Cass. civ. Sez. III, Sent., 24-07-2012, n. 12902 Responsabilità civile

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Alle 21 del (OMISSIS) il ciclomotore condotto dal trentaseienne P.M. ed il motociclo (immatricolato in (OMISSIS)) condotto da S.U. si scontrarono frontalmente. Lo S. decedette immediatamente, il P. dopo due ore.

La moglie del P., F.O., anche in rappresentanza delle due figlie C. e P.V., di 8 e 2 anni al momento del sinistro, agì giudizialmente per il risarcimento nei confronti dell’UCI (Ufficio Centrale Italiano società consortile a r.l.), convenendo anche gli eredi dello S..

L’UCI resistette, invocando la paritetica responsabilità concorrente dei conducenti e corrispondendo in corso di causa la somma di L. 100.000.000, in aggiunta a quella di L. 100.000.000 già versata prima dell’instaurazione del giudizio.

Con sentenza n. 15856/03 il Tribunale di Milano determinò nel 95% l’apporto causale colposo dello S. e condannò l’UCI al pagamento della complessiva somma di Euro 265.277,97, di cui Euro 220.000 per danno non patrimoniale, al netto della percentuale di concorso del P. ed al lordo degli acconti, oltre agli accessori.

2.- La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 1783/07, depositata il 22.6.2007, in parziale accoglimento dell’appello dell’attrice in punto di quantum debeatur ha liquidato nella maggior somma di Euro 448.000 l’entità complessiva del danno in moneta dell’epoca della sentenza di secondo grado, al netto della riduzione del 5% per il concorso causale del defunto.

Ha in particolare elevato:

da Euro 60.000 ad Euro 100.000 la somma riconosciuta per il danno non patrimoniale a ciascuna delle figlie e da Euro 100.000 ad Euro 135.000 quella dovuta allo stesso titolo alla vedova del P.;

– nonchè da Euro 56.939,97 ad Euro 113.000 la liquidazione del danno patrimoniale complessivamente subito dai superstiti.

Ha stabilito che tale somma complessiva fosse da devalutare e da maggiorare di anno in anno di rivalutazione e interessi.

3.- Avverso la sentenza ricorrono per cassazione F.O., anche in rappresentanza della figlia minore P.V. e P.C., articolando nove motivi, cui resiste con controricorso l’Ufficio Centrale Italiano.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa. Con la propria memoria le ricorrenti hanno rinunciato all’ottavo motivo di ricorso.
Motivi della decisione

1.- Tutti i motivi attengono all’entità del danno: i primi quattro alla liquidazione di quello non patrimoniale diretto del coniuge e dei congiunti, il quinto alla determinazione del danno patrimoniale, il sesto ed il settimo al mancato riconoscimento del danno non patrimoniale in capo al defunto, il nono alla mancata quantificazione del residuo dovuto in relazione agli acconti ricevuti.

Non sarà scrutinato l’ottavo motivo, col quale era dedotta violazione del giudicato interno in ordine alla misura degli interessi compensativi determinata dal giudice di primo grado, per avervi i ricorrenti rinunciato in relazione al principio enunciato da Cass., sez. un., n. 8521/2007 nel senso che, nei debiti di valore, non può invocarsi il giudicato in ordine alla misura legale degli interessi precedentemente attribuiti se il giudice di secondo grado ridetermini l’entità del risarcimento.

A) Il danno non patrimoniale diretto dei congiunti, dagli stessi richiesto iure proprio.

2.- I primi due motivi investono la decisione, mediante la rispettiva deduzione del vizio di motivazione e di violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2056 e 1226 c.c., nella parte in cui la Corte territoriale, nella liquidazione del danno non patrimoniale patito dalle attrici per la morte del consorte e del padre, ha bensì aumentato le somme determinate dal tribunale – ritenute dalla Corte d’appello inadeguate in relazione alle violente circostanze della morte, all’età della vittima primaria (36 anni), alla durata del matrimonio (13 anni) ed all’età delle figlie (di 8 e di 2 anni) – ma non ha illustrato il percorso logico-giuridico-matematico che, in relazione alla dichiarata applicazione delle tabelle milanesi, ne giustificasse l’elevazione nella misura stabilita.

Le ricorrenti si dolgono in particolare che, dopo le condivisibili affermazioni della Corte territoriale in ordine all’utilizzazione delle tabelle (che, salvo il loro adattamento alle circostanze del caso, consentono di "legare il risarcimento, mediante l’uso di valori comuni a tutte le situazioni fra loro confrontabili, eliminando i margini di discrezionalità pura, estranei al procedimento di liquidazione equitativa"), il "danno morale comprensivo del danno esistenziale" sia stato poi liquidato, in valori attuali del giugno 2007, in Euro 135.000 per la moglie ed in Euro 100.000 per ciascuna delle figlie (i due valori erano stati determinati dal Tribunale meneghino, ai valori del maggio 2003, in Euro 100.000 ed in Euro 60.000), affermando null’altro che quanto segue: "detti valori sono stati ottenuti calcolando in base alle predette tabelle l’ammontare del danno biologico che sarebbe spettato alla vittima se fosse sopravvissuta con una invalidità permanente totale e di poi individuando tra i due estremi della possibile liquidazione il valore risarcitorio ritenuto discrezionalmente più adeguato, in relazione alle specifiche circostanze personali e familiari sopra citate" (pagine da 7 a 9 della sentenza).

La mancata indicazione dei due estremi della possibile liquidazione non consentiva neanche di cogliere (a) a quale tabella la Corte d’appello si fosse riferita, dovendosi escludere che avesse avuto riguardo a quella edita dall’Osservatorio dei giudici del distretto di Milano nel 2004, che prevedeva una forbice tra i 100 ed i 200 mila Euro (prime righe di pag. 16 del ricorso); (b) in quale misura fosse stata apprezzata la "componente esistenziale" del danno non patrimoniale.

Non era dato comunque sapere (c) quale fosse il collegamento logico tra l’ipotetico danno biologico della vittima primaria e quello non patrimoniale delle vittime secondarie (in realtà affermano i ricorrenti – le precedenti tabelle erano incentrate sul danno morale soggettivo della vittima primaria, ove fosse sopravvissuta con un danno biologico del 100%); e neppure (d) perchè la Corte territoriale avesse scelto proprio le cifre liquidate, piuttosto che altre, essendo stato alle figlie concesso verosimilmente il minimo delle tabelle del 2004 (ultime righe di pag. 18, contrastanti con quanto ventilato due pagine prima); (e) se si fosse considerata la lesione del diritto alla propria sessualità da parte della trentasettenne moglie, non risposatasi a 12 anni dal fatto.

Insomma, era stata resa una decisione la cui correttezza era impossibile da verificare, confrontare (con altra, recante il n. 447/2004, che tre anni prima aveva liquidato cifre ben superiori in vicenda analoga) e criticare.

2.1.- Va premesso che nessuna tabella risulta mai depositata in atti (sulla possibilità di produrle in cassazione cfr. la recentissima sentenza 2.6.2012, n. 8557) e che le tabelle milanesi, pur dopo la riconosciuta valenza delle stesse quale parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. (Cass. n. 12408/2011), non costituiscono certo disposizioni normative cui sia applicabile il principio ius novit curia.

Se, dunque, la Corte d’appello – nell’innalzare l’entità del risarcimento per il danno non patrimoniale subito dalla moglie e dalle figlie del defunto – abbia, nel 2007, fatto applicazione delle tabelle elaborate alla data della sentenza di primo grado (2003), oppure di tabelle successive, non è dato alla Corte di Cassazione sapere in difetto di indicazioni sul punto nella sentenza impugnata, che in proposito nulla precisa. E neppure è dato sapere se effettivamente quelle del 2004 prevedessero una forbice base da 100.000 a 200.000 euro (come affermato dalle ricorrenti all’inizio di pag. 29 del ricorso ), o se, "secondo la tabella 2003 del Tribunale di Milano", alla moglie convivente potesse riconoscersi, per la perdita del marito, da un quarto ad un mezzo "del danno biologico che sarebbe spettato al congiunto ove sopravvissuto con un’invalidità del 100%" (come affermato dalle stesse ricorrenti a pag. 7 della memoria illustrativa); nè quali in tal caso fossero i valori di riferimento.

L’unico dato sul quale lo scrutinio può essere svolto è allora costituito dalla frase della sentenza impugnata sopra riportata in corsivo, che non contiene l’indicazione dei due estremi della possibile liquidazione, così non consentendo ai ricorrenti di comprendere alle tabelle di quale anno la Corte d’appello avesse avuto riguardo; ed ha peraltro effettuato la liquidazione direttamente all’attualità, così impedendo di cogliere anche se avesse applicato la tabella del 2007 (con conseguente difetto dei presupposti della rivalutazione), o alla tabella dell’epoca della sentenza di primo grado (nel qual caso la rivalutazione si sarebbe dovuta senz’altro riconoscere).

In siffatto contesto, si impone la cassazione per difetto di motivazione.

Non vi sono invece spazi per lo scrutinio della diversa questione, pur meritevole di ampio approfondimento, di quale sia la tabella cui deve aver riguardo il giudice di secondo grado: se quella dell’epoca della pronuncia di primo grado (cui il giudice dell’appello non può non conformare il proprio giudizio sulla correttezza della sentenza del primo giudice, salva la rivalutazione monetaria), oppure quella dell’epoca della propria decisione (come ritenuto da Cass., 12/5/2012, n. 7272, che ha avuto peraltro riguardo alle innovazioni apportate alle tabelle milanesi dopo l’arresto delle sez. un. di cui alle sentenze nn. 26972-26975 del 2008)), che in ipotesi si differenzi dall’altra per aspetti ulteriori rispetto a quello concernente il mero adeguamento al mutato potere d’acquisto della moneta.

Ma si tratta di un problema che neppure le ricorrenti esplicitamente pongono.

Va dunque accolto il primo motivo e rigettato il secondo.

3.- Col terzo e col quarto motivo di ricorso sono denunciate violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 29 e 30 Cost. e art. 112 c.p.c. in relazione alla posizione della vedova e delle figlie del defunto: quanto alla prima, per non avere la Corte di merito precisato se e in quale misura avesse considerato i pregiudizi ulteriori (perdita del diritto all’esplicazione della sessualità ed all’assistenza morale e materiale da parte del coniuge defunto) rispetto al danno morale soggettivo, senza dare preciso conto di quanto quella considerazione avesse influito nella liquidazione complessiva del danno non patrimoniale; quanto alle seconde (di 2 ed 8 anni), per avere omesso analoghe indicazioni in relazione ai pregiudizi consistiti nella perdita delle possibilità di essere educate, mantenute ed istruite dal padre.

3.1.- Entrambi i motivi sono infondati alla luce dei principi enunciati da Cass., sez. un., n. 26972/2008 (e dalle ulteriori coeve sentenze) e dell’avvenuta considerazione da parte della Corte d’appello di tutte le circostanze suscettibili di assumere rilievo, inclusa la durata del matrimonio (e, non esplicitamente, solo l’età della vedova, che tuttavia è comunemente vicina a quella dell’altro coniuge e che, nella specie, era di anno superiore all’età del marito, sicchè va radicalmente escluso che la mancata espressa menzione di quel dato sia significativa della sua incidenza sulla somma liquidata).

Anche del pregiudizio alla piena esplicazione della propria sessualità risulta che la Corte d’appello abbia tenuto conto, laddove espressamente ne fa menzione (a pag. 6, secondo capoverso).

Ed è irrilevante che lo abbia fatto nel dar conto del petitum, senza poi ripeterlo nell’elencazione delle circostanze considerate.

Va piuttosto chiarito – in relazione al fulcro della censura, costituito dal non avere la Corte d’appello dato preciso conto di quanto avessero influito sulla liquidazione complessiva del danno non patrimoniale i vari pregiudizi patiti dai superstiti – che a tanto il giudice del merito non è tenuto per due sostanziali ragioni.

Per un verso, perchè un’attività di valutazione complessiva di una serie di circostanze, a loro volta incidenti sul tipo e sull’entità del pregiudizio, non si presta ad una quantificazione monetaria partitamente riferita ad ogni fattore che ne determina la gravita (id est, secondo la prospettazione delle ricorrenti: per il coniuge, tanto per la perdita della possibilità di godere appieno della propria sessualità, tanto per la perdita dell’assistenza morale, tanto per la perdita dell’assistenza materiale a sua volta inducente preoccupazione; per i figli, tanto per la perdita dell’integrità familiare, tanto per perdita delle prestazioni lato sensu assistenziali del padre, tanto per la perdita della possibilità di essere educati anche da lui, e cosi via).

In secondo luogo perchè il giudice è chiamato ad effettuare un’operazione che consiste pur sempre nella traduzione in termini monetari di un danno non patrimoniale, sicchè – ove la liquidazione sia ricompresa nei limiti tabellari e tenga conto di circostanze tipizzate – la sua valutazione è censurabile in cassazione solo se si discosti dalle considerazioni logiche che la sorreggono.

B) Il danno non patrimoniale subito dal defunto, richiesto iure hereditario dai congiunti.

4.- Col sesto e col settimo motivo sono rispettivamente denunciati:

insufficiente motivazione sul punto decisivo del dolore patito dalla vittima (che aveva riportato lo spappolamento di varie parti ossee e lo strappo di un braccio) nelle due ore precedenti il decesso, anche in considerazione della mancata ammissione di consulenza tecnica d’ufficio volta al relativo accertamento;

– violazione dell’art. 2 Cost., artt. 185 c.p. e 2059 c.c., essendo sufficiente che la vittima sia sopravvissuta per qualche attimo perchè le sia accordato il relativo risarcimento, "comprensivo della perdita della vita e delle lesioni di connaturati beni quali la salute e l’integrità morale dei sentimenti" (così il ricorso, a pag. 51, in fine).

4.1.- Le censure sono infondate alla luce dei seguenti principi, reiteratamente enunciati e costituenti consolidati orientamenti giurisprudenziali di questa Corte: – il danno biologico, inteso come lesione della salute e dei pregiudizi che da quella lesione derivano, non è risarcibile se il defunto non sia sopravvissuto alle lesioni per un tempo apprezzabile (nella specie, circa 2 ore);

il danno cosiddetto "catastrofale", consistente nella sofferenza psichica connessa alla consapevolezza della gravità delle lesioni e della possibile imminenza della morte è risarcibile a favore del soggetto che lo abbia subito anche quando il periodo di sopravvivenza sia stato molto breve, ma presuppone lo stato di coscienza della vittima (le ricorrenti non affermano che così fosse e la controricorrente sostiene che la vittima era in coma);

– il danno da perdita della vita non è risarcibile a favore del soggetto che l’ha persa, ma esclusivamente in capo ai congiunti, iure proprio (cfr., da ultimo, Cass., n. 6754/2011) .

C) Il danno patrimoniale subito dai congiunti.

5.- Col quinto motivo la sentenza è censurata per insufficiente e contraddittoria motivazione sul danno da lucro cessante per la perdita del reddito figurativo e di lavoro dipendente e per connessa violazione dell’art. 2056 c.c., comma 2, sia per non aver adeguato all’epoca della pronuncia (2007) il risultato del calcolo compiuto in moneta del 1995, talora confondendo anche Lire ed Euro; sia, prim’ancora, per aver assunto come base del computo l’importo di L. 14.297.000 dichiarato dalla vittima a fini fiscali per il 1994, senza considerare che così si finiva col non tener conto nè del reddito figurativo connesso al lavoro domestico del congiunto (del quale il tribunale aveva già ritenuto la risarcibilità) nè dei possibili incrementi degli introiti futuri del lavoratore.

Appariva in definitiva del tutto inadeguata la riconosciuta somma di Euro 113.000 in moneta del 2007, inoltre non corrispondente a quella di L. 244.378.621 cui era pervenuta al termine dei suoi calcoli la Corte d’appello (a pag. 10, primo capoverso, della sentenza).

Un più congruo risultato avrebbe garantito l’applicazione equitativa del criterio del triplo della pensione sociale (di cui al D.L. n. 857 del 1976, art. 4, convertito con modificazioni in L. n. 39 del 1977), al quale la Corte d’appello aveva escluso di poter far ricorso in quanto previsto solo per il diverso caso della sopravvivenza della vittima alle lesioni, per il calcolo del lucro cessante da inavalidità.

5.1.- E’ giuridicamente corretto il rilievo della Corte territoriale sulla inapplicabilità della disposizione da ultimo citata, essendo il ricorso all’analogia precluso dal carattere di specialità che la connota. Del pari infondata è la critica sulla mancata considerazione del reddito figurativo da lavoro domestico del congiunto, non essendosi affermato che erano stati prospettati elementi idonei a consentirne l’apprezzamento, anche in ordine alla sua stessa sussistenza.

Sono invece fondate le censure relative alla mancata considerazione dei possibili incrementi futuri dei proventi della vittima (di 36 anni), da valutare con apprezzamento di natura presuntiva sulla base dell’id quod plerumque accidit (Cass., n. 3758/2007); e, limitatamente al reddito non percepito fino al momento della pronuncia, alla omessa rivalutazione monetaria del relativo importo, volta che il relativo danno non è qualificabile come futuro in relazione al momento della pronuncia, essendosi già verificato, e va dunque tenuto distinto da quello da liquidarsi col sistema della capitalizzazione (Cass., n. 11439/1997), da effettuarsi sulla base della somma rivalutata in relazione alla più avanzata età che il defunto avrebbe raggiunto al momento della capitalizzazione.

Le ulteriori critiche concernenti gli errori di calcolo risultano assorbite.

D) L’omessa indicazione dell’esatto credito residuo, ovvero del preciso criterio oggettivo da adottare per la detrazione degli acconti.

6.- Col nono ed ultimo motivo sono dedotti vizio di infrapetizione e motivazione carente sul criterio di imputazione degli acconti medio tempore ricevuti dalle ricorrenti.

Si afferma che le appellanti avevano espressamente domandato che, nel tener conto degli acconti versati (non conteggiati dal primo giudice), l’UCI fosse condannato al pagamento di "tutti i residui danni cha saranno apparsi dovuti".

6.1.- Il motivo è infondato.

In sentenza è esplicitamente affermato (penultimo capoverso della motivazione) che andavano detratti gli acconti ricevuti.

Sono sufficientemente chiari i criteri elaborati dalla giurisprudenza per uniformare, nei debiti di valore, gli acconti percepiti dal creditore alla somma definitivamente stabilita in modo da evitare che la detrazione sia operata in relazione a valori tra loro disomogenei.

Non è dunque necessario che il giudice del merito provveda al relativo calcolo, nè che indichi le ormai note modalità per eseguirlo.

E) Conclusioni.

7.- Vanno conclusivamente accolti, nei sensi di cui in motivazione, il primo ed il quinto motivo e rigettati gli altri.

Il giudice del rinvio, che si designa nella stessa corte d’appello in diversa composizione, liquiderà anche le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE accoglie il primo ed il quinto motivo di ricorso e rigetta gli atri, cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 5 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2012

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