Cass. civ. Sez. III, Sent., 24-07-2012, n. 12890 Contratti agrari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 10 marzo 2003 M.A., St. e S., comproprietari di un fondo rustico sito in comune di (OMISSIS), premesso che una porzione di tale fondo di cui ai mappali 115 e 116, con insistente capannone ad uso agricolo-artigianale, risultava detenuta in affitto da Z.P., in forza di contratto 13.2.1995, concluso con il precedente proprietario, M.G.B., per un canone annuo di L. 7 milioni;

che, come emerso da una relazione peritale, il capannone risultava in stato di abbandono (essendo ricoverati pochi animali in condizioni igieniche spaventose), inoltre, il fondo era ridotto ad una discarica di rifiuti tossici ed erano state abusivamente tagliate varie piante senza autorizzazione; che per di più non erano stati loro versati i canoni di affitto dal novembre 1999; tutto ciò esposto, adivano il tribunale di Vicenza – Sezione specializzata agraria – per sentir accertare il grave inadempimento del predetto Z., e per sentir quindi dichiarare la risoluzione del contratto, con la condanna dello Z. all’immediato rilascio del fondo, al pagamento dei canoni maturati e maturandi ed al risarcimento dei danni, stante la necessità di bonifica del terreno. Z.P. resisteva, contestando gli addebiti, e rilevando in particolare di aver utilizzato il fondo per ciò che era possibile, senza modificare la situazione dei luoghi preesistente (in quanto già il concedente M. aveva chiesto il cambiamento della destinazione d’uso di parte del capannone – da agricolo ad artigianale – in relazione ad un’attività di produzione di bricchetti da ardere); di aver inoltre regolarmente pagato il canone al precedente proprietario, che aveva disposto il taglio delle piante; di aver infine tenuto gli animali in regola. Svolgeva domanda riconvenzionale per sentir condannare i ricorrenti al pagamento delle spese da sostenere per rimuovere i rifiuti ed i materiali di discarica, come imposto nell’ordinanza del Comune di Thiene di data 21.7.2003 (essendo imminenti le operazioni di asporto), trattandosi di esborso facente carico ai proprietari. A seguito di istruzione anche testimoniale, e disposta da ultimo consulenza tecnica d’ufficio per accertare i costi di smaltimento dei rifiuti, il giudice adito accoglieva le domande dei ricorrenti e dichiarava risolto il contratto per grave inadempimento dell’affittuario, che condannava, rigettata la domanda riconvenzionale di rimborso spese, al rilascio del fondo, nonchè a risarcire i danni, quantificati in Euro 170.545,00, pari ai costi di bonifica del terreno, a favore dei consorti M., ed a rifondere ai medesimi le spese di lite. Avverso tale decisione proponeva appello lo Z. ed in esito al giudizio, in cui si costituivano i M., la Corte di Appello di Venezia con sentenza depositata in data 6 marzo 2007 dichiarava la nullità della sentenza per ultrapetizione, rigettava le domande dei M., dichiarava improcedibile la domanda di pagamento proposta dallo Z., compensava le spese di entrambi i gradi. Avverso la detta sentenza i M. hanno quindi proposto ricorso per cassazione articolato in sei motivi, illustrato da memoria. Resiste con controricorso lo Z..
Motivi della decisione

Con la prima doglianza, deducendo l’omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo, i ricorrenti lamentano che la Corte territoriale non avrebbe adeguatamente chiarito le ragioni che l’avevano portata alla riforma della sentenza di primo grado.

Con la seconda doglianza, ancora deducendo l’omessa,erronea, insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo, i ricorrenti lamentano "una carenza di motivazione dovuta ad una errata lettura di tutti i documenti e di tutti gli atti di causa", aggiungendo che era stata ignorata in particolare la relazione tecnica depositata in primo grado, in cui il CTU aveva evidenziato un’abnorme concentrazione di arsenico sul terreno vicinissimo a falde acquifere ed a corsi di acqua.

Con la terza doglianza, deducendo la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112, parte ricorrente ha censurato la sentenza impugnata osservando che "quanto esposto sub b) potrebbe anche concretizzare l’ipotesi di una aperta violazione dell’art. 112 c.p.c.". Ha quindi concluso il motivo con un quesito di diritto, che sarà riportato in prosieguo.

Con la quarta doglianza, per violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., i ricorrenti hanno lamentato che la Corte territoriale, "al fine di rigettare in ogni caso le domande proposte in primo grado dai comproprietari M.", avrebbe posto alla base della decisione documenti datati 25.10.2004 (verbale di polizia municipale di Thiene), 12.06.203 (verbale di polizia municipale di Thiene), 30.03.95 (domanda di condono edilizio di Z.P.) prodotti per la prima volta in appello dallo Z.. Hanno quindi concluso il motivo con un quesito di diritto, che sarà riportato in seguito.

Con la quinta doglianza, per violazione e/o falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 5, i ricorrenti lamentano che la Corte di Appello non avrebbe tenuto presente che il mancato adempimento da parte del conduttore delle motivate richieste dei proprietari nei termini perentori previsti dalla L. n. 203 del 1982, art. 5, determina la risoluzione del contratto. Hanno quindi concluso il motivo con il seguente quesito" adempiere alle motivate richieste dei proprietari ben oltre il termine concesso dalla L. n. 203 del 1982, art. 5, comporta la cessazione della materia del contendere, o peggio, comporta la reiezione della domanda proposta nei confronti del conduttore? L’adempimento eventuale oltre alla scadenza del termine perentorio previsto alla L. n. 203 del 1982, art. 5, comporta, in realtà, la risoluzione del contratto per fatto imputabile al fittavolo in relazione a quanto contestato sempre alla luce dello stesso articolo? Con l’ultima doglianza, per omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo e contestato (art. 360 c.p.c., n. 5), i ricorrenti hanno infine censurato la sentenza impugnato per avere la Corte di appello "letto in maniera distorta e parziale la perizia dell’arch.

P." disposta in primo grado, omettendo di rilevare come le contestazioni elevate ex art. 5 citato fossero relative ad atti compiuti dallo Z..

Tutto ciò premesso e considerato, deve innanzitutto rilevarsi l’inammissibilità delle censure, esattamente la prima, la seconda e la sesta, con cui sono stati dedotti vizi motivazionali, in quanto nessuna di tali doglianze risulta accompagnata dal necessario momento di sintesi. Ciò, sulla base del consolidatissimo orientamento di questa Corte, secondo cui qualora nel ricorso per cassazione sia denunciata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la censura di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, la doglianza deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, oltre a richiedere sia l’indicazione del fatto controverso, riguardo al quale si assuma l’omissione, la contraddittorietà o l’insufficienza della motivazione sia l’indicazione delle ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione (Cass. ord. n. 16002/2007, n. 4309/2008 e n. 4311/2008;

Ed è appena il caso di sottolineare come tale momento di sintesi debba consistere in una parte del motivo a ciò specificamente destinata, elaborata dallo stesso ricorrente in termini compiuti ed autosufficienti, senza che la Corte sia obbligata ad una attività di interpretazione della doglianza complessivamente illustrata, al fine di poter individuare oltre al fatto controverso, cui si riferisce il ricorrente, anche le ragioni per cui la motivazione sarebbe stata omessa o comunque sarebbe insufficiente e/o contraddittoria. Il mancato assolvimento di tale onere comporta l’inammissibilità delle censure.

Ugualmente inammissibile è il terzo motivo di impugnazione, attinente alla asserita violazione e falsa applicazione dell’art. 112, in quanto il relativo quesito non soddisfa le prescrizioni di cui all’art. 366 bis c.p.c.. Ed invero, il quesito di diritto "deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. Cass., ord. n. 19769 del 2008; Cass., S.U., n. 6530 del 2008; 4856/09).

Ne deriva l’inammissibilità di un quesito di diritto, come quello formulato nel caso di specie, in cui parte ricorrente si limita a chiedere alla S.C. quanto segue: "se il giudice di secondo grado avesse valutato ed esaminato la domanda dei ricorrenti in primo grado secondo quanto esposto in questa sede, avrebbe rilevato il vizio di ultrapetizione o avrebbe correttamente applicato l’art. 112 c.p.c., rilevando l’assoluta corrispondenza tra il richiesto ed il giudicato in primo grado?" E’altresì inammissibile,oltre che infondata, la quarta doglianza, per violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., per avere la Corte territoriale posto a base della decisione documenti prodotti per la prima volta in sede di appello. Anche, in tale ipotesi, infatti il quesito non soddisfa le prescrizioni di legge ove si consideri che parte ricorrente ha accompagnato il motivo con i seguenti quesiti: "esaminare i documenti prodotti per la prima volta in sede di appello, pur essendo, vista la data degli stessi, nella disponibilità di chi li ha prodotti da molti anni e dare rilievo a tali documenti al fine di decidere implica la violazione dell’art. 437 c.p.c.? Senza l’esame di tali documenti, considerati inammissibili, perchè tardivamente prodotti, sarebbe stata respinta la domanda dei ricorrenti in primo grado in quanto gli addebiti e le contestazioni elevate ai sensi della L n. 203 del 1982, art. 5, erano imputabili a Terzi ( M.)? Ovvero tali domande svolte in primo grado sarebbero state accolte in quanto le eccezioni sollevate dal convenuto in primo grado erano sfornite di ogni sostegno probatorio?" Ed invero, l’inammissibilità della doglianza deriva dal rilievo che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, non è consentito il quesito "multiplo", in quanto ad una censura di diritto esposta nel motivo non può che corrispondere un quesito di diritto ed uno solo, solo in tal modo escludendosi ogni rischio di equivocità e solo con tale scelta restando sostenibile il rapporto di pertinenzialità esclusiva e diretta tra motivo e quesito (Cass. n. 1906/2008). Inoltre, la doglianza è altresì infondata ove si consideri che, come risulta dalla sentenza impugnata, non è affatto vero che la Corte di merito abbia fondato la sua decisione sui documenti prodotti in appello, avendo tenuto invece in debita considerazione anche la dichiarazione già resa il 5 giugno 2003 dal M., "così confermando – tra l’altro – la sua precedente dichiarazione scritta rilasciata allo Z., e subito prodotta in giudizio), giusta il verbale di polizia municipale 12.6.2003, ora prodotto dall’appellante "(cfr pag. 11 della sentenza).

Infine, non coglie nel segno la quinta censura, per violazione e/o falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 5, fondata sul rilievo che lo Z. avrebbe adempiuto alle motivate richieste dei proprietari ben oltre il termine concesso dalla L. n. 203 del 1982, art. 5, con conseguente verificarsi di una causa di risoluzione contrattuale.

A riguardo, vale la pena di premettere che, secondo l’espressa previsione della L. n. 203 del 1982, art. 5, "la risoluzione del contratto di affitto a coltivatore diretto può essere pronunciata nel caso in cui l’affittuario si sia reso colpevole di grave inadempimento contrattuale, particolarmente in relazione agli obblighi inerenti al pagamento del canone, alla normale e razionale coltivazione del fondo, alla conservazione e manutenzione del fondo medesimo e delle attrezzature relative, alla instaurazione di rapporti di subaffitto o di sub concessione" Peraltro, prima di ricorrere all’autorità giudiziaria, il locatore è tenuto a contestare all’altra parte, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, l’inadempimento e ad illustrare le proprie motivate richieste. Ove il conduttore sani l’inadempienza entro tre mesi dal ricevimento di tale comunicazione, non si da luogo alla risoluzione del contratto. Ne deriva che il pur grave inadempimento contrattuale costituisce un presupposto necessario ma non sufficiente per farsi luogo alla risoluzione del contratto, essendo il locatore onerato di:

a) contestare previamente l’inadempimento mediante lettera raccomandata; b) illustrare le proprie motivate richieste; c) concedere al conduttore il termine di tre mesi per procedere a sanare l’inadempimento. Con l’ulteriore conseguenza che la circostanza che il conduttore sani "l’inadempienza" entro tre mesi dal ricevimento della comunicazione contenente la contestazione dell’inadempimento e le motivate richieste costituisce causa ostativa della domanda di risoluzione.

Ciò posto, risulta di ovvia evidenza che la ratio della disposizione in esame è quella di privilegiare, per quanto possibile, la conservazione del rapporto. Ora la considerazione dell’intento perseguito dal legislatore ed il rilievo che la norma non contiene alcuna indicazione di perentorietà del termine per sanare l’inadempimento inducono a ritenere che la previsione dell’art. 5 citato, secondo cui, ove il conduttore sani l’inadempienza non si da luogo alla risoluzione del contratto, si limita a configurare per l’affittuario inadempiente una possibile sanatoria, senza elevare però l’infruttuoso decorso del termine di tre mesi a causa di risoluzione del contratto. Ciò, in quanto, come ha già avuto modo di statuire questa Corte, l’inadempimento dell’affittuario di fondo rustico può legittimare la risoluzione del contratto solo quando leda in modo rilevante la capacità produttiva del fondo o trasformi la destinazione economica dello stesso. Del resto, la valutazione dell’importanza dell’inadempimento idoneo a giustificare la risoluzione del contratto di affitto integra un accertamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato (Cass. n. 6669/09).

Ed è appena il caso di sottolineare che, nel caso di specie, la Corte di merito ha ritenuto l’insussistenza del grave inadempimento, con motivazione ben articolata, chiara e rispettosa dei principi di diritto in materia, evidenziando che "l’avvenuta rimozione dei detriti e dei rifiuti depositati in superficie a cura e spese dello Z. (come documentato) comporta di per sè il rigetto della domanda di risoluzione, non essendo ravvisatile in definitiva alcun grave inadempimento, anche tenuto conto che – in massima parte – i rifiuti in esame erano già presenti in loco al momento della conclusione del contratto di affitto, come puntualmente dichiarato dai testi L. e Ma.". (cfr pag. 10).

Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese processuali che liquida in Euro 3.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2012

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