Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 24-01-2013) 26-02-2013, n. 9143 Attenuanti comuni generiche riparazione del danno e ravvedimento attivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 06/06/2012, la Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza con la quale, in data 24/06/2010, il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Trapani aveva ritenuto:

– C.S. colpevole dei reati di cui agli artt. 629 e 640 bis c.p.;

– C.D. colpevole del reato di cui all’art 629 c.p.;

– C.N. colpevole del reato di cui all’art. 640 bis c.p.;

– G.S., S.G., D.G.M. C., R.A., RI.Ar. colpevoli del reato di cui all’art. 378 c.p..

2. Avverso la suddetta sentenza, i suddetti imputati, a mezzo dei rispettivi difensori, hanno proposto ricorso per cassazione.

3. C.S., C.D. e C.N., a mezzo del comune difensore, con un unico ricorso, hanno dedotto i seguenti motivi:

3.1. Violazione dell’art. 417 c.p.p., lett. B):

sostengono i ricorrenti C.S. e C.D. che il capo d’imputazione relativo al reato di estorsione sarebbe indeterminato, in quanto le condotte loro ascritte non risultavano ben connotate e specificate sotto il profilo spaziale e temporale, nè erano state adeguatamente individuate sotto il profilo materiale.

La censura era stata disattesa dalla Corte territoriale con motivazione censurabile "ove si consideri che sarebbe sempre demandato alla difesa la ricerca delle falle contenute nel capo d’accusa, costringendola ad estrapolare, dal compendio dell’intero fascicolo del P.M., tutti i dati necessari a colmare le lacune dell’imputazione che tale rimane".

3.2. violazione dell’art. 438 c.p.p., ss. per avere il giudice dell’udienza preliminare provveduto all’acquisizione di documenti – ricorsi introduttivi dei giudizi in materia di lavoro promossi dalle parti offese nei confronti degli imputati – successivamente al deposito della richiesta di giudizio abbreviato allo stato degli atti, con conseguente compromissione del diritto di difesa. Sul punto, la Corte aveva omesso di considerare che il suddetto rilievo era dirimente a nulla rilevando la circostanza che il giudice non avesse poi utilizzato i suddetti documenti. Peraltro, la Corte non aveva spiegato sulla base di quali elementi era giunta alla suddetta conclusione;

3.3. violazione dell’art. 192 c.p.p.: sostengono i ricorrenti che entrambi i giudici di merito non avrebbero adeguatamente valutato il compendio istruttorio. Infatti, il medesimo si basava, per gran parte sulle sole dichiarazioni delle parti offese che, però, non potevano essere ritenute credibili. La Corte, poi, aveva omesso di valutare e spiegare le ragioni per le quali i testi sentiti nelle indagini difensive, non erano stati ritenuti credibili. La suddetta censura riguarda sia l’imputazione di estorsione che quella di truffa aggravata. In altri termini, secondo i ricorrenti, la Corte sulle doglianze dedotte, o aveva motivato in modo carente, o aveva addirittura omesso la motivazione.

3.4. violazione dell’art. 62 c.p., n. 6 per avere la Corte negato la concessione della suddetta attenuante senza mostrare di aver preso in esame le prove fornite dalla difesa dalle quali si desumeva che gli importi offerti mediante offerta reale erano satisfattivi di ogni pretesa come dimostrato dalla implicita rinuncia effettuata dalla tre parti civili al giudizio avanti al giudice del Lavoro.

4. G.S., S.G., D.G.M. C., R.A., RI.Ar., a mezzo del comune difensore, con un unico ricorso, hanno dedotto omessa motivazione in ordine sia all’elemento oggettivo che soggettivo del reato loro rispettivamente addebitato.
Motivi della decisione

1. C.S., C.D. e C.N.:

1.1. Violazione dell’art. 417 c.p.p., Lett. B): la censura è manifestamente infondata. Sul punto è sufficiente rilevare che il capo d’imputazione – riportato integralmente nella sentenza impugnata – è lungo ben due pagine ed in esso le condotte criminose, risultano dettagliatamente indicate.

La Corte territoriale, poi, ha anche chiarito, quanto al tempus commissi delicti, che le "condotte devono di necessità collocarsi nell’arco di tempo durante il quale le lavoratrici parti offese (licenziate in data 30 giungo 2007) hanno prestato servizio alle dipendenze del C. e in tal senso è il tenore dell’imputazione".

Si tratta di valutazione ineccepibile e, quindi, incensurabile in questa sede anche perchè gli stessi ricorrenti, non hanno fatto altro che ripetere in modo tralaticio la stessa doglianza: il che rende la rende aspecifica e generica e, quindi, inammissibile.

1.2. violazione dell’art. 438 c.p.p., ss. la Corte territoriale ha respinto la medesima censura osservando che "nessun pregiudizio, neppure potenziale, può essere ipotizzato per il diritto di difesa degli imputati (….) se si considera che tale documentazione non risulta essere stata utilizzata dalla stesso giudice ai fini della decisione (…)".

In questa sede i ricorrenti hanno ribadito la loro doglianza ma senza addurre particolari censure alla suddetta motivazione, limitandosi ai rilievi di cui si è detto, rilievi, però, che vanno ritenuti generici ed aspecifici e, quindi, inammissibili, in quanto gli stessi ricorrenti nulla hanno obiettato sul fatto dirimente che quella documentazione non fu utilizzata dal giudice dell’udienza preliminare nella motivazione.

1.3. violazione dell’art. 192 c.p.p.: la censura, come si è detto, involge sia il reato di estorsione che quello di truffa.

1.3.1. In ordine al reato di estorsione, la Corte territoriale, dopo avere illustrato le ragioni per le quali le dichiarazioni delle parti offese dovevano ritenersi credibili (essendo "assistite dai requisiti della costanza nel tempo e della con contraddittorietà e, inoltre, presentano un contenuto ricco di particolari; nè sono emersi agli atti elementi in forza dei quali poter ritenere l’esistenza di un intento calunniatorio"), ha chiarito che le suddette dichiarazioni avevano trovato una conferma nelle dichiarazioni della teste T., negli accertamenti bancari nonchè negli esiti degli accertamenti compiuti dal competente ispettorato del Lavoro.

La motivazione, quindi, deve ritenersi congrua, adeguata ed aderente agli evidenziati elementi fattuali e del tutto conforme ai principi di diritto enunciati da questa Corte di legittimità in ordine alla valutazione delle dichiarazioni delle parti offese.

I ricorrenti, in ordine al reato di cui all’art. 629 c.p., obiettano che la Corte non avrebbe tenuto in considerazione:

a) le dichiarazioni dei testi assunti dalla difesa, Virgilio e Pennacchio in ordine alle pretese modalità anomale di assunzione e di retribuzione (pag. 9 ricorso);

b) le ragioni per le quali le parti offese erano state ritenute credibili e per quale motivo era stata ravvisata la mancanza di alternativa tra l’assunzione alle condizioni vessatorie imposte dai ricorrenti e il rifiuto ad essere assunte a quelle condizioni atteso che, come dichiarato dai testi V. e Sa., "in quel tempo, nell’hinterland trapanese vi era un esubero della domanda di lavoro nel settore tessile manifatturiero rispetto all’offerta": in altri termini, secondo la tesi dei ricorrenti, il rapporto di lavoro era stato contrattato liberamente fra le parti (pag. 13 ss ricorso).

La doglianza è infondata.

In ordine alla censura sub a), è appena il caso di rilevare che, come risulta dalle stesse dichiarazioni riportate testualmente nel ricorso, le suddette testi non hanno affatto smentito quanto affermato dalle parti civili essendosi limitate ad affermare che, stante il loro rapporto di amicizia con le parti offese, se queste avessero subito delle vessazioni, lo avrebbero saputo. Si tratta, come si può notare di dichiarazioni che non provano alcunchè, sicchè non si vede cosa la Corte avrebbe dovuto ribattere e perchè avrebbe dovuto prenderle in esame sia pure per confutarle.

In ordine alla doglianza sub b), si è già detto che la motivazione in ordine alla attendibilità delle parti offese, è inappuntabile.

Quanto alla censura secondo la quale il rapporto di lavoro era stato instaurato secondo una libera contrattazione fra le parti in quanto vi era un eccesso di domanda rispetto all’offerta, la Corte territoriale ha ribattuto che, in realtà, la situazione non era quella prospettata dalla difesa come "dimostrato dal fatto che le (parti offese), piuttosto che essere licenziate, si erano adattate a subire i trattamenti contra legem sopra ricordati, dei quali è stata in giudizio fornita la prova".

La motivazione è adeguata, congrua e del tutto coerente con gli evidenziati elementi fattuali, sicchè si sottrae alla censura con la quale i ricorrenti, in modo surrettizio, tentano, una nuova ed alternativa valutazione degli stessi elementi fattuali: il che deve ritenersi inammissibile in sede di legittimità.

Nè, a minare la suddetta motivazione possono essere sufficienti le dichiarazioni di due testi assunti nelle indagini difensive, le cui dichiarazioni sono state severamente stigmatizzate dal giudice dell’udienza preliminare (pag. 30 ss della sentenza di primo grado).

1.3.2. Il reato di truffa aggravata, è trattato dalla Corte territoriale a pag. 9 ss della motivazione. La Corte, con motivazione amplissima spiega non solo le ragioni per le quali i ricorrenti dovevano ritenersi colpevoli del reato loro addebitato, ma confuta, altresì, punto per punto, le censure dedotte con i motivi di appello.

In questa sede, i ricorrenti con i motivi sub 3 (pag. 7), sub 5 (pag.

10) e sub 6 (pag. 12), tornano a ribadire la tesi difensiva esposta nei motivi di appello ma disattesa dalla Corte, sostenendo, in pratica, che la Corte o avrebbe travisato le prove, o non avrebbe considerato le prove offerte dalla difesa, o avrebbe motivato in modo carente e contraddittorio.

Al che deve replicarsi che le censure riproposte con il presente ricorso, vanno ritenute null’altro che un modo surrettizio di introdurre, in questa sede di legittimità, una nuova valutazione di quegli elementi fattuali già ampiamente presi in esame dalla Corte di merito la cui motivazione – letta anche in uno con l’accurata sentenza di primo grado (pag. 7 ss) – deve ritenersi logica, priva di aporie e del tutto coerente con gli indicati elementi probatori, avendo anche puntualmente disatteso la tesi difensiva.

Pertanto, non essendo evidenziabile alcuna delle pretese incongruità, carenze o contraddittonetà motivazionali dedotte dai ricorrenti, la censura, essendo incentrata tutta su una nuova rivalutazione di elementi fattuali e, quindi, di mero merito, va dichiarata inammissibile.

In altri termini, le censure devono ritenersi manifestamente infondate in quanto la ricostruzione effettuata dalla Corte e la decisione alla quale è pervenuta deve ritenersi compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento": infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune Cass. n. 47891/2004 rv 230568; Cass. 1004/1999 rv 215745;

Cass. 2436/1993 rv 196955.

Sul punto va, infatti ribadito che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev’essere percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze:

ex plurimis SS.UU. 24/1999.

Quanto, infine, alla doglianza secondo la quale la Corte territoriale avrebbe omesso di prendere in esame alcuni elementi fattuali favorevoli ad esso ricorrente, deve replicarsi che "in sede di legittimità non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa è disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Pertanto, per la validità della decisione non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. Sicchè, ove il provvedimento indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, sì da consentire l’individuazione dell’iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione il giudice non è tenuto, nella motivazione, a confutare, analiticamente, tutti gli elementi addotti dalla difesa, sempre che non siano di natura decisiva ai fini dell’assoluzione";

Cass. 29434/2004. riv 229220.

1.4. violazione dell’art. 62 c.p., n. 6: la Corte territoriale ha respinto la medesima doglianza, rilevando che non era stata "fornita la prova del risarcimento integrale del danno prima del giudizio o del fatto che, prima del giudizio, gli imputati si siano adoperati spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato".

In punto di diritto, va osservato quanto segue.

L’art. 62 c.p., n. 6 prevede l’attenuante dell’avere "riparato, prima del giudizio, interamente il danno, mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni (…)".

La norma, secondo la corretta lettura che se ne deve dare, stabilisce, quindi, le seguenti condizioni perchè sia concessa l’attenuante:

– innanzitutto, il risarcimento dev’essere volontario ed antecedente al giudizio di primo grado;

– in secondo luogo, la riparazione del danno dev’essere integrale e, quindi, effettiva. Sul punto questa Corte, con giurisprudenza del tutto costante, ha rilevato, infatti, che l’attenuante in esame è soggettiva quanto agli effetti, ai sensi dell’art. 70 c.p., ma non anche ai fini del suo contenuto, per il quale deve qualificarsi come oggettiva, sicchè nel conflitto di interessi tra reo e vittima del reato, la prevalenza dell’interesse di quest’ultima all’integralità della riparazione non lascia alcuno spazio a pur eloquenti manifestazioni di ravvedimento del reo. Il legislatore, ha, invero, inteso dare alla figura della persona offesa e all’esigenza che il pregiudizio da questa subito a causa del comportamento criminoso del colpevole sia interamente ristorato. La considerazione dell’integrante del risarcimento è talmente esclusiva che nemmeno il più evidente tra gli indici di ravvedimento, quale in astratto potrebbe essere il trasferimento spontaneo di tutti i beni dell’imputato a favore della persona offesa, varrebbe a rendere operante l’attenuante se il riequilibrio patrimoniale non risultasse pieno; Cass. 12366/2010 Rv. 246673; Cass. 28554/2004 Rv. 228846;

– infine, la norma chiarisce quali debbano essere le modalità del risarcimento, ossia che la riparazione (integrale) del danno deve avvenire mediante il risarcimento e, quando sia possibile, mediante restituzione. Ciò significa, pertanto, che la restituzione (quando è possibile) non è alternativa al risarcimento (infatti la norma non usa il disgiuntivo "o") ma si cumula con il risarcimento come risulta testualmente dalla congiunzione "e".

Cosa la legge intenda per risarcimento lo si desume, poi, dall’art. 185 c.p. a norma del quale ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale (che è quantificabile a norma dell’art. 2043 c.c: ex plurimis Cass. 3912/1991 Rv. 186779) o non patrimoniale (art. 2059 c.c.), obbliga al risarcimento il colpevole.

E’ del tutto evidente, pertanto, che quando l’art. 62 c.p., n. 6 richiede la riparazione integrale del danno, intende affermare il principio secondo il quale l’attenuante è configurabile solo quando il colpevole abbia risarcito sia il danno patrimoniale (che può avvenire, in parte, anche con la semplice restituzione ove sia possibile) sia il danno non patrimoniale (ex plurimis Cass. 6479/2011 Rv. 249391), sicchè la semplice restituzione non costituisce integrale riparazione di tutti i danni dovendo i due mezzi (risarcimento e restituzioni) essere cumulati: in terminis Cass. 1989/1981 Rv. 152492; Cass. 1775/1971 Rv. 120571.

Infine, è appena il caso di rilevare che la valutazione della integrante del risarcimento spetta d’ufficio al giudice, indipendentemente dalle dichiarazioni della parte offesa (la quale, in ipotesi, potrebbe anche rinunciare al risarcimento: in tale ipotesi questa Corte ha chiarito che è comunque necessario che l’imputato abbia messo a disposizione la somma di danaro mediante offerta reale, al fine di consentire al giudice di valutare la serietà e la congruità della stessa: Cass. 8334/1998 Rv. 211143) ed indipendentemente da un eventuale accordo raggiunto fra le parti ove non sia realmente satisfattivo (Cass. 5767/2010 Rv. 246564; Cass. 3897/1983 Rv. 158783), proprio perchè la concessione o il diniego delle attenuanti è materia sottratta alla volontà delle parti ed è soggetta solo ai presupposti indicati dalla legge (volontarietà ed integrante del risarcimento avvenuto prima del giudizio di primo grado) la cui verifica spetta solo al giudice.

Orbene, applicando al caso di specie i suddetti principi di diritto ne deriva che la censura dedotta dai ricorrenti è generica perchè:

a) non chiarisce il momento in cui il preteso risarcimento avvenne;

b) ma, soprattutto, non chiarisce se l’offerta reale fosse comprensiva di tutto il danno e, quindi, non solo del danno patrimoniale ma anche del danno morale.

La Corte territoriale, infatti, ha respinto la domanda proprio sotto il suddetto duplice profilo. I ricorrenti, anche in questa sede, in realtà nulla hanno obiettato, limitandosi a reiterare la doglianza ma senza opporre alcunchè di preciso alla motivazione della Corte, la quale, pertanto, essendosi adeguata ai principi di diritto enunciati in ordine alla concedibilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, non si presta ad alcuna censura.

1.5. In conclusione il ricorso dev’essere rigettato ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali, nonchè, i soli C.S. e C.D. alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili che si liquidano come da dispositivo.

2. G.S., S.G., D.G.M. C., R.A., RI.Ar..

2.1. Il ricorso proposto da costoro è manifestamente infondato.

Invero, dalla lettura congiunta delle sentenze di merito (pag. 26 ss sentenza di primo grado e pag. 12 ss sentenza di appello), si desume che:

– "l’esistenza di attività di indagine a carico dei C. era fatto arcinoto e non negata nemmeno dalle difese dei prevenuti". pag.

27 sentenza di primo grado nella quale, a pag. 28 è spiegato anche il motivo per cui la tesi difensiva sulla rilevanza penale del contenuto delle dichiarazioni rese, non era condivisibile;

– le dichiarazioni rese agli ufficiali di P.G. dell’Ispettorato del Lavoro di Trapani in ordine all’effettivo svolgimento di attività produttiva da parte della Corsini Stefano s.r.l., erano pacificamente false: cfr pag. 29 sentenza di primo grado e pag. 13 sentenza di appello.

Alla stregua dei suddetti elementi fattuali, non è chiaro il motivo per cui non sarebbe configurabile l’elemento oggettivo del reato.

2.2. Quanto, poi, all’elemento soggettivo del delitto di favoreggiamento, il medesimo, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte, va individuato nella consapevolezza dell’agente di fuorviare, con la sua condotta, l’attività di ricerca o di investigazione, senza che sia necessario che egli conosca la sussistenza obiettiva e subiettiva del reato presupposto.

Di conseguenza, se è vero che gli imputati sapevano dell’esistenza di attività di indagine a carico dei C., e, ciononostante dichiararono il falso, allora non si vede come dovrebbe ritenersi mancate l’elemento soggettivo.

2.3. Il ricorso, pertanto, va ritenuto manifestamente infondato a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 3: alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 1.000,00 ciascuno.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso di C.S., C.D. e C. N. che condanna al pagamento delle spese processuali;

Dichiara inammissibile il ricorso di G.S., S. G., D.G.M.C., R.A., Ri.

A. e condanna i ricorrenti predetti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende;

Condanna:

C.S. e C.D. alla rifusione in favore delle parti civili A.A.M. e Ro.Ma. delle spese dalle presse sostenute liquidate in complessivi Euro 5.000,00 oltre I.V.A. e C.P.A..

Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2013

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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