Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 24-07-2012, n. 12943 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte, Rilevato che:

1. La Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza di prime cure che aveva rigettato la domanda avente ad oggetto, in particolare, la declaratoria dell’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato da Poste Italiane s.p.a. con V.R..

2. La Corte territoriale, premesso che il contratto, protrattosi dal 15 febbraio 2002 al 30 aprile 2002, era stato giustificato da esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accodi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002, e premesso altresì che, in forza di tale contratto, la V. aveva lavorato presso la Filiale di Poste Italiane di (OMISSIS), con inquadramento nell’area operativa e mansioni di portalettere, osservava in primo luogo che correttamente il primo giudice aveva ritenuto inapplicabile al caso di specie la disciplina di cui all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001 invocata nel ricorso introduttivo del giudizio ricadendo la fattispecie, ratione temporis, nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001.

Ciò premesso la Corte territoriale ha rigettato luogo la censura della lavoratrice appellante basata sull’assunto dell’applicabilità al caso di specie della disciplina di cui all’art. 25 dei c.c.n.l.

del 2001; dichiarava poi inammissibile l’ulteriore censura con la quale veniva dedotta la violazione del citato D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 osservando che la domanda originaria era interamente basata sull’applicazione della disciplina di cui alla L. n. 230 del 1962 e della L. n. 56 del 1987, art. 23 e che la nuova prospettazione non integrava una questione di mera qualificazione giuridica della domanda ma bensì incideva sulla causa petendi.

3. Per la cassazione di tale sentenza V.R. ha proposto ricorso affidato a due motivi; Poste Italiane s.p.a. ha resistito con controricorso.

4. Col primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 113 cod. proc. civ. che impone al giudice, secondo la tesi sviluppata nel motivo di censura, di applicare le norme a prescindere dalle allegazioni in diritto della parte. In altre parole il fatto che la lavoratrice non aveva menzionato, nel ricorso introduttivo, la violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001 non poteva precludere l’analisi della fattispecie con riferimento ai parametri indicati dalla normativa da ultimo citata. Col secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 414 cod. proc. civ. per avere la Corte territoriale confermato il rigetto della domanda stabilito in primo grado invece di dichiarare l’inammissibilità e/o nullità del ricorso introduttivo per l’inapplicabilità della normativa invocata.

5. Il primo motivo di ricorso è infondato.

6. La giurisprudenza di legittimità (cfr., ad esempio, Cass. 13 dicembre 2010 n. 25140) ha precisato che, in materia di procedimento civile, l’applicazione del principio iura novit curia di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, fa salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonchè all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. Tale principio deve essere peraltro coordinato con il divieto di ultra o extra petizione ex art. 112 cod. proc. civ. che viene violato quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato. In particolare è preclusa al giudice la decisione basata non già sulla diversa qualificazione giuridica del rapporto, ma anche su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa.

7. La sentenza impugnata ha fatto corretta dei suddetti principi avendo affermato che la domanda attorea, in quanto basata esclusivamente sulla normativa di cui alla L. n. 230 del 1962 e alla L. n. 56 del 1987, art. 23 e sulle disposizioni contrattuali introdotte dall’autonomia collettiva, non poteva essere esaminata alla stregua della disciplina applicabile ratione temporis alla fattispecie, e cioè quella di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 atteso che la notevole diversità fra le suddette discipline non implicava una questione di mera qualificazione giuridica ma imponeva la valutazione di una diversa causa petendi. La correttezza di tale impostazione trova conferma nell’opposta filosofia seguita dal legislatore del 2001 rispetto alla disciplina del contratto a termine fino ad allora in vigore. Particolarmente significativo appare l’abbandono, da parte del D.Lgs. n. 368 del 2001, del ruolo che la L. n. 56 del 1987, art. 23 aveva attribuito alla contrattazione collettiva (cfr. Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588 che ha affermato il principio della cd. delega in bianco) e il rilievo che il legislatore del 2001 ha attribuito, in funzione di garanzia del lavoratore, alla specificità della clausola giustificatrice del termine; è da sottolineare inoltre il diverso rilievo attribuito agli spazi di controllo riservati al giudice in relazione, in particolare, alla verifica del requisito della specificità della suddetta clausola nonchè alla valutazione delle prove sulla sussistenza dei presupposti che legittimano l’apposizione del termine, il che implica una valutazione di circostanze di fatto sostanzialmente diverse.

8. Il secondo motivo è inammissibile per carenza di interesse.

9. Secondo il costante insegnamento di questa Corte di cassazione (cfr., in particolare, Cass. S.U. 19 maggio 2008 n. 12637) l’interesse all’impugnazione – inteso quale manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire e la cui assenza è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo – deve essere individuato in un interesse giuridicamente tutelabile, identificabile nella concreta utilità derivante dalla rimozione della pronuncia censurata, non essendo sufficiente l’esistenza di un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica. Nel caso di specie è evidente la mancanza di una concreta utilità (o comunque tale utilità non è stata esplicitata) nella modifica della decisione nel senso della declaratoria di inammissibilità del ricorso invece che di rigetto dello stesso.

10. Il ricorso va pertanto respinto e la società ricorrente, in applicazione del criterio della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 40,00 per esborsi oltre Euro 3000,00 per onorari e oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2012

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