Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 24-01-2013) 11-03-2013, n. 11494 Ebbrezza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

F.V. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, in parziale riforma di quella di primo grado – che lo aveva condannato alla pena di mesi due di arresto ed Euro 1.000,00 di ammenda per il reato di cui all’art. 186 C.d.S., comma 2, lett. c) sostituiva la suddetta pena detentiva con la pena dell’ammenda, disponendone il pagamento rateale e confermando la confisca del veicolo (il fatto risale al (OMISSIS)).

Le doglianze riguardano il diniego dell’applicazione del novum normativo di cui all’art. 186 C.d.S., comma 9 bis, con la conseguente sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità e l’applicazione della sanzione accessoria della confisca del veicolo.
Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato.

Il primo motivo è manifestamente infondato a fronte della insindacabile decisione del giudice di appello, nell’ambito della valutazione discrezionale che gli compete alla luce dei criteri di cui all’art. 133 c.p., di non accogliere, per i plurimi precedenti penali dell’imputato, la richiesta di sostituzione della pena con la sanzione del lavoro di pubblica utilità.

E’ inoltre condivisibile anche l’altra argomentazione utilizzata per non accogliere la invocata sostituzione con il lavoro di pubblica utilità, basata essenzialmente sul rilievo che il novum normativo integrerebbe una disposizione più favorevole, ma sarebbe inapplicabile nello specifico perchè non vi sarebbe stata una esplicita richiesta di "innalzamento" della pena principale, imposto in conseguenza del fatto che la pena prevista per l’ipotesi di cui alla lett. c) dell’articolo a seguito della novella di cui alla L. n. 120 del 2010 era più elevata di quella prevista in precedenza e applicata nel caso di specie: ciò che avrebbe impedito di applicare il novum normativo, per l’impossibilità di un frazionamento della disposizione sopravvenuta che doveva essere applicata semmai nella sua interezza.

In realtà non è infatti dubitabile che l’applicazione del lavoro di pubblica utilità si risolve in una disposizione di favore per il reo, che quindi dovrebbe e potrebbe trovare applicazione, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 4, anche ai fatti commessi sotto il vigore della previgente disciplina, laddove non definiti con sentenza irrevocabile.

Va, inoltre, evidenziato, come espresso correttamente dal giudicante, che, una volta individuata la disposizione complessivamente più favorevole, il giudice deve applicare questa nella sua integralità, ma non può combinare un frammento normativo di una legge e un frammento normativo dell’altra legge secondo il criterio del favor rei, perchè in tal modo verrebbe ad applicare una terza fattispecie di carattere intertemporale non prevista dal legislatore, violando così il principio di legalità: da ciò discende che, laddove il giudice ritenga di accedere alla richiesta di applicazione del lavoro di pubblica utilità, per i limiti edittali della pena detentiva da sostituire dovrà avere riguardo a quelli anche più gravi: cfr., ad esempio, il nuovo limite edittale previsto per l’art. 186, comma 2, lett. c) attualmente vigenti, che prevede l’ammenda da Euro 1500,00 ad Euro 6.000,00 e l’arresto da sei mesi ad un anno sul punto, per utili riferimenti sul tema, cfr. Sezione 4, 12 luglio 2011, n. 32463, Bergese.

Manifestamente infondato è anche l’altro motivo.

La Corte di merito ha fatta corretta applicazione del principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui, anche a seguito delle modifiche introdotte dalla L. 29 luglio 2010, n. 120, art. 33 agli artt. 186 e 187 C.d.S., è rimasto fermo per il giudice, nel caso di sentenza di condanna o di applicazione della pena, l’obbligo (previsto per espressa disposizione di legge a seguito del cosiddetto "decreto sicurezza" di cui al decreto L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito dalla L. 24 luglio 2008, n. 125) di disporre la confisca del veicolo condotto dal trasgressore (quale "sanzione amministrativa accessoria", giusta il nuovo testo dell’art. 224 ter C.d.S., che ha così qualificato una misura che in precedenza era da considerare una "sanzione penale accessoria", in forza di quanto statuito dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni unite della cassazione, rispettivamente nelle sentenze 4 giugno 2010 n. 196 e 25 febbraio 2010, Proc. Rep. Trib. Pordenone in proc. Caligo). Per l’effetto, in tali casi, il giudice deve disporre la confisca con la sentenza che, a cura del cancelliere, viene trasmessa in copia al prefetto competente (art. 224 ter C.d.S., comma 2), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea al reato; senza che rilevi che il veicolo oggetto dalla confisca non sia stato sottoposto a sequestro preventivo. Al riguardo, in caso di confisca per fatti commessi prima del novum normativo del 2010, alla tesi della sussistenza dell’obbligo di disporre la confisca non potrebbe opporsi che in tal modo, a seguito della avvenuta trasformazione della natura giuridica del vincolo reale da penale ad amministrativa, si finirebbe con il violare il principio di legalità previsto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1 in tema di sanzioni amministrative.

Infatti, l’art. 1 citato recita "nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione", quest’ultima da intendersi, ovviamente, come violazione "amministrativa": ma le violazioni (nel caso di interesse, quelle di cui agli artt. 186 e 187 C.d.S.) non integrano ipotesi di condotte illegali amministrative, ma esclusivamente penali, solo che per esse si applica anche una sanzione che ha ora natura amministrativa la confisca (cfr., tra le altre, Sezione 4, 25 novembre 2010, Proc. Gen. App. Genova in proc. Portelli, tra l’altro richiamata dalla Corte di merito In parte motiva).

Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Cost., sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del ricorrente medesimo al pagamento delle spese processuali e di una somma, che congruamente si determina in mille Euro, in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *