricostruzione della posizione lavorativa; ne consegue che non può ritenersi viziata da ultrapetizione la sentenza di merito che, a fronte di una richiesta di reintegra nel posto di lavoro, consideri detta domanda, in assenza di ogni eccezione di controparte anche in ordine ad un eventuale "aliunde perceptum" di cui si affermi la ricorrenza, come comprensiva, oltre che del ripristino del rapporto, anche della retribuzione a dei contributi relativi (in tal senso Cass. 4 febbraio 1997 n. 1045). Pertanto ha errato la corte territoriale nel considerare la domanda del lavoratore che ha chiesto la dichiarazione di nullità del licenziamento limitata alla reintegra considerando autonoma la tutela risarcitoria di cui all’art. 18 della legge da ultimo citata.

Con riferimento a tale accoglimento dei motivi di ricorso la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla medesima Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, che considererà ammissibile la tutela risarcitoria invocata dal ricorrente K. in virtù del principio di diritto sopra enunciato.

Il primo motivo del ricorso incidentale è infondato. Riguardo all’interpretazione della domanda valgano le considerazioni svolte in relazione ai primi tre motivi del ricorso principale che, sia pure per diverso aspetto, si riferiscono all’interpretazione della domanda.

Il secondo motivo del ricorso incidentale è parimente infondato. La questione dell’onere della prova sul requisito dimensionale, come riconosciuto dal medesimo ricorrente incidentale, è stata risolta dalle Sezioni unite di questa Corte che hanno ritenuto che tale onere incomba sul datore di lavoro (Cass. Sez. Un. 10 gennaio 2006 n. 141).

Tale interpretazione non rende incostituzionale la norma relativa al requisito dimensionale in quanto appare razionale e non sottrae alcun mezzo di difesa al datore di lavoro che ha gli strumenti per calcolare il numero dei propri dipendenti ed avrebbe potuto provare senza alcun pregiudizio difensivo tale circostanza anche nel corso del giudizio dopo l’inversione dell’orientamento giurisprudenziale in proposito.

Anche il terzo motivo del ricorso incidentale è infondato riferendosi ad un’interpretazione della domanda incensurabile in sede di legittimità per le considerazioni sopra svolte.

Le spese di giudizio saranno regolate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione accoglie i motivi di ricorso dal quarto al dodicesimo e rigetta gli altri motivi del ricorso principale e il ricorso incidentale;

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2012

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