Cass. civ. Sez. III, Sent., 24-07-2012, n. 12892

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p.1. B.I. ha proposto ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, contro P. G., sia in qualità di creditore precettante, sia in qualità di creditore intervenuto, la SILF s.p.a., la s.p.a. Equitalia Nomos e l’Avvocato B.G., nella qualità di curatore dell’Eredità giacente di P.G..

Il ricorso è stato proposto avverso la sentenza del 10 agosto 2006, con la quale il Tribunale di Treviso ha rigettato l’opposizione proposta ai sensi dell’art. 615 c.c., da essa ricorrente avverso un’esecuzione immobiliare introdotta nei suoi riguardi dal P. con pignoramento del 2 novembre 2004.

p.2. Nessuno degli intimati ha resistito al ricorso.
Motivi della decisione

p.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia "violazione e falsa applicazione dell’art. 214 c.p.c., art. 215 c.p.c., art. 216 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c. , n. 5".

Vi si censura la motivazione della sentenza impugnata per avere affermato che la ricorrente non aveva formulato istanza di verificazione di una scrittura privata, datata 15 ottobre 2005, che era stata prodotta in giudizio da essa ricorrente con la memoria istruttoria del 20 gennaio 2006, per dimostrare che i crediti posti a base dell’esecuzione dal medesimo erano stati da lui rimessi in suo favore. Tale scrittura recava la sottoscrizione del P. ed era stata disconosciuta dal difensore di costui nella memoria di replica del 10 febbraio 2005.

Il Tribunale avrebbe erroneamente omesso di rilevare che la ricorrente, nella stessa memoria con cui la scrittura era stata prodotta, aveva dedotto prove testimoniali sul fatto della sottoscrizione di essa da parte del P., frattanto deceduto il (OMISSIS) ed aveva reiterato la richiesta di prova in sede di precisazione delle conclusioni.

In tale modo il Tribunale avrebbe disatteso quell’orientamento di questa Corte che ritiene che l’istanza di verificazione della scrittura privata disconosciuta non richieda formule particolari, potendo essere ravvisata la relativa volontà anche in un comportamento concludente quale la mera articolazione di prova testimoniale sul fatto che la controparte l’abbia sottoscritta (vengono citate Cass. nn. 12734 del 2004, n. 890 del 2003, n. 4036 del 1995 e n. 143 del 1985).

p.1.1. La giurisprudenza invocata dalla ricorrente è effettivamente esistente presso questa Corte e tanto comporterebbe la fondatezza del motivo.

Senonchè, il Tribunale ha si ritenuto che nessuna istanza di verificazione fosse stata formulata, ma ha anche considerato che la prova per testi era stata capitolata "in modo del tutto generico, quanto a requisiti spazio temporali dei fatti ivi menzionati".

Ora, tale affermazione evidenzia che, se il Tribunale avesse ritenuti implicitamente formulata l’istanza di verificazione in applicazione della ricordata giurisprudenza, avrebbe dovuto escludere di darvi corso per l’inammissibilità della prova testimoniale articolata a suo sostegno e nel contempo espressiva dell’intenzione di richiederla.

La B. avrebbe dovuto, pertanto, farsi carico del rilievo di inammissibilità di dette prove, mentre in questo motivo non se ne fa carico, come avrebbe dovuto.

La ricorrente se ne sarebbe dovuta far carico deducendo il pertinente motivo di violazione della norma del procedimento regolatrice dell’articolazione della prova testimoniale.

In tale situazione la cassazione della sentenza non è possibile, perchè con essa si dovrebbe cassare la decisione per avere ritenuto non proposta l’istanza di verificazione, ma il giudice di rinvio si troverebbe, poi, nella condizione di non poter istruire il relativo procedimento, per essere le prove testimoniali inammissibili.

Ne consegue che l’errore in cui è incorso circa l’apprezzamento della proposizione di un’istanza di verificazione dev’essere corretto solo con riferimento alla motivazione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., perchè la sua incidenza sul dispositivo della decisione è stata ininfluente, in quanto resterebbe fermo che l’istanza non risulterebbe assistita da prove utili ai sensi dell’art. 216 c.p.c., comma 1, che fossero ammissibili.

Il principio di diritto che viene in evidenza è il seguente:

"qualora il giudice di merito abbia erroneamente affermato che la parte non aveva formulato istanza di verificazione di una scrittura privata disconosciuta dalla controparte, omettendo di considerare che la relativa istanza si poteva ravvisare nella articolazione di una prova per testi tendente a dimostrare che la scrittura era stata sottoscritta dalla controparte, ove il giudice abbia anche apprezzato tale prova e l’abbia considerata inammissibile per genericità, il rilievo da parte del giudice di legittimità dell’erroneo apprezzamento circa la volontà di ottenere la verificazione può comportare solo la correzione della motivazione, se non è stata impugnata dal ricorrente la decisione del giudice circa l’inammissibilità della prova (oppure se, pur impugnata la decisione in parte qua, il relativo motivo sia inammissibile o venga rigettato)".

Per la verità della valutazione di inammissibilità delle prove per testi la B. si lamenta con il secondo motivo, ma esso, come subito si dirà, è inammissibile e comunque sul punto infondato.

p.2. Il secondo motivo deduce "insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5".

Il motivo è relativo alla valutazione di inammissibilità delle prove per testi di cui s’è detto a proposito del motivo precedente, ma risulta inammissibile perchè, per come proposto, avrebbe dovuto concludesi o contenere (nei sensi indicati da consolidata giurisprudenza di questa Corte: ex multis già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007 e, quindi, Cass. sez. un. n. 20603 del 2007) il momento di sintesi espressivo della c.d. "chiara indicazione", cui alludeva l’ora abrogato art. 366-bis c.p.c., applicabile al ricorso, sia i quanto esso è stato proposto nella sua vigenza, sia per l’implicazione desumibile dalla L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5.

Inoltre: a) il motivo, inerendo la valutazione di inammissibilità delle prove per testi avrebbe dovuto essere dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., indicare la violazione della norma dell’ari.

244 c.p.c., n. 4 e concludersi con n quesito di diritto; b) se si fosse potuto scrutinare superando tali ragioni di inammissibilità, il motivo sarebbe risultato infondato, atteso che la capitolazione probatoria è effettivamente priva della collocazione spaziale, atteso che non si dice in quale luogo ed in quali circostanze sarebbe avvenuta la sottoscrizione, sicchè la valutazione della sentenza impugnata sarebbe stata sotto tale profilo corretta, in quanto la dimensione spaziale, puntuale o almeno relativa, è certamente necessaria per rispettare il principio di specificità di cui al citato art. 244 (detta valutazione non sarebbe stata corretta, invece, sotto il profilo temporale, dato che il primo capitolo collocava temporalmente il fatto, ma ciò non avrebbe potuto rendere ammissibile la prova).

p.3. Il terzo motivo denuncia "violazione e falsa applicazione dell’art. 474 c.p.c., art. 615 c.p.c. e R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, art. 55, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa e comunque insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5".

p.3.1. Il motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è nuovamente inammissibile, perchè non contiene il momento di sintesi espressivo della c.d. "chiara indicazione".

p.3.2. Per quanto attiene al motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, l’illustrazione propone un quesito di diritto del seguente tenore:

"Se in base al disposto di cui all’art. 615 c.p.c. ed in relazione all’art. 474 c.p.c., e R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, art. 55, il giudice debba verificare, indipendentemente dall’atteggiamento delle parti, l’esistenza e la validità del titolo esecutivo. Ciò quando risulti alterato".

Ora, il sopra riprodotto quesito pone un interrogativo del tutto astratto e privo di alcun riferimento alla vicenda ed alla decisione impugnata ed appare, pertanto, assolutamente privo del requisito della conclusività, necessario perchè la formulazione del quesito possa assolvere al suo scopo.

L’art. 366-bis c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito di diritto dovesse concludere il motivo imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva concludere l’illustrazione del motivo ed il motivo si risolve in una critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa sul punto oggetto dell’impugnazione e criticato dal motivo, appare evidente che il quesito, per concludere l’illustrazione del motivo, doveva necessariamente contenere un riferimento riassuntivo ad esso e, quindi, al suo oggetto, cioè al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse evidenziato – ancorchè succintamente – perchè l1 interrogativo giuridico astratto era giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un quesito che non presenta questa contenuto è, pertanto, un non-quesito (si veda, in termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008; nonchè n. 6420 del 2008).

E’ da avvertire che l’utilizzo del criterio del raggiungimento dello scopo per valutare se la formulazione del quesito sia idonea all’assolvimento della sua funzione appare perfettamente giustificato dalla soggezione di tale formulazione, costituente requisito di contenuto-forma del ricorso per cassazione, alla disciplina delle nullità e, quindi, alla regola dell’art. 156 c.p.c., comma 2, per cui all’assolvimento del requisito non poteva bastare la formulazione di un quesito quale che esso fosse, eventualmente anche privo di pertinenza con il motivo, ma occorreva una formulazione idonea sul piano funzionale, sul quale emergeva appunto il carattere della conclusività. Da tanto l’esigenza che il quesito rispettasse i criteri innanzi indicati.

Per altro verso, la previsione della necessità del quesito come contenuto del ricorso a pena di inammissibilità escludeva che si potesse utilizzare il criterio di cui all’art. 156 c.p.c., comma 3, posto che quando il legislatore qualifica una nullità di un certo atto come determinativa della sua inammissibilità deve ritenersi che abbia voluto escludere che il giudice possa apprezzare l’idoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo sulla base di contenuti desunti aliunde rispetto all’atto: il che escludeva che il quesito potesse integrarsi con elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso, atteso che l’inammissibilità era parametrata al quesito come parte dell’atto complesso rappresentante il ricorso, ivi compresa l’illustrazione del motivo (si veda, in termini, già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007; (ord.) n. 15628 del 2009, a proposito del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6).

E’, altresì, da avvertire, che l’intervenuta abrogazione dell’art. 366-bis c.p.c., non può determinare – in presenza di una manifestazione di volontà del legislatore che ha mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi proposti dopo il 4 luglio 2009 contro provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso la retroattività dell’abrogazione per i ricorsi proposti antecedentemente e non ancora decisi l’adozione di un criterio interpretativo della stessa norma distinto da quello che la Corte di Cassazione, quale giudice della nomofilachia anche applicata al processo di cassazione, aveva ritenuto di adottare anche con numerosi arresti delle Sezioni Unite.

L’adozione di un criterio di lettura dei quesiti di diritto ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c. dopo il 4 luglio 2009 in senso diverso da quanto si era fatto dalla giurisprudenza della Corte anteriormente si risolverebbe, infatti, in una patente violazione dell’art. 12 preleggi, comma 1, posto che si tratterebbe di criterio contrario all’intenzione del legislatore, il quale, quando abroga una norma, tanto più processuale, e la lascia ultrattiva o comunque non assegna effetti retroattivi all’abrogazione, manifesta non solo una voluntas nel senso di preservare l’efficacia della norma per la fattispecie compiutesi anteriormente all’abrogazione e di assicurarne l’efficacia regolatrice rispetto a quelle per cui prevede l’ultrattività, ma anche una implicita voluntas che l’esegesi della norma abrogata continui a dispiegarsi nel senso in cui antecedentemente è stata compiuta. Per cui l’interprete e, quindi, anche la Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 65 ord, giud., debbono conformarsi a tale doppia voluntas e ciò ancorchè, in ipotesi, l’eco dei lavori preparatori della legge abrogativa riveli che l’abrogazione possa essere stata motivata anche e proprio dall’esegesi che dia norma sia stata data. Invero, anche l’adozione di un criterio esegetico che tenga conto della ragione in mente legislatoris dell’abrogazione impone di considerare che l’esclusione dell’abrogazione in via retroattiva ed anzi la previsione di una certa ultrattività per determinate fattispecie sempre in mente legislatoris significhino voluntas di permanenza dell’esegesi affermatasi, perchè il contrario interesse non è stato ritenuto degno di tutela.

Il terzo motivo è, dunque, inammissibile perchè si conclude con un quesito inidoneo al rispetto dell’art. 366-bis c.p.c..

3.3.Se il motivo fosse esaminabile nel merito sarebbe, comunque, da considerare palesemente infondato.

Nella sua illustrazione si sostiene che, avendo la B. dedotto nel ricorso in opposizione che l’assegno posto a base dell’esecuzione era stato emesso a favore di sè medesima (come emergeva dalla cancellatura della dicitura "M.M.", che si scorgerebbe sull’assegno ed anche dal fatto che sul retro dopo la parola "girate" figurava la sottoscrizione di essa ricorrente), il Tribunale Giudice dell’Esecuzione avrebbe dovuto considerare l’assegno, nell’esercizio dei suoi poteri di controllo sull’esistenza di un titolo esecutivo, come privo di tale efficacia.

L’assunto (impregiudicato il problema del se un’alterazione come quella indicata rientrasse effettivamente tra quello che il giudice dell’esecuzione ha quanto alla valutazione d’ufficio dell’esistenza del titolo esecutivo), essendo basato sulla deduzione che l’assegno, sottoscritto dalla B., era stato alterato nell’indicazione del prenditore, richiedeva, tuttavia, che la B., nel proporre l’opposizione o nel corso del suo svolgimento formulasse querela di falso, atteso che l’assegno, quale scrittura privata non disconosciuta, aveva quanto alla provenienza del contenuto intrinseco per come rappresentato e in esso figurante, sia pure attraverso la correzione materiale del nome del prenditore, la efficacia fino a querela di falso (si veda Cass. n. 4689 del 1983, secondo cui "A norma dell’art. 2702 cod. civ., la scrittura privata, una volta riconosciutane la sottoscrizione, si comporta come atto pubblico per quel che riguarda l’attendibilità del documento e la sua efficacia probatoria, nonchè per quanto riguarda il collegamento tra dichiarazione e sottoscrizione, con conseguente possibilità di rimuovere siffatta efficacia soltanto attraverso la querela di falso". E, a proposito di titolo di credito, Cass, n. 4618 del 1998, secondo la quale, "La verifica della esistenza di un’alterazione contenuta in una cambiale – in seguito al dedotto inserimento della dicitura "avallante" a lato della sottoscrizione del debitore – deve necessariamente compiersi con le garanzie del procedimento previsto per la querela di falso (art. 221 cod. proc. civ., e segg.), senza che, in alternativa, risulti ammissibile, in sede di giudizio, una generica contestazione, da parte del ricorrente, della asserita falsità documentale").

La B. avrebbe, dunque, dovuto proporre querela di falso per dimostrare l’alterazione, che, altrimenti, non poteva non essere considerata tamquam non esset alla stregua del seguente principio di diritto; "qualora l’opponente ad un’esecuzione basata su un assegno bancario deduca con l’opposizione che l’assegno, di cui figura emittente e del quale non disconosca la sottoscrizione relativa al rapporto di emissione, è stato alterato con l’indicazione di un terzo prenditore, nella specie il creditore procedente, in vece dello stesso emittente, la deduzione è priva di rilevanza se non accompagnata dalla proposizione della querela di falso, attesa l’efficacia conseguita ai sensi dell’art. 2702 c.c. dall’assegno quale scrittura privata che si ha legalmente per riconosciuta".

4. Il quarto motivo deduce "violazione e falsa applicazione dell’art. 2702 c.c., art. 214 c.p.c., art. 215 c.p.c., art. 216 c.p.c. e art. 615 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa e comunque insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5".

Vi si sostiene – in modo singolare, tenuto conto che sarebbe stato logico far valere tale motivo prima di quello precedente – che la sottoscrizione dell’assegno quanto alla sua emissione (ma non è neppure detto espressamente) era stata disconosciuta "nel ricorso ex art. 615 c.p.c." (pagina sedici del ricorso, all’inizio dell’illustrazione del motivo), ma ci si astiene dal riprodurre direttamente la dichiarazione di disconoscimento ed anche dal riprodurla indirettamente con l’identificazione della pagina e delle righe contenenti il disconoscimento.

Nella successiva pagina diciassette si dice che il disconoscimento sarebbe avvenuto "come riportato alla pag. 15 che precede", ma ivi non si rinviene alcunchè che evochi il disconoscimento della sottoscrizione di emissione.

Stante tale articolazione il motivo è inammissibile per l’assoluta mancanza di indicazione specifica dell’atto processuale su cui si fonda.

Ove, poi, dimenticando il rilievo di inammissibilità, si procedesse alla lettura del ricorso in opposizione, vi si troverebbe una patente smentita dell’allegazione, atteso che nella sua seconda pagina, al sestultimo rigo, si parla di assegno "sottoscritto dalla signora B.I. e dalla stessa girato e dato in custodia al figlio".

Il motivo, dunque, sarebbe manifestamente infondato e dedotto senza l’osservanza del principio di cui all’art. 88 c.p.c..

5. Il ricorso è, conclusivamente, rigettato.

Non è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 22 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2012

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