Cass. civ. Sez. III, Sent., 24-07-2012, n. 12894 Opposizione al precetto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

p. 1. Con atto di citazione notificato il 31 luglio 2001 C. T.E.M. proponeva davanti al Tribunale di Genova opposizione al precetto notificatole da D.S.C. in data 13 luglio 2001, con il quale le era stato intimato il rilascio dell’immobile sito in (OMISSIS), in forza di titolo esecutivo costituito dalla sentenza della Corte d’Appello di Genova n. 945 del 1996, che l’aveva condannata, nella qualità di conduttrice del predetto appartamento, al rilascio dello stesso.

Successivamente, con ricorso depositato presso la cancelleria del Tribunale di Genova il 25 settembre 2001, la C.T. proponeva opposizione all’esecuzione intrapresa per il rilascio dello stesso immobile nei suoi confronti dal D.S. con preavviso di rilascio notificatole in data 22 settembre 2001.

p. 1.1. A sostegno dell’illegittimità dell’esecuzione dapprima minacciata e poi intrapresa nei suoi confronti la C.T. deduceva, tra l’altro, di essere, successivamente alla formazione del titolo esecutivo nei suoi confronti, divenuta proprietaria dell’immobile, avendolo ereditato dalla madre adottiva, la Sig.ra B.P., vedova C., deceduta il (OMISSIS).

Quest’ultima aveva venduto l’intero immobile sito in (OMISSIS) ai coniugi D.S.C. e B.N. con una scrittura privata del 25 aprile 1960 che, in sintesi, prevedeva: l’acquisto della proprietà del predetto immobile da parte del D.S. a seguito del pagamento di 50 rate annuali;

l’acquisto immediato della proprietà da parte dei D.S., senza necessità di effettuare ulteriori versamenti, in caso di premorienza della Sig.ra B.; il mantenimento, da parte della Sig.ra B., della disponibilità di due piani dell’immobile (il terreno e il terzo), con facoltà di locare a terzi; comunque la disponibilità per i coniugi D.S., a titolo di locazione, dei piani primo e secondo dell’immobile, con facoltà di sublocazione.

L’attuazione di tale contratto – qualificato dalla Corte d’Appello di Genova, con sentenza n. 659 del 1997 (poi passata in giudicato, in quanto confermata dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 9356 del 2000), come contratto misto contenente elementi della locazione, della rendita vitalizia e della vendita con riserva di proprietà, con prevalenza di quest’ultima figura – aveva dato origine ad un lungo contenzioso tra la Sig.ra B. e i Sigg.ri D.S..

In particolare una prima domanda della Sig.ra B. di risoluzione del contratto per gravi inadempimenti dei D.S. veniva definitivamente respinta dalla Corte di Cassazione con la citata sentenza n. 9356 del 2000.

Una nuova domanda di risoluzione veniva proposta dalla Sig.ra B. con atto di citazione del 16 giugno 1999 e respinta sia dal Tribunale di Genova, con le sentenze nn. 3400 del 2002 e 2511 del 2004, sia dalla Corte d’appello di Genova, con sentenza n. 849 del 2006.

Quest’ultima causa è tutt’ora pendente, in quanto avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione i Sigg.ri C.T.E.M. e B.O.F., nella qualità di eredi della Sig.ra B.P., e la Seconda Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 6478 del 2012, ha disposto la rimessione del ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, con riferimento alla questione del se la pronuncia di una sentenza da parte di giudice diverso da quello davanti al quale le parti hanno precisato le loro conclusioni determini la nullità o l’inesistenza della sentenza stessa.

p. 1.2. Tornando alla causa cui si riferisce il ricorso in esame, si rileva che il Tribunale di Genova dopo avere provveduto alla riunione dei due giudizi, quello di opposizione a precetto e quello di opposizione all’esecuzione, ne disponeva la sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c., avendo ravvisato una pregiudizialità con la menzionata causa di risoluzione.

Avverso tale provvedimento di sospensione il D.S. proponeva però regolamento di competenza, che veniva accolto da questa Corte, con ordinanza n. 14254 del 2004.

Il giudizio veniva quindi ritualmente riassunto davanti al Tribunale di Genova che, con sentenza n. 1881 del 2005 rigettava le opposizioni. Tale sentenza veniva impugnata dalla C.T. davanti alla Corte d’Appello di Genova che con sentenza n. 1207 del 2007 rigettava l’appello, confermando la sentenza di primo grado.

p. 2. Avverso tale sentenza propone ricorso per Cassazione, affidato a otto motivi, la Sig.ra C.T.E.M..

Resiste con controricorso il Sig. D.S.C..

p. 2.1. Le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione

p. 1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia "violazione o falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 dell’art. 2909 cod. civ. e dell’art. 324 c.p.c.".

Il motivo prospetta due censure e si appunta sulla motivazione con cui la Corte territoriale ha rigettato il primo motivo di appello, la quale non viene richiamata nell’illustrazione, facendosi solo un generico riferimento alla motivazione censurata come relativa al primo motivo di gravame, ma risulta riassunta nell’esposizione del fatto nella pagina quindici e nella prima metà della pagina diciassette, il che sottrae il motivo ad una valutazione di inammissibilità per l’omessa individuazione della parte della motivazione cui intende riferirsi.

p. 1.1. Entrambe le censure sono, però, prive di pertinenza con tale motivazione e tanto rende il motivo inammissibile.

Queste le ragioni.

p. 1.1.1 Con la prima censura si assume che la Corte territoriale avrebbe violato le norme dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324 c.p.c., sotto il profilo della mancata valutazione, ovvero del travisamento, dei limiti cronologici del giudicato, là dove, per sostenere che all’atto del decesso della B. la C.T. non fosse divenuta possessore, come lo sarebbe stata la de cuius, avrebbe dato rilievo al pregresso giudicato formatosi per effetto della sentenza della Corte d’Appello di Genova n. 945 del 1996 sull’esistenza del contratto locativo inter partes e sulla condanna al rilascio. In pratica, si sostiene che la Corte genovese non avrebbe considerato che quel giudicato avrebbe sofferto l’incidenza degli eventi successivi rappresentati dalla morte della B. nel gennaio 2000 e, quindi, a distanza di circa quattro anni. Morte in conseguenza della quale sia la proprietà sia il possesso del compendio immobiliare, inclusa la parte condotta in locazione, si erano trasmessi agli eredi della B., uno dei quali era la ricorrente.

Il Collegio osserva che già la prospettazione alternativa di una mancata valutazione o del travisamento, evidenzia il carattere perplesso della censura, atteso che una critica ad una decisione su un punto controverso o una questione, riguardo alla quale lo stesso impugnate non sia sicuro che vi sia stata una mancata valutazione o un travisamento (e, quindi, una motivazione errata sui dati che risultavano) si palesa per ciò solo di intrinseca debolezza. E questa percezione è aumentata dal fatto che, nell’individuare le sopravvenienze rispetto al giudicato formatosi nel processo locativo, le quali non sarebbero state considerate o sarebbero state mal valutate, alla pagina ventotto si dice espressamente che sul punto della proprietà ci si soffermerà nel settimo motivo e su quello del possesso sul quarto e sul quinto.

La lettura della motivazione evidenzia, peraltro, che la censura non si correla alla motivazione della sentenza impugnata, atteso che è vero che si assume il dato del passaggio in giudicato della sentenza n. 945 del 1996 erroneamente indicata come del 1999 come contrastante, quanto alla posizione di detentrice iure locationis della C.T., ma non lo si assume come insensibile agli svolgimenti temporali e fattuali successivi ed in particolare alla vicenda successoria determinata dalla morte della B., ma si motiva perchè la successione non abbia riguardato una situazione possessoria tanto perchè essa non sussisteva in capo alla B., quanto perchè – si dice – se anche essa fosse sussistita non si sarebbe potuta trasferire alla C.T. in ragione di una clausola della scrittura del 25 aprile 1960.

Tanto (ampiamente motivato dalla pagina nove della sentenza) basta per evidenziare che in alcun modo, nè espressamente, nè implicitamente e, quindi, con una erronea valutazione, e nemmeno con una omessa valutazione, la sentenza impugnata ha in qualche modo attribuito al giudicato formatosi sulla controversia locativa efficacia insensibile alle sopravvenienze.

p. 1.1.2. Anche la seconda censura è inammissibile, perchè priva di pertinenza con la motivazione della sentenza impugnata.

Con detta censura si sostiene che erroneamente, stante la diversità fra la causa petendi della controversia in esso decisa e quella delle opposizioni all’esecuzione proposte dalla ricorrente, la Corte territoriale avrebbe ritenuto che il giudicato formatosi nel processo locativo precludesse alla ricorrente stessa di far valere la sua sopravenuta qualità di possessore. Ora, in disparte che la censura si risolve nella sostanziale riproposizione della prima censura, anche se sostenuta con irrilevanti e non pertinenti considerazioni su quello che copre e quello che non copre il giudicato, il Collegio rileva che, come emerge da quanto già s’è veduto poco sopra, la Corte genovese non ha affatto enunciato un’argomentazione come quella censurata.

Il primo motivo è, pertanto, dichiarato inammissibile.

p. 2. Con il secondo motivo si denuncia "In via principale violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

In via alternativa o subordinata: omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ".

Vi si censura la sentenza impugnata – dicendo il motivo strettamente connesso con quello precedente – perchè avrebbe "sostanzialmente omesso di pronunciare sulla domanda giudiziale rectius: sul motivo di opposizione di accertamento della sopravvenuta inefficacia della sent. n. 954/96 a costituire il titolo giuridico dello sfratto minacciato con gli atti di precetto e di preavviso di rilascio".

Il motivo è palesemente inammissibile sia nella versione principale sia nella subordinata (peraltro incongrua, posto che l’omesso esame di una ragione di opposizione e, più precisamente, della sua riproposizione con un motivo di appello, è deducibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e non del n. 5, che riguarda le quaestiones facti), perchè, come emerge dai rilievi svolti a riguardo del motivo precedente, la sentenza impugnata ha spiegato alla pagina nove le ragioni per le quali i pretesi fatti sopravvenuti alla detta sentenza e rappresentati dalla prospettazione del significato della successione della qui ricorrente alla B., non elidevano la forza di titolo esecutivo della citata sentenza.

p. 3. Con il terzo motivo si deduce "violazione o falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 della regola normativa del caso concreto costituita dal giudicato esterno, ovvero, in alternativa, degli artt. 2909 e 1594 cod. civ. e art. 324 c.p.c. Contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5".

Il "terzo motivo" prospetta in realtà tre distinti motivi. L’uno inerente, per quello che si legge nell’intestazione, la violazione della regola normativa costituita da un giudicato esterno, il secondo – ad esso alternativo – degli artt. 2909 e 1594 c.c. e dell’art. 324 c.p.c. ed il terzo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

L’illustrazione del motivo è conclusa da tre distinti quesiti di diritto, indicati con le lettere a), b) e c).

p. 3.1. Quanto al vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 il Collego rileva che il ricorso non rispetta l’art. 366-bis c.p.c., perchè la sua illustrazione non contiene e nemmeno si conclude con il momento di sintesi espressivo della c.d. "chiara indicazione", richiesta da detta norma, nei termini indicati da consolidata giurisprudenza di questa Corte (si veda già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007 e, quindi, Cass. sez. un. n. 20603 del 2007): il motivo in questione è, pertanto, per ciò solo inammissibile.

p. 3.2. La formulazione di tre distinti quesiti con riferimento a due diversi motivi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 enunciati nella intestazione del "terzo motivo" in esame, senza alcuna parametrazione al motivo cui ogni quesito si riferisce, evidenzia anch’essa una ragione di inammissibilità per inosservanza dell’art. 366-bis c.p.c., giusta il principio di diritto secondo cui "La previsione di cui all’art. 366-bis cod. proc civ., là dove esige che l’esposizione del motivo si debba concludere con il quesito di diritto, non significa che il quesito debba topograficamente essere inserito alla fine della esposizione di ciascun motivo, essendo consentita la elencazione finale o conclusiva di tutti i quesiti, purchè, in tal caso, ciascuno di essi sia espressamente riferito al motivo, con richiamo numerico od alla rubrica delle violazioni addotte, oppure il collegamento al motivo sia inequivocabilmente evidenziato dalla esistenza di un rapporto di pertinenza esclusiva, in modo tale che esso sia agevolmente individuabile, senza necessità di una particolare analisi critica". (così Cass. (ord.) n. 5073 del 2008).

Nella specie, è vero che formalmente i tre quesiti sono enunciati alla fine di un "terzo motivo" e, quindi, a stare alla lettera di tale indicazione, di un motivo unico, ma s’è già detto che la stessa intestazione evidenzia come i motivi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 siano due, atteso che sono proposti in via alternativa.

Onde la massima appena richiamata è pienamente pertinente.

p. 3.3. Se la rilevata ragione di inammissibilità si volesse superare raccordando i quesiti ai motivi in ragione delle norme evocate, il che varrebbe per il secondo ed il terzo, e considerando il primo pertinente alla violazione del giudicato esterno non meglio indicata normativamente, si evidenzierebbe in ogni caso l’inammissibilità dei due motivi per l’assoluta astrattezza e mancanza di riferimenti alla vicenda e alla motivazione della decisione impugnata dei primi due quesiti e per l’omessa individuazione della regula iuris inapplicata o male applicata con riguardo al terzo, e, quindi, per la inidoneità di tutti e tre ad assolvere al requisito dell’art. 366-bis c.p.c..

p. 3.3.1. In proposito il Collegio rileva che i tre quesiti hanno il seguente tenore: a) "Può il Giudice di legittimità accertare direttamente l’esistenza e la portata della regola normativa del caso concreto costituita dal giudicato esterno operando il diretto riesame degli atti del processo e la diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice del merito?"; b) "Deve il ricorrente per cassazione denunciare la violazione della regola normativa del caso concreto costituita dal giudicato esterno in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, oppure deve tale violazione essere oggetto di ricorso per cassazione solo sotto il profilo della violazione e falsa applicazione della norma dell’art. 2909 c.c. e dei principi di diritto in tema di elementi costitutivi della cosa giudicata, nonchè per vizi attinenti alla motivazione, peraltro, da dedursi specificamente, non essendo sufficiente il mero richiamo all’art. 2909 c.c. o all’art. 324 c.p.c.?"; c) "Viola o applica falsamente l’art. 1594 c.c. il giudice di merito che neghi l’esistenza del rapporto di sublocazione di un immobile nel caso in cui colui che procede alla relativa locazione abbia a sua volt acquisito la disponibilità dell’immobile, e sia stata autorizzato a locarlo a terzi, in forza di un contratto attributivo a suo favore del diritto personale di goderne per un dato tempo verso un determinato corrispettivo, come avvenuto nella fattispecie in esame, nella quale il Giudice di merito ha escluso la sublocazione fra il D.S. e la Sig.a C.T. nonostante il fatto che l’appartamento int. 2, cui il rapporto ineriva, fosse nel godimento del D.S. medesimo in virtù della clausola n. 4 della scrittura privata 25/4/1960, che esplicitamente gliene faceva concessione a titolo di locazione per 50 anni (salvo premorienza) dietro pagamento della soma capitale di Ut. 71.000 mensili?.".

Ebbene, osserva il Collegio, l’art. 366-bis c.p.c., quando esigeva che il quesito di diritto dovesse concludere il motivo imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva concludere l’illustrazione del motivo ed il motivo si risolve in una critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa sul punto oggetto dell’impugnazione e criticato dal motivo, appare evidente che il quesito, per concludere l’illustrazione del motivo, doveva necessariamente contenere un riferimento riassuntivo ad esso e, quindi, al suo oggetto, cioè al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse evidenziato – ancorchè succintamente – perchè l’interrogativo giuridico astratto era giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un quesito che non presenta questa contenuto è, pertanto, un non-quesito (si veda, in termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008; nonchè n. 6420 del 2008).

E’ da avvertire che l’utilizzo del criterio del raggiungimento dello scopo per valutare se la formulazione del quesito sia idonea all’assolvimento della sua funzione appare perfettamente giustificata dalla soggezione di tale formulazione, costituente requisito di contenuto-forma del ricorso per cassazione, alla disciplina delle nullità e, quindi, alla regola dell’art. 156 c.p.c., comma 2, per cui all’assolvimento del requisito non poteva bastare la formulazione di un quesito quale che esso fosse, eventualmente anche privo di pertinenza con il motivo, ma occorreva una formulazione idonea sul piano funzionale, sul quale emergeva appunto il carattere della conclusività. Da tanto l’esigenza che il quesito rispettasse i criteri innanzi indicati.

Per altro verso, la previsione della necessità del quesito come contenuto del ricorso a pena di inammissibilità escludeva che si potesse utilizzare il criterio di cui all’art. 156 c.p.c., comma 3 posto che quando il legislatore qualifica una nullità di un certo atto come determinativa della sua inammissibilità deve ritenersi che abbia voluto escludere che il giudice possa apprezzare l’idoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo sulla base di contenuti desunti aliunde rispetto all’atto: il che escludeva che il quesito potesse integrarsi con elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso, atteso che l’inammissibilità era parametrata al quesito come parte dell’atto complesso rappresentante il ricorso, ivi compresa l’illustrazione del motivo (si veda, in termini, già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007; (ord.) n. 15628 del 2009, a proposito del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6).

E’, altresì, da avvertire, che l’intervenuta abrogazione dell’art. 366-bis c.p.c. non può determinare – in presenza di una manifestazione di volontà del legislatore che ha mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi proposti dopo il 4 luglio 2009 contro provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso la retroattività dell’abrogazione per i ricorsi proposti antecedentemente e non ancora decisi – l’adozione di un criterio interpretativo della stessa norma distinto da quello che la Corte di Cassazione, quale giudice della nomofilachia anche applicata al processo di cassazione, aveva ritenuto di adottare anche con numerosi arresti delle Sezioni Unite.

L’adozione di un criterio di lettura dei quesiti di diritto ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. dopo il 4 luglio 2009 in senso diverso da quanto si era fatto dalla giurisprudenza della Corte anteriormente si risolverebbe, infatti, in una patente violazione dell’art. 12 preleggi, comma 1, posto che si tratterebbe di criterio contrario all’intenzione del legislatore, il quale, quando abroga una norma, tanto più processuale, e la lascia ultrattiva o comunque non assegna effetti retroattivi all’abrogazione, manifesta non solo una voluntas nel senso di preservare l’efficacia della norma per la fattispecie compiutesi anteriormente all’abrogazione e di assicurarne l’efficacia regolatrice rispetto a quelle per cui prevede l’ultrattività, ma anche una implicita voluntas che l’esegesi della norma abrogata continui a dispiegarsi nel senso in cui antecedentemente è stata compiuta. Per cui l’interprete e, quindi, anche la Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 65 dell’Ordinamento Giudiziario, debbono conformarsi a tale doppia voluntas e ciò ancorchè, in ipotesi, l’eco dei lavori preparatori della legge abrogativa riveli che l’abrogazione possa essere stata motivata anche e proprio dall’esegesi che della norma sia stata data. Invero, anche l’adozione di un criterio esegetico che tenga conto della ragione in mente legislatoris dell’abrogazione impone di considerare che l’esclusione dell’abrogazione in via retroattiva ed anzi la previsione di una certa ultrattività per determinate fattispecie sempre in mente legislatoris significhino voluntas di permanenza dell’esegesi affermatasi, perchè il contrario interesse non è stato ritenuto degno di tutela.

Osserva ancora il Collegio che è consolidato il principio di diritto, secondo cui Il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una "regula iuris" suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione, ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato art. 366-bis, si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie. (Cass. sez. un. n. 26020 del 2008).

Nella specie è palese l’assoluta astrattezza del primo e del secondo quesito.

Il secondo è anche articolato con la riproposizione dell’alternativa irrisolta figurante nella intestazione del motivo, assunta, dal punto di vista della ricorrente, come interrogazione sul "che fare".

Il terzo quesito, pur contenendo un riferimento alla vicenda oggetto di lite ed altro minimale riferimento alla motivazione della sentenza impugnata non fornisce alcuna spiegazione del perchè si sarebbe dovuta ritenere la sublocazione, cioè quale sia stata la regula iuris violata dalla Corte territoriale.

p. 3.4. In ogni caso, se si procedesse alla lettura della illustrazione del "terzo motivo", emergerebbe anche un’ulteriore ragione di inammissibilità costituita dalla circostanza che non v’è in essa alcuna precisa individuazione della motivazione con cui la sentenza impugnata sarebbe incorsa nei vizi denunciati e nemmeno vi è alcuna enunciazione che si sarebbe omesso di esaminare le questioni poste dal "motivo". Inoltre, la sentenza impugnata non contiene alcun riferimento alla questione della sublocazione agitata con il motivo e, pertanto, non si vede come essa possa divenire oggetto di ricorso per cassazione, senza spiegare dove e come era stata prospettata.

p. 3.5. Da ultimo si deve anche rilevare che la ricorrente non indica – come avrebbe dovuto per rispettare l’art. 366 c.p.c., n. 6 – quale parte della motivazione della sentenza di questa Corte n. 9356 del 2000 sarebbe stata fraintesa o ignorata dalla Corte territoriale nel considerare e nell’apprezzare il giudicato esterno da essa nascente e quale pare di detta motivazione supporterebbe il "motivo".

p. 3.6. Il motivo è, pertanto, dichiarato inammissibile.

p. 4. il quarto motivo deduce "violazione o falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 degli artt. 1140,1146 e 1523 cod. civ.".

Vi si censura la motivazione della sentenza impugnata là dove ha ritenuto che la C.T., quale successore mortis causa della B. non fosse divenuta titolare del possesso dell’immobile cui si riferisce l’esecuzione per rilascio, per non essere stata la de cuius titolare di una situazione di possesso, essendo stata tale situazione da Lei trasferita in forza della scrittura del 25 aprile 1960 al D.S. quale effetto della fattispecie di vendita con patto di riservato dominio rinvenibile nella stessa. La prospettazione è che l’acquirente con patto di riservato dominio non acquisterebbe il possesso del bene compravenduto, bensì la sua detenzione qualificata.

L’illustrazione è conclusa dai seguenti quesiti:

a)"Viola o applica falsamente l’art. 1140 c.c. il giudice di merito che attribuisca la qualità di possessore alla parte contrattuale che si trovi nel mero godimento di un immobile per un dato tempo dietro pagamento di un corrispettivo alla controparte, proprietaria di tale immobile e concedente per contratto del relativo godimento, come nella fattispecie ha fatto il giudice di merito assumendo che il D. S. avesse il possesso dell’appartamento di (OMISSIS)?" b) Viola o applica falsamente gli artt. 1140 e 1523 c.c. il giudice di merito che attribuisca la qualità di possessore al compratore con patto di riservato dominio, come ha fatto il giudice di merito assumendo che il D.S. avesse il possesso dell’appartamento di (OMISSIS)?" c) Viola o applica falsamente l’art. 1146 c.c. il giudice di merito che neghi la trasmissione iure hereditario del possesso già facente capo al de cuius in qualità di locatore, nonchè di venditore con patto di riservato dominio di un bene immobile ai suoi eredi, che in giudizio abbiano dimostrato tale qualità?".

Il secondo quesito è quello in buona sostanza pertinente all’illustrazione del motivo e se il motivo dovesse essere esaminato nel merito, richiederebbe l’indagine sulla qualificazione della situazione dell’acquirente con patto di riservato dominio riguardo alla cosa compravenduta. Questione su cui la dottrina condivisibilmente inclina a ritenere che egli non abbia un possesso pieno della cosa, in quanto è pur sempre tenuto, come un contraente in pendenza della condizione ai sensi dell’art. 1358 c.c. ad obblighi di conservazione della integrità della cosa per salvaguardare le ragioni del venditore per il caso che la condizione dell’adempimento finale manchi. Mentre nella giurisprudenza di questa Corte la questione non risulta approfondita, atteso che non v’è stato tale approfondimento da parte dell’unica decisione che l’ha sfiorata, cioè Cass, n. 11450 del 1992.

La questione così posta dal motivo, per la verità, se si dovesse effettivamente affrontare non risulterebbe decisiva ai fini della soluzione da dare al problema di fondo sollevato dalla ricorrente con le opposizioni al precetto sulla base della sua successione alla B., perchè, quale che fosse la qualificazione della posizione del D.S. sull’immobile in quanto acquirente con riserva della proprietà, cioè tanto se essa fosse stata di possessore, quanto se fosse stata di detentore, naturalmente qualificato, il problema dell’incidenza su di essa del fenomeno successorio a favore della B. sarebbe stato sempre quello di vedere se il subentro della C.T. nella posizione della B. avrebbe potuto spiegare effetti sulla pretesa di rilascio del bene in forza del contratto locativo e del giudicato sulla cessazione del relativo rapporto fra la C.T. ed il D.S.. Al riguardo, osserva il Collegio che la C.T. sarebbe subentrata nella medesima posizione che riguardo all’immobile aveva la B., con la conseguenza che, essendo tale posizione di estraneità al materiale godimento dello stesso, già conferito al D.S., nessuna efficacia impeditiva della pretesa esecutiva di rilascio fatta valere dal D.S. avrebbe potuto spiegare. E ciò per l’assorbente ragione che la B. non aveva alcun godimento diretto nel bene. Semmai l’acquisto da parte della C.T. della posizione della B. avrebbe potuto assumere rilievo in presenza di eventuali vicende impeditive dell’avveramento della condizione risolutiva della riserva di proprietà. Ma non è di questo che si occupa il motivo.

Fermo quanto rilevato, il Collegio osserva che il motivo in discorso non merita comunque ulteriore considerazione, in quanto dal suo esame si può prescindere in ragione della sorte del motivo successivo, che come subito si dirà è inammissibile, con la conseguenza che, concernendo esso la ratio decidendi della sentenza impugnata enunciata in via alternativa a quella censurata con il motivo in esame, il suo consolidarsi rende irrilevante la ratio oggetto del motivo in esame, perchè la sentenza impugnata rimane sorretta in ogni caso, dall’altra, su cui si forma cosa giudicata.

p.5. Con il quinto motivo si denuncia "violazione o falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 degli artt. 1140 e 1147 cod. civ." e vi si censura l’altra ratio decidendi con cui la sentenza impugnata ha escluso che la C.T. avesse acquisito, per effetto della successione mortis causa alla B. una situazione possessoria come tale utilizzabile sub specie di fatto impeditivo dell’attuazione ed esecuzione della pretesa di rilascio iure locationis del D.S.. Si tratta della ratio espressa con l’affermazione che, se anche la B. (e non il D. S.) fosse stata possessore, all’atto della morte della medesima, si sarebbe verificato, in forza della clausola della scrittura del 1960, l’acquisto della proprietà da parte del D. S., il che avrebbe comunque impedito che alla C. T. passasse il possesso.

In pratica, con questa ratio decidendi la Corte territoriale ha voluto dire che la qui ricorrente alla morte della B. non poteva essere subentrata nel possesso del bene, pur in ipotesi facente capo alla de cuius, perchè l’evento della morte di costei era contemplato dalla nota scrittura come determinativo dell’acquisto della proprietà fino ad allora condizionato al pagamento delle cinquanta ratea annuali.

p. 5.1. Il motivo è concluso dal seguente quesito: Viola o applica falsamente gli artt. 1140 e 1146 c.c. il giudice di merito che affermi l’esistenza di un possesso trasmissibile dal possessore agli eredi solo nel caso in cui tale trasmissione si accompagni alla successione nel diritto di proprietà del bene posseduto?.

Tale quesito è del tutto astratto e, quindi, inammissibile alla stregua dei principi sopra espressi a proposito del terzo motivo. Ma è anche incomprensibile come tale, nel senso che esprime un’astrazione di cui non si riesce a comprendere il senso giuridico.

Il Collegio per mera completezza osserva che la lettura della illustrazione evidenzia nuovamente che la C.T. non coglie il senso del subentro nella posizione della B. rispetto alla vicenda della vendita con riserva di proprietà di cui alla nota scrittura per come descritto poco sopra a proposito del motivo precedente. Onde il motivo, se ne fosse stato possibile lo scrutinio, sarebbe risultato manifestamente infondato, perchè l’unico elemento rilevante a seguito del subentro sarebbe stata l’eventuale esistenza di impedimenti al consolidarsi dell’acquisto da parte del D. S. in forza della clausola della scrittura più volte evocata.

p. 6. Con il sesto motivo si lamenta "violazione o falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 degli artt. 152 e 184 cod. proc. civ. Omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il motivo è inammissibile per inosservanza dell’art. 360-bis c.p.c., atteso che il motivo ai sensi dell’art. 360, n. 5 non è accompagnato dal momento di sintesi secondo la già richiamata giurisprudenza e considerato che al motivo ai sensi del n. 3 (ma meglio si sarebbe dovuto dire n. 4) dell’art. 360 fanno riscontro due quesiti di totale astrattezza, cioè i seguenti: Viola o applica falsamente gli artt. 152 e 184 c.p.c. il giudice di merito che giudichi tardiva la produzione di un documento in assenza di una specifica, quanto tempestiva, eccezione di controparte? Viola o applica falsamente gli artt. 152 e 184 c.p.c. il giudice di merito che giudichi tardiva la produzione di un documento in mancanza di uno specifico termie di decadenza stabilito dalla legge o fissato dal giudice stesso per il compimento di atti istruttori?".

Si osserva, inoltre, che la Corte territoriale ha anche e comunque evidenziato che il documento di cui si occupa il motivo era comunque privo di rilevanza, trattandosi di sentenza tributaria resa inter alios.

E parte ricorrente non ha impugnato questa seconda e gradata ratio decidendi.

Se, poi, si volesse sostenere che non la doveva impugnare (alla stregua di Cass. sez. un. n. 3840 del 2007), in ogni caso impugnazione della ratio decidendi sulla tardività sarebbe stata ammissibile solo se la ricorrente avesse dimostrato l’utilità del documento (una decisione di commissione tributaria), mentre nulla essa ha detto in proposito.

p. 7. Con il settimo motivo si denuncia "violazione o falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 degli artt. 2909, 1523, 1453 e 1458 cod. civ. Omessa o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5".

Innanzitutto, il motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 è inammissibile, in quanto la sua illustrazione non si conclude e nemmeno contiene il momento di sintesi espressivo della c.d. "chiara indicazione" nei termini voluti dalla più volte evocata giurisprudenza di questa Corte.

Il motivo, invece, è ammissibile per quanto attiene al vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 in quanto si conclude con la formulazione di due quesiti di diritto, che hanno il seguente tenore:

a) "Viola o applica falsamente l’art. 1453 c.c., comma 3 il giudice di merito che – in pendenza del giudizio instaurato da una delle parti di un contratto a prestazioni corrispettive al fine di ottenerne la risoluzione per inadempimento della controparte, e, comunque, prima della pronuncia di una sentenza definitiva in merito a tale domanda – giudica che il contratto, nonostante la sua impugnazione giudiziale, produca ugualmente i suoi effetti, e, in particolare, trattandosi di vendita con riserva della proprietà nella quale sia inserita una clausola di premorienza quale quella pattuita nella scrittura privata 25/4/1960, determini ugualmente il passaggio della titolarità del bene al compratore denunciato come inadempiente a causa della prematura morte del venditore, intervenuta prima della scadenza del termine di pagamento di tutte le rate?; b) Viola o applica falsamente l’art. 1453 c.c., commi 1 e 3 e l’art. 1458 c.c. il giudice di merito che – in pendenza del giudizio instaurato da una delle parti di un contratto a prestazioni corrispettive al fine di ottenerne la risoluzione per inadempimento della controparte, e, comunque, prima della pronuncia di una sentenza definitiva in merito a tale domanda – adduce la natura costitutiva della sentenza di scioglimento del contratto al fine di escludere la cristallizzazione del rapporto contrattuale, e la situazione di assoluta stasi nella esecuzione di esso, stabilite dall’art. 1453 c.c., u.c. fino alla pronuncia di una sentenza definitiva che decida sulla domanda risolutiva?.

Il motivo pertiene alla parte della motivazione della sentenza impugnata, con cui si è sostanzialmente negata idoneità a giustificare un fatto impeditivo del diritto di procedere all’esecuzione, oggetto delle due opposizioni all’esecuzione, alla deduzione della qui ricorrente che l’introduzione nel 1999 di una domanda di risoluzione del contratto di cui alla scrittura del 1960, per asserito parziale inadempimento da parte del D.S. e della moglie all’obbligazione di pagamento di alcune delle rate del prezzo di vendita, avesse comportato come conseguenza, nella perdurante pendenza del giudizio, ai sensi dell’art. 1453 c.c., u.c., l’impossibilità per i detti coniugi di adempiere le rate ulteriori fino all’ultima prevista per il riscatto e comunque anche dell’operare della clausola di passaggio della proprietà correlata alla premorienza della B..

In sostanza, la tesi è che, quando in un contratto di durata, qual era quello di cui alla scrittura privata del 1960, viene esercitata da una parte (nella specie la B.) la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento di una o alcune obbligazioni gravanti sull’altra, o meglio, come nella specie, per l’inesatto inadempimento di esse, l’art. 1453 c.c., u.c. là dove prevede che dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione, implichi non solo che non possa adempiersi con effetti impeditivi in iure (salvo, naturalmente, il consenso della parte agente in risoluzione) della risoluzione l’obbligazione di cui si è dedotto l’inadempimento totale o parziale, ma anche che non possano essere adempiute le altre obbligazioni gravanti sulla parte inadempiente, aventi o meno lo stesso o altro oggetto, ed inoltre l’inoperatività dell’avveramento di eventuali condizioni determinative della produzione di certi effetti del contratto a favore del (preteso) inadempiente, come nella specie quella di attribuzione alla premorienza della B. prima della scadenza delle rate annuali, pari a cinquanta e l’ultima delle quali veniva a scadere alla fine del 2010, dell’effetto di determinare il passaggio della proprietà ai coniugi D.S. anticipatamente e senza ulteriori obblighi di pagamento.

Questo assunto è prospettato, in buona sostanza, come ragione che avrebbe dovuto impedire ai giudici di merito delle due opposizioni riunite di considerare il D.S. come acquirente della proprietà del bene di cui trattasi e, quindi, quale conseguenza del 22.5.2012) mancato trasferimento di essa, la C.T. come soggetto divenuto proprietario iure successionis della B. e come tale non più soggetto all’esecuzione per rilascio iure locationis in forza del titolo a suo tempo ottenuto dal medesimo nei suoi riguardi.

p. 7.1. Ora, la Corte territoriale ha esaminato questa prospettazione osservando quanto segue: "Quanto all’ulteriore deduzione, secondo la quale la pendenza del giudizio di risoluzione avrebbe cristallizzato l’operatività del contratto di cui alla scrittura 25/4/1960, impedendo al D.S. di pagare l’ultima rata di prezzo, in quanto oggetto di legitimo rifiuto da parte della venditrice con riservato dominio, anche a prescindere dalla novità della prospettazione, introdotta solo in questo grado del giudizio, è sufficiente ribadire, come già rilevato dalla difesa del D. S., che lo scioglimento del rapporto si determina solo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza costitutiva di risoluzione per inadempimento, non già determina dosi "l’inoperatività del contratto" a seguito della mera introduzione della domanda di risoluzione".

7.1.1. Il Collegio rileva che in questa motivazione è detto anzitutto che la questione esaminata era nuova. Tale affermazione rappresenta una motivazione in rito che avrebbe potuto esentare la Corte territoriale dall’esaminare il merito della questione. Essa avrebbe dovuto essere impugnata ed anzi, alla stregua di Cass. sez. un. n. 3940 del 2007 già citata avrebbe dovuto essere l’unica motivazione da impugnare.

Essa non è stata impugnata almeno a stare all’intestazione del motivo.

Nell’illustrazione di quest’ultimo, peraltro, la ricorrente se ne occupa osservando che la deduzione della particolare conseguenza secondo lei derivante dalla introduzione della domanda di risoluzione rappresentava una mera difesa in replica alla prospettazione del D. S., che, a sua volta, per replicare alla deduzione della sopravvenienza della acquisizione della proprietà del bene da rilasciarsi, per effetto della successione alla B., aveva fatto valere lo scioglimento della riserva di proprietà in ragione della premorienza della B. stessa. Senonchè, non è spiegato se la prospettazione del D.S. fosse stata essa stessa svolta – a sua volta come novità nel giudizio di appello, nel qual caso sarebbe stata essa stessa nuova. Ma, inoltre, tanto se così fosse stato, quanto se la deduzione del D.S. fosse stata svolta in primo grado, in ogni caso la questione sarebbe stata nuova.

Si aggiunga che, in tale situazione, il motivo se fosse rinvenibile, non sarebbe stato neppure dedotto nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6, cioè con la specifica indicazione degli atti sui quali si fonda. E, pertanto sarebbe inammissibile.

Il Collegio osserva, comunque, che, se tale rilievo si potesse superare il motivo sarebbe altresì inammissibile perchè non concluso da un pertinente quesito di diritto.

p. 7.1.2. Il Collegio osserva, poi, che, se si volesse escludere, dato il breve accenno che vi dedica ed il suo tenore, che la sentenza impugnata abbia effettivamente enunciato una motivazione in rito nel senso della novità della questione, l’esame nel merito del motivo si dovrebbe concludere con la valutazione della sua infondatezza.

Queste le ragioni.

La prospettazione del motivo nel senso che, con riferimento ad un contratto di durata qual è quello di cui alla scrittura privata del 1960 riconducibile allo schema della vendita con riserva di proprietà, la proposizione della domanda di risoluzione per l’inadempimento di un’obbligazione contrattuale, quella di pagamento di talune rate del prezzo, comporti, ai sensi dell’art. 1453 c.c., u.c. l’impossibilità di un adempimento delle obbligazioni di pagamento delle rate successive ed in genere delle altre obbligazioni che nell’economia del contratto gravano sulla parte asseriamento inadempiente, è priva di fondamento, atteso che la norma si riferisce all’obbligazione di cui si è dedotto l’inadempimento che si è posto alla base della domanda di risoluzione. La ratto è quella di sottrarre alla parte convenuta, con assoluta simmetria con il divieto alla parte che agisce in risoluzione di chiedere l’adempimento ed abbandonare la domanda di risoluzione, la possibilità di adempiere in ritardo senza l’assenso dell’attore e, nel contempo, se tale consenso mancasse, di consentire al giudice la possibilità di valutare tale adempimento tardivo come incidente sull’importanza dell’inadempimento posto a base della domanda di risoluzione: il legislatore vuole cosi assicurare che la proposizione della domanda segni il momento ultimo per valutare se l’inadempimento fu di non scarsa importanza e, quindi idoneo a giustificare la risoluzione.

La norma, con riguardo ai contratti di durata, ad esecuzione continuata o periodica che sia, non intende, invece, eliminare in alcun modo nè l’obbligo nè correlativamente la facoltà della parte convenuta di adempiere le obbligazioni, di identica natura ed oggetto rispetto a quella posta a base della domanda risolutoria, o diverse da essa, che sussistano nell’ambito del rapporto e vengano a scadere, fino a che la domanda di risoluzione non sia accolta o rigettata.

Un’opposta interpretazione sarebbe contraria all’interesse della stessa parte che domanda la risoluzione, la quale, in attesa che ci si pronunci su di essa, vedrebbe venir meno le altre obbligazioni della controparte. Con riferimento alla scrittura di cui è processo, la prospettazione della C.T. implicherebbe che l’obbligazione di conservare la res a carico del D.S., connaturato alla riserva del dominio fino al pagamento dell’ultima rata o alla premorienza della venditrice, fosse venuta meno. E così l’obbligazione di pagare le rate successive. E ciò in una situazione di incertezza sull’esito del giudizio di risoluzione.

A maggior ragione è priva di pregio l’ulteriore prospettazione che la domanda di risoluzione avesse bloccato la possibilità che si potesse utilmente verificare la condizione di anticipazione della risoluzione della riserva del dominio e, quindi, dell’acquisto della proprietà per il caso di premorienza della B. e prima del pagamento dell’ultima rata.

Questa prospettazione, non riferendosi ad una obbligazione contrattuale, ma ad una condizione risolutiva della riserva di proprietà, è anzi del tutto priva di qualsivoglia possibilità di appoggiarsi all’art. 1453 c.c., u.c. che concerne il comportamento di adempimento tardivo della parte convenuta con la risoluzione.

La proposizione della domanda di risoluzione per inadempimento, a ben vedere, lungi dal poter determinare sia l’impossibilità di pagamento delle rate di prezzo successive, sia dell’eventuale avveramento della condizione risolutiva di premorienza, potè avere solo l’effetto di rendere incerte sia l’utilità dell’adempimento delle une e dell’effetto del verificarsi dell’altra. Nel senso che, l’eventuale accoglimento della domanda di risoluzione, comportando il venir meno del contratto di vendita con riserva di proprietà, avrebbe potuto rendere l’adempimento delle rate successive non più dovuto e impedire che la premorienza della B. determinasse l’effetto traslativo.

Ora, allo stato tale accoglimento non è avvenuto nè in primo nè in secondo grado, essendo stata la domanda di risoluzione della B. rigettata e pendendo allo stato il giudizio di cassazione davanti a questa Corte (iscritto al n.r.g. 31186 del 2006), dove è stato rimesso alle Sezioni Unite con ordinanza n. 6478 del 2012 della Seconda Sezione a data 24 aprile 2012.

p. 7.1.3. Il valore che alla pendenza del detto giudizio si sarebbe potuto assegnare da parte della Corte d’Appello sarebbe stato quello indicato dall’art. 337 c.p.c., comma 2.

In applicazione di tale norma la Corte territoriale avrebbe potuto scegliere di sospendere il giudizio sulle opposizioni all’esecuzione, come essa le consentiva, se avesse ritenuto la sentenza d’appello nel giudizio di risoluzione poco persuasiva e, quindi, non avesse voluto privilegiare la sua autorità, perchè convinta che in questo giudizio di cassazione potesse la decisione di rigetto della domanda essere ribaltata.

In alternativa e sempre in applicazione della detta norma, la Corte territoriale avrebbe potuto ritenere invece l’autorità della sentenza di appello confermativa della reiezione della domanda di risoluzione, perchè persuasiva e, quindi, valersene per disattendere la prospettazione della C.T. che l’acquisto della proprietà per la premorienza no potesse essersi verificato, essendo destinata la domanda di risoluzione alla conferma del suo rigetto.

La scelta dell’una o dell’altra opzione non è stata fatta espressamente, ma risulta oggettivamente effettuata a favore della seconda opzione, per avere quella Corte pronunciato sull’appello e non sospeso.

Della mancata applicazione dell’art. 337 c.p.c., comma 2, nell’uno o nell’altro senso (sulla norma vedi di recente Cass. sez. un. n. 10027 del 2012) la C.T. si sarebbe potuta dolere se avesse chiesto, come avrebbe potuto la sospensione dei giudizi di opposizione in attesa della definizione del giudizio di risoluzione.

Queste sono le considerazioni che merita la vicenda di cui è processo.

Il motivo in esame sarebbe, pertanto, infondato se esaminato nel merito alla stregua del seguente principio di diritto: "In un contratto qualificato come riconducibile in prevalenza allo schema della vendita con riserva di proprietà, qualora la parte venditrice agisca in risoluzione per l’inadempimento (totale o parziale) di un’obbligazione relativa al pagamento di una rata o di alcune rate del prezzo convenuto, l’art. 1453 c.c., u.c., non implica nè che la parte convenuta asseritamente inadempiente non possa adempiere le rate successive, nè che, in attesa dell’esito del giudizio di risoluzione, non si possa verificare, in base alla previsione di una clausola contenuta nel contratto che la preveda, l’avveramento della condizione risolutiva della riserva di proprietà anticipatamente al pagamento di tutte le rate, nella specie rappresentata dalla premorienza della venditrice. Salvi, naturalmente, gli effetti del successivo accoglimento della domanda di risoluzione del contratto".

Naturalmente, ove l’esito del giudizio di risoluzione dovesse essere ribaltato rispetto a quello attualmente consacrato nella sentenza d’appello impugnata con il ricorso n.r.g. 31186 del 2006 e la domanda di risoluzione del contratto di cui alla scrittura fosse accolta, si porrà il problema delle conseguenze che il sopravvenuto giudicato determinerebbe su quello che si forma ora per effetto della disponenda reiezione del presente ricorso, nel senso che la posizione delle parti risulterà determinata dalla nuova decisione quale giudicato successivo.

p. 8. L’ottavo motivo denuncia "omessa o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5".

Il motivo è inammissibile perchè non contiene nè si conclude con il momento di sintesi, di cui s’è più volte detto.

Peraltro, l’illustrazione pone un problema relativo alla mancata compensazione di tutte o pare le spese del giudizio di primo grado, che avrebbe richiesto la denuncia, con indicazione delle pertinenti norme e la formulazione del correlato quesito di diritto, di un motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

9. Il ricorso è, conclusivamente rigettato.

10. Le spese del giudizi di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro novemiladuecento/00, di cui duecento/00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 22 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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