Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
S.M., titolare dell’omonima ditta individuale, convenne in giudizio V.A., chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 18.490.373 a titolo di saldo per la fornitura e posa in opera di una pavimentazione.
Il convenuto si oppose alla domanda, assumendo che la pavimentazione messa in opera, di cui aveva chiesto inutilmente la rimozione, presentava dei vizi e mancanza di qualità, e formulò domanda di risarcimento dei danni in relazione all’inesatto adempimento della controparte.
L’attore fu quindi autorizzato a chiamare in causa, a titolo di manleva, la ditta da cui aveva acquistato il materiale utilizzato per la pavimentazione, la s.p.a. Granitex, la quale si costituì in giudizio opponendosi alle domande.
Esaurita l’istruttoria, anche mediante una consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale di Venezia accolse la domanda dell’attore, dichiarando inammissibile la riconvenzionale del convenuto in quanto avanzata in via esclusiva.
Interposto gravame da parte del convenuto, che con l’atto di appello chiese anche la risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore, con sentenza n. 301 del 20 febbraio 2006 la Corte di appello di Venezia riformò integralmente la decisione impugnata, respingendo la domanda di pagamento del prezzo avanzata dall’attore, che condannò al pagamento delle spese di lite nei confronti delle altre parti. A sostegno della sua decisione il giudice di secondo grado rilevò, richiamando sul punto gli accertamenti svolti dal consulente tecnico d’ufficio, che l’opera realizzata dall’appaltatore presentava gravi difetti, consistenti in alcune crepe e, soprattutto, nell’erroneo posizionamento delle piastre in marmo, eseguito in modo tale da non evidenziarne lo specifico pregio del tipo di pavimentazione prescelto rappresentato dall’armonia tra le venature al fine della realizzazione di un disegno geometrico, affermando che l’eliminazione degli stessi comportava la necessità dell’intero rifacimento dell’opera; ritenne quindi che la domanda riconvenzionale avanzata dal V. era, oltre che ammissibile, anche fondata, e che, tenuto conto del costo per il rifacimento della pavimentazione viziata e dell’ulteriore pregiudizio costituito dal disagio sopportato dal committente e dalla mancata utilizzazione del bene, il danno risarcibile andava quantificato nella stessa misura del prezzo richiesto dall’appaltatore, con conseguente compensazione integrale dei rispettivi crediti.
Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 31 maggio 2006, ricorre S.M., affidandosi a otto motivi.
Resiste con controricorso V.A., che propone pure ricorso incidentale, sulla base di un unico motivo.
La società Granitex non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., in quanto proposti avverso la medesima sentenza.
Il primo motivo del ricorso principale avanzato da S.M., denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ. e dell’art. 1668 cod. civ. ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, censura la sentenza impugnata per non avere rilevato e dichiarato l’inammissibilità della domanda, avanzata dal convenuto soltanto con l’atto di appello, di risoluzione del contratto per inadempimento della controparte, omettendo qualsiasi valutazione e motivazione al riguardo; analoga doglianza viene formulata con riferimento alla domanda, proposta anch’essa soltanto con l’atto di gravame, diretta al pagamento della somma necessaria per l’eliminazione dei vizi dell’opera, tenuto conto che in primo grado il convenuto aveva chiesto il risarcimento del danno derivante dalla pretesa erronea posa in opera della pavimentazione e dall’asserita mancanza di qualità del materiale impiegato.
Il motivo va respinto.
La prima censura è inammissibile, la seconda infondata.
In particolare, la prima censura è inammissibile una volta considerato che la Corte di appello, nella premessa implicita della ritenuta inammissibilità della domanda di risoluzione in quanto proposta per la prima volta soltanto con l’atto di appello, non l’ha esaminata nè si è pronunziata sul punto, sicchè il motivo, in parte qua, difetta di interesse. Nè può ritenersi, come sembra suggerire il ricorrente, che la sentenza impugnata, laddove ha respinto la domanda di adempimento dell’attore, abbia implicitamente accolto la domanda della controparte di risoluzione del contratto, trovando la relativa statuizione di rigetto autonomo sostegno nell’affermazione dell’inadempimento dell’appaltatore e nel riconoscimento dei danni subiti dal committente.
La seconda censura è invece infondata, attesa la sostanziale identità della domanda di risarcimento dei danni avanzata dal convenuto in primo grado e quindi ribadita in appello, tenuto conto che con la prima la parte aveva fondato la propria pretesa proprio sui difetti lamentati dell’opera e potendo al più ravvisarsi in quella formulata nell’atto di gravame una mera specificazione della domanda precedente, come tale consentita in grado di appello.
Il secondo motivo, che denunzia nullità della sentenza per violazione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, sostiene che la sentenza impugnata è intrinsecamente contraddittoria nella parte in cui ha dichiarato nel dispositivo di accogliere l’appello avanzato dal V., tenuto conto che questi, nel suo atto di gravame, aveva chiesto dichiararsi la risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore, domanda che invece non è stata accolta.
Il mezzo è infondato.
La sentenza impugnata, come già si è rilevato, non si è affatto pronunciata sulla domanda di risoluzione del contratto avanzata dall’appellante, reputandola, sia pure per implicito, inammissibile, sicchè il dispositivo, laddove dichiara di accogliere l’appello, va letto ed interpretato in coerenza con tale presupposto. In ogni caso si osserva che la sentenza va interpretata in modo unitario, collegando logicamente la motivazione ed il dispositivo, e che essa può dirsi viziata soltanto laddove sia ravvisabile un insanabile contrasto tra le ragioni della decisione e la sua statuizione finale, evenienza che invece non si riscontra nel caso di specie, non essendovi dubbio che l’accoglimento del gravame sia stato limitato alla sola domanda di risarcimento dei danni.
Il terzo motivo del ricorso, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 1668 cod. civ., assume l’erroneità della decisione per non avere rilevato che la domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni doveva considerarsi inammissibile, atteso che, nel contratto di appalto, il committente che contesti la presenza di difetti nell’opera può chiedere, oltre, a determinate condizioni, la risoluzione del contratto, la condanna dell’appaltatore alla eliminazione dei vizi o la riduzione del prezzo e, in ogni caso il risarcimento dei danni, ma non già proporre solo quest’ultima al fine di ottenere gli effetti producibili soltanto con l’azione di riduzione del prezzo, avendo le due domande un contenuto diverso e non essendo surrogabili l’una con l’altra.
Il quarto motivo lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamentando che la Corte di appello, pur in presenza di una contestazione dell’appellato circa l’inammissibilità della domanda di danni finalizzata alla riduzione del prezzo, non abbia motivato la propria conclusione sul punto.
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione obiettiva, sono infondati.
La sentenza di appello ha invero motivato sul punto investito da censure, addivenendo alla riforma della pronuncia di primo grado di inammissibilità del domanda riconvenzionale sulla base dell’affermazione che la tutela apprestata dall’art. 1668 cod. civ. al committente si inquadra nell’ambito della normale responsabilità per inadempimento contrattuale, con l’effetto che, qualora l’appaltatore non provveda direttamente alla eliminazione dei vizi, come avvenuto nel caso concreto, egli può sempre chiedere un risarcimento del danno nella misura delle spese necessarie per l’eliminazione dei vizi stessi, aggiungendo che la domanda proposta dal convenuto, "per il modo ampio e generale con cui è stata formulata, non può, infatti, che ricomprendere anche quella di risarcimento del danno pari al costo per l’eliminazione dei vizi e difetti dell’opera".
Il principio di diritto seguito dalla Corte veneziana è conforme al prevalente orientamento di questa Corte (Cass. n. 9033 del 2006;
Cass. n. 23461 del 2004; Cass. n. 11602 del 2002; Cass. n. 169 del 1996) e pertanto va condiviso. In particolare, la contraria interpretazione della norma suggerita dal ricorso, che pure ha avuto credito da parte di una giurisprudenza e di una dottrina non recenti, non può essere accolta perchè la tutela apprestata al committente dall’art. 1668 cod. civ., pur nella sua peculiarità in ragione della specificità del contratto di appalto, va comunque inquadrata nell’ambito della normale responsabilità contrattuale per inadempimento, con l’effetto che il committente può sempre chiedere, in base alle norme generali di questa, il risarcimento del danno nella misura corrispondente alla spesa necessaria all’eliminazione dei vizi, con l’unica particolarità di provare, in questo caso, la colpa dell’appaltatore, senza alcuna necessità del previo esperimento dell’azione di condanna all’esecuzione specifica.
L’esecuzione diretta da parte del committente dei lavori di riparazione dei difetti dell’opera rappresenta esercizio di una facoltà legittima e non richiede, pertanto, il previo e vano esercizio di un’azione di adempimento nei confronti della controparte, tenuto conto che i particolari rimedi previsti dalla disposizione richiamata rappresentano un ampliamento di tutela in favore del committente e non una sua limitazione. Pertanto non è censurabile la sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto al convenuto il diritto di chiedere direttamente il risarcimento dei danni nella misura corrispondente all’entità delle spese necessarie per l’eliminazione dei vizi accertati.
Il quinto motivo del ricorso, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 1668 cod. civ., censura la sentenza impugnata per avere ritento la pavimentazione realizzata dal ricorrente del tutto idonea all’uso cui era destinata, in contrasto con il rilievo che il vizio accertato era un mero vizio estetico, che non ne poteva pregiudicare il godimento.
Il sesto motivo lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, lamentando che la Corte di appello non abbia adeguatamente motivato il suo giudizio sulla inidoneità dell’opera.
I due motivi, che vanno esaminati congiuntamente, sono infondati.
Dalla lettura della sentenza impugnata e dello stesso ricorso (pag.
2) emerge, come dato del tutto pacifico, che l’opera commissionata alla impresa S. aveva ad oggetto la fornitura e posa in opera di marmi di granito a macchia aperta denominato Tropical Guarani da realizzare in modo tale da evidenziare lo specifico pregio del tipo di pavimentazione prescelto, costituito dall’armonia delle venature in grado di rappresentare un disegno geometrico a rombo, tanto che la ditta fornitrice del materiale aveva allegato uno schema con indicazione numerica delle singole lastre di marmo e della relativa posa in opera.
Sulla base di tale premessa e sulla scorta dei conformi accertamenti del consulente tecnico d’ufficio, la Corte di merito ha invece rilevato che non solo erano presenti crepe in alcune marmette, non sostituibili, ma, soprattutto, che la posa in opera non aveva rispettato lo schema richiesto, tanto da far "pensare ad un composito di tesserine disposte di seguito man mano che si prelevavano dal mucchio", sicchè la pavimentazione realizzata non aveva una configurazione precisa ed aveva completamente mancato l’effetto estetico che ne costituiva lo specifico pregio. Ne ha quindi dedotto un giudizio di completa inidoneità dell’opera alla destinazione cui era destinata, quantificando conseguentemente il danno dell’appaltatore nella spesa necessaria per il suo integrale rifacimento.
Questa valutazione, che nei suoi aspetti intrinseci non è censurabile costituendo un apprezzamento di fatto riservato dalla legge alla esclusiva competenza del giudice di merito, appare adeguatamente motivata non solo con riguardo all’esistenza dei difetti, che è pacifica, ma anche alla loro rilevanza ed incidenza in relazione alla prestazione dedotta in contratto. In particolare, la conclusione accolta dalla Corte distrettuale appare sottrarsi a censura per avere, del tutto correttamente, fondato e motivato il proprio convincimento in relazione non già ad una astratta destinazione dell’opera, ma a quelle che erano in concreto le caratteristiche che essa, per contratto, doveva possedere, evidenziando che la pavimentazione, per il materiale prescelto e le sue caratteristiche, nonchè in ragione del fatto che essa interessava il soggiorno della casa di abitazione, doveva possedere un particolare pregio estetico che nella specie era stato del tutto travolto. Proprio in tale valutazione, in particolare, trova confutazione il rilievo critico del ricorso secondo cui, ai fini del giudizio sulla inidoneità dell’opera appaltata alla sua destinazione, non potrebbe assumere valore autonomo e decisivo il solo profilo estetico, non potendo tale criterio, laddove sia condivisibile, trovare comunque applicazione nei casi in cui l’opus si caratterizzi proprio in ragione del suo particolare pregio visivo e del suo gusto armonico.
Il settimo motivo denunzia violazione dell’art. 1226 cod. civ. ed omessa o insufficiente motivazione, per avere riconosciuto alla controparte in via equitativa i danni per il disagio ed il mancato uso del bene senza adeguata e congrua motivazione sul punto.
Anche questo motivo è infondato, tenuto conto, da un lato, che la motivazione in ordine a tali pregiudizi è agevolmente rinvenibile nella rilevata inidoneità dell’opera all’uso cui era destinata e, dall’atro, che attesa la natura dei pregiudizi lamentati, il ricorso da parte del giudice di merito alla valutazione equitativa appare conforme ai criteri legali in tema di risarcimento del danno.
L’ottavo motivo, denunziando nullità della sentenza per insanabile contrasto tra motivazione e dispositivo, lamenta che la Corte di appello, da un lato, abbia riconosciuto la sussistenza del credito del ricorrente, tanto da ritenerlo oggetto di compensazione con la pretesa risarcitoria della controparte e, dall’altro, rigettato la sua domanda di pagamento del prezzo.
Il motivo appare scarsamente intelligibile e comunque è infondato, avendo la Corte disatteso la domanda dell’appaltatore sulla base del rilievo che il danno lamentato dal committente copriva interamente la sua pretesa creditoria.
Il ricorso principale va pertanto respinto.
Con l’unico motivo, il ricorrente in via incidentale V. denunzia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., lamentando che la Corte di appello non si sia pronunciata sulla sua domanda di restituzione degli importi da lui versati alle controparti in esecuzione della sentenza di prima grado, richiesta avanzata in sede di precisazione delle conclusioni all’udienza del 10 ottobre 2005.
Il motivo è fondato.
Risulta dalla lettura della stessa sentenza impugnata (pag. 8) che all’udienza di precisazione delle conclusioni la parte appellante aveva prodotto copia degli assegni circolari versati alle controparti in esecuzione della pronuncia di primo grado ed aveva chiesto la restituzione di quanto pagato a tale titolo, richiesta da considerarsi senz’altro ammissibile, ai sensi dell’art. 345 cod. proc. civ. (Cass. n. 16152 del 2010; Cass. n. 11491 del 2006), tenuto anche conto della deduzione della ricorrente secondo cui il suddetto pagamento avvenne nel corso del giudizio di secondo grado (Cass. n. 11461 del 2004). Su questa domanda il giudice di appello non si è invece pronunciato, incorrendo così nel vizio di omessa pronuncia.
Nè può ravvisarsi nel caso di specie un’ipotesi di rigetto implicito, atteso che la Corte ha accolto l’appello della parte e quindi modificato la sentenza impugnata anche con riguardo alla regolamentazione delle spese del primo grado di giudizio.
Il ricorso incidentale va pertanto accolto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa ad altra Sezione della Corte di appello di Venezia, che provvederà anche alla liquidazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale ed accoglie quello incidentale, cassa in relazione al ricorso incidentale la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese, ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.
Così deciso in Roma, il 11 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2012
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