Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 25-01-2013) 23-07-2013, n. 31957

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 21 ottobre 2008 il Tribunale di Roma dichiarava C.D. e Ce.It., entrambi ispettori della sede INPS di (OMISSIS), responsabili del reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti contro la pubblica amministrazione (capo A), condannandoli alla pena di quattro anni di reclusione, con applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per anni cinque; inoltre, dichiarava F. V., ispettore del lavoro presso la Direzione provinciale del lavoro di (OMISSIS), responsabile dei reati di concussione e abuso d’ufficio (capi I, L) e lo condannava a tre anni e sei mesi di reclusione, con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici;
riconosceva Co.Ca., cancelliere in servizio presso la Procura di (OMISSIS), responsabile dei reati di rivelazione dei segreti d’ufficio e di favoreggiamento personale (capo N), nonchè di corruzione propria (capo O), condannandolo a tre anni e sei mesi di reclusione, con l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni;
dichiarava l’estinzione per intervenuta prescrizione dei reati di corruzione e abuso d’ufficio contestati a C. e Ce. (capi B e F), nonchè del reato di tentata concussione contestata a Ce. (capo G) e dei reati di falsità materiale contestati a Co. (capi P e Q); condannava C. e Ce. al risarcimento dei danni in favore dell’INPS e F. al risarcimento dei danni in favore della S., stabilendo a favore di quest’ultima parte civile la provvisionale di Euro 10.000,00;
ordinava la confisca delle somme di denaro sequestrate a C., Ce. e Co. e, con riferimento a quest’ultimo, anche dei buoni di benzina; assolveva con formula piena Ce. dai reati di concussione e corruzione di cui ai capi D), E) e M), Co. dai reati di associazione per delinquere e favoreggiamento reale di cui ai capi A) e N), F. dal reato di concussione di cui al capo D).
2. Sulle impugnazioni degli imputati la Corte d’appello di Roma, con la decisione in epigrafe indicata, ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado:
– ha dichiarato la estinzione per intervenuta prescrizione del reato associativo contestato a C. e Ce. al capo A), nonchè dei reati di rivelazione dei segreti d’ufficio, di favoreggiamento e di corruzione contestati a Co. ai capi N) e O) e del reato di abuso d’ufficio contestato a F. al capo L);
– ha qualificato come abuso d’ufficio il reato contestato al capo B), così qualificata la condotta originariamente contestata a Ce.
e C. come corruzione e già dichiarata prescritta dal primo giudice;
– ha assolto nel merito Ce. dal reato di tentata concussione di cui al capo G);
– ha revocato le pene accessorie applicate nei confronti di C., Ce. e Co.;
– ha confermato la responsabilità di F. per il reato di concussione di cui al capo I), rideterminando la pena in tre anni di reclusione;
– ha confermato la confisca delle somme di denaro e dei buoni di benzina, nonchè le statuizioni civili a favore dell’INPS e della S., condannando C., Ce. e F. alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle parti civili;
– ha dichiarato inammissibili gli appelli proposti da Ce. e F. sulle pronunce assolutorie dei capi D) e E).
Nel resto è stata confermata la prima sentenza.
3. In conclusione, l’unica condanna residua è quella per la concussione attribuita a F. ritenuto responsabile di avere abusato della sua qualità di pubblico ufficiale perchè, nel corso di una ispezione condotta nei confronti della S. s.p.a., induceva i responsabili della società a promettere e, successivamente, a consegnargli, per il tramite dell’avvocato V. M., la somma in contanti di 15 milioni di lire, prospettando un approfondimento dell’ispezione con conseguente possibile maggiorazione delle sanzioni per un importo quantificato in circa 400- 500 milioni di lire rispetto alle violazioni fino a quel momento riscontrate e relative alla violazione della legge n. 1369/1960 sull’interposizione fittizia di manodopera e ad alcune irregolarità fiscali. I giudici di secondo grado hanno considerato provata la condotta concussiva dell’imputato sulla base delle dichiarazioni rese da V., legale della società, nonchè dai riscontri bancari e dai servizi di osservazione compiuti dalla polizia giudiziaria che ha seguito l’incontro tra F. e V., in cui vi sarebbe stata la consegna del denaro.
4. Tutti gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione.
4.1. L’avvocato Rosario Tarantola, nell’interesse di C., in relazione ai reati di cui ai capi A) e B) deduce la nullità della sentenza per genericità della motivazione in ordine alla richiesta di assoluzione nel merito da tutti i reati e alla richiesta di revoca del provvedimento di confisca della somma di 50 milioni di lire oggetto di sequestro.
4.2. Per la posizione di Ce. ha proposto ricorso per cassazione l’avvocato Patrizio Alecce, che con il primo motivo, con riferimento al reato di cui al capo B), ribadisce l’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni per violazione dell’art. 270 c.p.p., in quanto le captazioni sono state disposte in diverso procedimento, avente ad oggetto fatti di corruzione di funzionari dell’Agenzia delle Entrate per i rimborsi IVA, tra soggetti diversi e con riferimento al reato di cui all’art. 319 c.p., che non consente l’arresto obbligatorio in flagranza. Si assume che il collegamento probatorio non può scaturire dal fatto che dalle intercettazioni in corso emergano elementi di prova anche per un diverso reato, in quanto deve trattarsi di un collegamento che deve sussistere a monte e fondarsi su di una fonte diversa e autonoma dalle intercettazioni che si vogliono utilizzare oltre i limiti dell’art. 270 c.p.p.. In conclusione, il ricorrente chiede l’annullamento senza rinvio della sentenza o, in subordine, la rimessione della questione alle Sezioni unite, in presenza di orientamenti discordanti sulla questione.
Con il secondo motivo viene dedotta la violazione degli artt. 129 e 578 c.p.p., e il vizio di motivazione per avere la Corte d’appello omesso di pronunciare sentenza di assoluzione nel merito nonostante l’innocenza dell’imputato emergesse ictu oculi dall’esame del compendio probatorio acquisito ed evidenziato nello stesso atto di impugnazione, i cui motivi non sono stati affatto presi in considerazione dal momento che i giudici hanno dichiarato l’estinzione per prescrizione senza verificare la possibilità di una assoluzione con formula piena.
Si rileva che sono state confermate le statuizioni civili ai sensi dell’art. 578 c.p.p., senza fornire al riguardo alcuna motivazione e inoltre si contesta la legittimazione dell’INPS a costituirsi parte civile, non essendo emerso alcun danno immediato e diretto derivante dal reato di cui all’art. 416 c.p..
Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt. 192, 194 e 546 c.p.p., nonchè il vizio di motivazione in relazione al capo B) dell’imputazione, rilevando che la Corte di secondo grado ha omesso ogni esame e valutazione delle tesi difensive proposte con l’atto di impugnazione.
Con il quarto motivo viene denunciata la violazione dell’art. 323 c.p., artt. 192 e 546 c.p.p., nonchè il vizio di motivazione in ordine al reato di cui al capo F).
Con il quinto motivo si deduce la violazione dell’art. 416 c.p., artt. 192 e 546 c.p.p., nonchè il vizio di motivazione con riferimento al reato associativo di cui al capo A).
Con il sesto motivo il ricorrente censura la sentenza per avere disposto la confisca della somma di 300 milioni di lire nonostante la dichiarazione di estinzione dei reati e l’assoluzione da alcuni reati.
4.3. Nell’interesse di Co. l’avvocato Roberto Rampioni denuncia la nullità della sentenza per mancanza e illogicità della motivazione con riferimento ai reati di cui ai capi N) e O) per i quali è intervenuta dichiarazione di estinzione per prescrizione.
Con un successivo motivo deduce l’erronea applicazione dell’art. 240 c.p., in quanto la Corte territoriale ha confermato il provvedimento di confisca delle somme di denaro e dei buoni di benzina in sequestro nonostante l’avvenuta estinzione dei reati.
4.4. Nell’interesse di F.V. il difensore di fiducia, con il primo motivo, ha dedotto il difetto assoluto di motivazione, in quanto la sentenza d’appello è costituita dall’intera decisione di primo grado, riportata in fotocopia, nonchè da una sintetica riproduzione dei motivi di gravame e, infine, dalla motivazione vera e propria che altro non fa se non richiamare le argomentazioni del Tribunale, senza alcun esame e valutazione delle articolate considerazioni contenute nell’atto di appello. In sostanza, si sostiene che il giudice di secondo grado ha operato un rinvio per relationem alla motivazione della prima decisione, senza tenere in alcun conto le specifiche censure contenute nell’impugnazione, tra cui: a) la contestazione dell’attendibilità del teste V., per la carenza di riscontri delle sue dichiarazioni, smentite da quelle di P., A. e M., che avrebbero negato di avere avanzato l’idea di offrire al F. la somma di 15 milioni di lire; secondo la tesi difensiva, la Corte territoriale avrebbe dovuto spiegare le ragioni per cui ha ritenuto attendibile V. nonostante la mancanza dei riscontri, tenuto conto che in presenza di un’unica fonte testimoniale le sue dichiarazioni vanno riscontrate ab externo; b) le argomentazioni in ordine alla mancanza di riscontri nelle intercettazioni e da parte della polizia giudiziaria ( Pl. e Pa.), che non avrebbe mai visto alcuno scambio di denaro tra V. e F.; c) le critiche sui rilievi dell’accertamento bancario svolto da Va.; d) le dichiarazioni del teste della difesa Ma., capo settore dell’Ispettorato del lavoro, e i risultati dell’accertamento della condotta dell’imputato da cui è emersa la regolarità della sua ispezione conclusasi con una serie di sanzioni per somme di oltre due miliardi di lire, cifra di molto superiore a quella che, secondo V., avrebbe indicato F..
Nello stesso motivo si censura anche il difetto di motivazione in ordine al reato di cui al capo L), per il quale la Corte territoriale ha dichiarato l’estinzione per intervenuta prescrizione.
Con il secondo motivo viene denunciato un ulteriore difetto di motivazione, costituito dalla omessa considerazione della dichiarazione resa dal teste Z. il quale ha riferito che la mattina del (OMISSIS), giorno in cui secondo V. vi sarebbe stata la consegna del denaro, sarebbe stato per l’intera giornata in compagnia del F., recandosi prima ad un ufficio di collocamento e poi a (OMISSIS), negando di avere incontrato altre persone.
Con il terzo motivo si deduce ancora il difetto di motivazione, per avere ritenuto attendibile la testimonianza di V., nonostante la sua posizione di parte interessata a screditare, in accordo con i vertici della S., F. e farlo mettere sotto accusa per acquisire benefici.
Con il quarto motivo viene rappresentato il difetto assoluto di motivazione in ordine alla eccezione di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per violazione degli artt. 268, 270 e 271 c.p.p..
Con il quinto motivo il difetto di motivazione dedotto attiene alla mancata verifica della legittimità del diniego della richiesta di abbreviato, prima condizionato e poi senza alcuna condizione, da parte dei giudici di primo e secondo grado.
Con il sesto motivo, relativo al reato di cui al capo L), viene fatto valere il vizio di motivazione in ordine ad una ipotesi di nullità della sentenza di primo grado che ha condannato l’imputato alla pena detentiva sebbene sul punto il pubblico ministero non aveva concluso.
Nello stesso motivo si contesta la mancata assoluzione nel merito dell’imputato ai sensi dell’art. 129 c.p.p..
Con il settimo motivo si deduce il travisamento della prova con riferimento alle testimonianze di P., A. e Ma. nonchè ad alcuni documenti da cui sarebbe emerso che non vi era alcuna soggezione da parte dei vertici della società rispetto al F., situazione questa che avrebbe giustificato quanto meno la qualificazione giuridica dei fatti nell’ambito del reato di cui all’art. 319 c.p., con conseguente dichiarazione di prescrizione dello stesso.
In data 10 gennaio 2013 il difensore del F. ha depositato motivi nuovi, in cui ha sostenuto che a seguito della riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, di cui alla L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75, entrata in vigore il 28.11.2012, la condotta dell’imputato contestata al capo I) dovrebbe oggi essere qualificata ai sensi del nuovo art. 319 quater c.p., che punisce "il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità". Infatti, il F. è accusato di avere indotto i vertici della società S. a corrispondere del denaro per evitare l’ampliamento dell’ispezione, sicchè la condotta non può essere ricompresa nell’art. 317 c.p., come oggi riformulato, in quanto la norma si riferisce ad una condotta di costrizione, ma nella nuova ipotesi di cui al citato art. 319 quater c.p.. Ciò comporta, secondo la difesa, la estinzione per prescrizione anche di questo reato, punito con una pena inferiore.
5. L’avvocato Claudio Staderini ha depositato una memoria nell’interesse della S. s.p.a., costituita parte civile nei confronti di F. per il reato di concussione (capo I), chiedendo la conferma della sentenza impugnata anche in relazione alle statuizioni civili e alla provvisionale.
Motivi della decisione
6. I ricorsi presentati da C., Ce. e Co. sono infondati.
6.1. C. si limita a denunciare la genericità della motivazione per la mancata assoluzione nel merito, ma non indica alcun elemento di valutazione da cui poter desumere l’evidenza della prova della sua "innocenza", che consentirebbe di superare la dichiarazione di estinzione dei reati a seguito di prescrizione. Al contrario, la sentenza impugnata, con riferimento ai reati di cui ai capi A) e B), ha indicato una serie di elementi che consentono di escludere la prova evidente dell’insussistenza del fatto, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo: in particolare, i giudici di appello hanno ampiamente motivato in ordine alla valenza probatoria sia delle intercettazioni telefoniche, da cui risulta lo stesso "modus operandi" dell’associazione criminosa composta da C., Ce. e B., sia degli accertamenti bancari che hanno consentito di verificare le grandi disponibilità economiche degli imputati incompatibili con i redditi dell’attività lavorativa svolta, circostanza che opera da riscontro oggettivo alle conversazioni intercettate.
6.2. Discorso analogo può essere fatto in relazione al ricorso di Co., in quanto anche in questo caso si deduce il vizio di motivazione in ordine ai reati di cui ai capi N) e O) dichiarati estinti per prescrizione.
Come è noto, in presenza di una causa di estinzione del reato non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata dal momento che il rinvio, da un lato, determinerebbe comunque per il giudice l’obbligo di dichiarare immediatamente l’estinzione, in questo caso per prescrizione, dall’altro, sarebbe incompatibile con l’obbligo dell’immediata declaratoria di proscioglimento (Sez. un., 28 maggio 2009, n. 35490, Tettamanti).
D’altra parte, dagli atti così come rappresentati in sentenza non emergono elementi da cui desumere l’evidenza dell’estraneità dell’imputato rispetto ai reati contestatigli.
6.3. Passando ad esaminare il ricorso del Ce., si rileva innanzitutto l’infondatezza dell’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni.
L’art. 270 c.p.p., comma 1, dispone che "i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza".
Tuttavia, questa Corte ha avuto modo di rilevare che il concetto di diverso procedimento, di cui all’art. 270 cit., non si estende fino ad escludere la possibilità di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti concernenti indagini strettamente connesse e collegate, sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato in ordine al quale il mezzo di ricerca della prova è stato disposto (Sez. 2^, 19 gennaio 2004, n. 9579, Rv. 228384; Sez. 3^, 13 novembre 2007, n. 348, Rv. 238779). Infatti, il concetto di "diverso procedimento" non equivale a diverso reato e va collegato al dato della alterità o non uguaglianza del procedimento, in quanto instaurato in relazione ad una notitia criminis che derivi da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell’ambito di altro, differente, anche se connesso procedimento (Sez. 4^, 11 dicembre 2008, n. 4169, Rv. 242836).
Nel caso in esame, i giudici di merito hanno ritenuto che le indagini relative ai due procedimenti fossero strettamente connesse e collegate sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico al reato in ordine al quale il mezzo di ricerca della prova è stato disposto, per cui, tenuto conto dei limiti del sindacato di legittimità, deve ritenersi corretta, sulla base degli atti a disposizione, la valutazione della Corte d’appello che ha ribadito l’utilizzabilità delle intercettazioni, Del resto, la stessa difesa del ricorrente riconosce l’esistenza di un "collegamento" tra i due procedimenti in questione, solo che esclude che tale "collegamento" possa operare ai sensi dell’art. 270 cit. in quanto non rientrante tra i casi previsti dagli artt. 12 e 371 c.p.p., laddove secondo la sentenza impugnata si tratterebbe, in sostanza, di un’ipotesi di collegamento probatorio e teleologia).
6.3.1. Del tutto infondato è pure il secondo motivo.
La Corte d’appello, prima di dichiarare l’estinzione dei reati per prescrizione, ha esaminato gli elementi di prova a carico ritenendo accertata la responsabilità dell’imputato, così da escludere la possibilità di un proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p.;
allo stesso modo, sulla base di tale accertamento ha escluso ogni possibile decisione diversa dalla conferma delle statuizioni civili ai sensi dell’art. 578 c.p.p..
Inoltre, al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente, deve ritenersi la legittimazione dell’INPS, ente pubblico di cui Ce.
era dipendente, tenuto conto che l’associazione a delinquere contestata all’imputato era funzionale a commettere reati contro la pubblica amministrazione.
6.3.2. In relazione ai motivi 3, 4 e 5, con cui si deducono sostanzialmente vizi di motivazione, deve ribadirsi, anche in questo caso, l’orientamento secondo cui in presenza di una causa di estinzione del reato non sono rilevabili in sede di legittimità vizi attinenti alla motivazione della sentenza impugnata (Sez. un., 28 maggio 2009, n. 35490, Tettamanti).
7. Infine, i ricorsi di C., Ce. e Co. censurano, seppure sotto aspetti differenti, l’avvenuta conferma dei provvedimenti di confisca disposti nei loro confronti.
7.1. In particolare, il difensore di C. lamenta la mancanza di motivazione in ordine alla confisca della somma di 50 milioni di lire, ribadendo l’origine lecita della somma in sequestro.
Al riguardo deve escludersi la sussistenza del vizio dedotto, in quanto la giustificazione della disposta confisca è contenuta, attraverso una motivazione per relationem, nella sentenza del Tribunale, riportata integralmente nella decisione oggetto di impugnazione, in cui si afferma che la somma di denaro costituisce il provento dei reati posti in essere dall’imputato. Nella stessa sentenza, nel punto in cui vengono prese in esame le situazioni di C. e Ce., cioè dei due Ispettori dell’INPS accusati di associazione per delinquere e di reati contro la pubblica amministrazione, si evidenzia come dagli accertamenti bancari siano emerse grandi disponibilità economiche ritenute incompatibili con i redditi derivanti dalla loro attività lavorativa e con il patrimonio dei loro familiari; inoltre, viene sottolineata una circostanza che assume un grande rilievo nella motivazione della decisione, costituita dal fatto che i due imputati, non legati da alcun vincolo di parentela, avevano due conti correnti bancari cointestati, sui quali sono stati prima versati complessivamente 80 milioni di lire in contanti e, successivamente, sottoscritti titoli obbligazionari. Si tratta di elementi dai quali i giudici di merito hanno desunto, ragionevolmente, che si trattasse di somme costituenti il "provento" (rectius "prezzo") derivante dalla commissione dei reati loro contestati, non avendo ritenuto credibili le giustificazioni offerte dagli imputati.
7.2. Diversamente, nei ricorsi di Ce. e C. si censura la sentenza per avere confermato la confisca disposta nei loro confronti nonostante la dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione, richiamando la decisione delle Sezioni unite n. 38834 del 10 luglio 2008, De Maio.
Sul punto il Collegio ritiene di aderire a quell’orientamento interpretativo secondo cui l’estinzione del reato non preclude la confisca delle cose che ne costituiscono il prezzo, nei casi in cui vi sia comunque stato un accertamento incidentale, equivalente rispetto all’accertamento definitivo del reato, della responsabilità e del nesso pertinenziale tra oggetto della confisca e reato.
Invero, le Sezioni unite richiamate dai ricorrenti hanno affermato il principio secondo il quale l’estinzione del reato preclude la confisca delle cose che ne costituiscono il prezzo, prevista come obbligatoria dall’art. 240 c.p., comma 2, n. 1, sostenendo, tra l’altro, che la disposizione dell’art. 236 c.p. che rende inapplicabili alla confisca le disposizioni di cui all’art. 210 c.p., secondo il quale "l’estinzione del reato impedisce l’applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l’esecuzione", si limita ad enunciare un principio di carattere generale che lascia il legislatore libero di stabilire in quali casi tale effetto preclusivo si realizzi anche con riferimento alla confisca.
Si è tuttavia messo in evidenza, attraverso un attento esame della stessa ratio decidendi di tale pronuncia, avuto riguardo anche agli apporti successivi della giurisprudenza di legittimità sul tema controverso, come la "condanna" cui si riferisce l’art. 240 c.p., "funge da presupposto quale termine evocativo proprio di quell’accertamento che ontologicamente giustifica, sul piano normativo, la sottrazione definitiva del bene, in quanto proveniente dal reato" (Sez. 2^, 5 ottobre 2011, n. 39756, Ciancimino; nello stesso senso, Sez. 5^, 23 ottobre 2012, n. 48680, Abdelkhalki; Sez. 1^, 4 dicembre 2008, n. 24S3, Squillante). Da ciò si è desunto che "ciò che viene posto a fulcro della disciplina codicistica, non è il rinvio ad un concetto di condanna evocativo della categoria del giudicato formale, ma – più concretamente – il richiamo ad un termine che intende esprimere un valore di equivalenza rispetto all’accertamento definitivo del reato, della responsabilità e del nesso di pertinenzialità che i beni oggetto di confisca devono presentare rispetto al reato stesso: a prescindere, evidentemente, dalla formula con la quale il giudizio viene ad essere formalmente definito".
In altri termini, può esservi un ambito in cui residui la possibilità di disporre la confisca in relazione ad un reato prescritto, purchè vi sia l’effettività di un accertamento dei profili di responsabilità; mentre deve ritenersi preclusa la misura di sicurezza nei casi in cui la estinzione del reato per prescrizione maturi prima del promovimento dell’azione penale, ovvero quando l’estinzione sia dichiarata nell’udienza preliminare o con sentenza emessa ai sensi dell’art. 129 c.p.p., ipotesi in cui difetta ogni tipo di accertamento in ordine alla responsabilità dell’imputato.
Nel caso in esame, la causa estintiva è intervenuta, almeno per alcuni reati, dopo la pronuncia di condanna di primo grado, in un contesto in cui le statuizioni adottate dai giudici del merito hanno potuto accertare sia i fatti-reato, che le responsabilità degli imputati e la stessa illecita provenienza dei beni sottoposti a confisca: in questo modo deve ritenersi soddisfatto il fine di garanzia di accertamento pieno, che il termine "condanna", richiamato dal citato art. 240 c.p., è volto ad assicurare nel quadro della confisca, quale necessario presupposto del provvedimento ablatorio.
8. Nel ricorso proposto nell’interesse di F. con il primo motivo si deduce il difetto assoluto di motivazione, in quanto la sentenza d’appello riporta integralmente – in copia – la motivazione della decisione di primo grado, seguita da una sintetica riproduzione dei motivi di gravame e, infine, dalla motivazione vera e propria che altro non fa se non richiamare le argomentazioni del Tribunale, senza alcun esame e valutazione delle articolate considerazioni contenute nell’atto di appello.
Si osserva che, sebbene la sentenza d’appello abbia utilizzato una tecnica di motivazione alquanto insolita, avendo riportato integralmente il contenuto della decisione di primo grado, senza sintetizzarne il contenuto, non per questo deve ritenersi che sia carente di motivazione. Infatti, la Corte d’appello di Roma non si è limitata ad un recepimento acritico delle conclusioni della prima sentenza ma, dopo averla integralmente riprodotta ha preso in esame i motivi di appello, li ha confrontati con le conclusioni del Tribunale e, infine, li ha valutati criticamente, pervenendo alla decisione.
Peraltro, con riferimento al reato di abuso d’ufficio di cui al capo L), dichiarato estinto per prescrizione, non può che confermarsi la giurisprudenza di questa Corte, già richiamata esaminando le posizioni degli altri ricorrenti, secondo cui dinanzi ad una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità i vizi di motivazione della sentenza impugnata, "in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva" (Sez. un., 28 maggio 2009, n. 35490, Tettamanti).
Sempre con riferimento al capo L) il ricorrente ha denunciato il vizio di motivazione in ordine ad una ipotesi di nullità della sentenza di primo grado, che avrebbe condannato l’imputato alla pena detentiva sebbene sul punto il pubblico ministero non avesse concluso: anche in questo caso deve ribadirsi che in presenza di una causa estintiva non rilevano le nullità (Sez. un., 28 novembre 2001, n. 1021, Cremonese).
9. Passando all’esame dei motivi attinenti, specificamente, al reato di concussione (capo I), si osserva, preliminarmente, che l’eccezione di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per violazione dell’art. 270 c.p.p. (motivo n. 4) è del tutto infondata perchè generica, in quanto la sentenza non basa il giudizio di colpevolezza sulle intercettazioni, tanto è vero che il ricorrente non ha neppure specificato la rilevanza che le captazioni avrebbero avuto sull’affermazione della sua responsabilità, omissione giustificata dal fatto che la colpevolezza del F. è basata in sentenza sulle dichiarazioni di V., nonchè sugli accertamenti bancari che quelle dichiarazioni hanno riscontrato, non certo sulle intercettazioni.
9.1. Pregiudiziale rispetto agli altri è il nuovo motivo proposto il 10 gennaio 2013, con il quale il ricorrente ritiene che il reato di cui al capo I) debba essere qualificato come induzione indebita, delitto previsto dall’art. 319 quater c.p., introdotto dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, art. 1, comma 75, lett. i), e punito meno gravemente rispetto all’originaria concussione di cui all’art. 317 c.p.; peraltro, tale riqualificazione comporterebbe la dichiarazione di estinzione per intervenuta prescrizione.
9.2. Come è noto la citata L. n. 190 del 2012, ha operato uno sdoppiamento dell’originario art. 317 c.p., prevedendo due distinti reati: la concussione c.d. per costrizione (art. 317 c.p.) e l’induzione indebita (art. 319 quater c.p.).
Nella concussione precedente la riforma, le condotte prese in considerazione dalla norma incriminatrice, attraverso cui il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio), abusando della sua qualità o dei suoi poteri, riusciva a farsi dare o promettere indebitamente denaro o altra utilità potevano essere, indifferentemente, condotte di "costrizione" o di "induzione"; con la novella del 2012 la costrizione è divenuta la condotta che caratterizza il reato di concussione, punito più gravemente (da sei a dodici anni di reclusione), mentre l’induzione costituisce il comportamento oggetto del distinto reato previsto dal nuovo art. 319 quater c.p., punito con la pena della reclusione da tre a otto anni.
Ne deriva che oggi, ai fini della qualificazione giuridica, diventa rilevante accertare se la condotta posta in essere dal pubblico ufficiale, abusando della sua qualità (o dei suoi poteri), sia consistita in una costrizione ovvero in una induzione.
Un tale problema di qualificazione giuridica interessa anche la fattispecie in esame, dal momento che il riconoscimento di una condotta induttiva posta in essere dal F. avrebbe come conseguenza l’applicazione, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 4, dell’ipotesi disciplinata dal nuovo art. 319 quater c.p., norma più favorevole rispedito all’originario reato di concussione di cui all’art. 317 c.p., che prevedeva una pena da quattro a dodici anni di reclusione.
Ciò presuppone, ovviamente, che tra la vecchia disposizione e le nuove vi sia continuità normativa. Sulla questione sono intervenute numerose decisioni di questa stessa Sezione, che hanno escluso che le nuove norme introdotte dalla novella del 2012 abbiano abrogato la precedente fattispecie di concussione, affermando l’esistenza di un rapporto di continuità fra la disposizione da ultimo menzionata e l’attuale reato disciplinato nell’art. 319 quater c.p. (Sez. 6^, 3 dicembre 2012, n. 3251, Roscia; Sez. 6^, 4 dicembre 2012, n. 8695, Nardi; Sez. 6^, 11 febbraio 2013, n. 12388, Sarno; Sez. 6^, 11 febbraio 2013, n. 11792, Castelluzzo; Sez. 6^, 11 gennaio 2013, n. 17285, Vaccaro; Sez. 6^, 8 gebbraio 2013, n. 23954, Breccia; Sez. 6^, 25 gennaio 2013, n. 6578, Piacentini; Sez. 6^, 11 febbraio 2013, n. 11794, Melfi). Secondo questo orientamento, che il Collegio condivide, anche la punibilità del soggetto indotto prevista dall’art. 319 quater c.p., e che rappresenta una indubbia novità rispetto alla "vecchia" ipotesi di concussione, non è elemento che possa portare a negare la continuità normativa tra le disposizioni, in quanto la condotta del soggetto attivo, che viene punita come attività di "induzione" era già punita dall’originario art. 317 c.p..
In altri termini, deve ritenersi che l’operazione di svincolo della condotta induttiva dalla "vecchia" concussione alla nuova fattispecie incriminatrice di cui all’art. 319-quater c.p. non ha realizzato una abolitio criminis, ma una successione modificativa di leggi.
9.3. Nel caso di specie, al F. è stata contestata la concussione – con riferimento all’originario art. 317 c.p. – realizzata attraverso una condotta che è stata qualificata espressamente come di "induzione": infatti, secondo l’imputazione il F. "in qualità di ispettore del lavoro (…), nel corso di un’ispezione condotta nei confronti della S. s.p.a., dietro sua esplicita richiesta e prospettando altrimenti la possibilità di un ampliamento della predetta ispezione e quantificando in 400-500 milioni l’importo complessivo di eventuali maggiori sanzioni conseguenti a tale ampliamento, induceva i responsabili della suddetta società a promettere indebitamente e successivamente a consegnargli tramite l’avvocato V.M. la somma in contanti di 15 milioni di lire".
D’altra parte, le sentenze di merito hanno ricostruito le modalità della vicenda concussiva facendo riferimento alla condotta induttiva posta in essere dall’imputato, il quale dopo avere riscontrato alcune irregolarità nella gestione della società oggetto dell’ispezione (violazione della normativa sull’interposizione fittizia e irregolare tenuta della contabilità) prospettava un ampliamento della verifica ispettiva con il rischio di dover pagare una grossa sanzione pecuniaria, così "inducendo" i vertici della società a corrispondergli una somma di denaro.
In un caso analogo, questa stessa Sezione ha ritenuto che l’espresso inquadramento, ad opera del giudice di merito, della condotta costitutiva del reato di concussione, previsto dall’art. 317 c.p., prima delle modifiche apportate dalla L. n. 190 del 2012, sotto il profilo della induzione, a fronte di una non illogica motivazione, non è questione attinente alla qualificazione giuridica del fatto, ma è questione di merito sottratta alla cognizione della Corte di cassazione, fuori dal caso di carenza o di manifesta illogicità della motivazione costituente oggetto di specifica deduzione (in questi termini, Sez. 6^, 8 febbraio 2013, n. 23954, Breccia).
In ogni caso, la qualificazione della condotta come induzione appare giustificata, anche tenendo conto della giurisprudenza formatasi sull’originario art. 317 c.p., che ha in più occasioni sottolineato come la condotta induttiva possa consistere in comportamenti molteplici, quali l’esortazione, la sollecitazione, la persuasione, gli impliciti messaggi comportamentali, i silenzi, comunque in grado di esercitare una pressione psicologica sulla vittima, convincendola della necessità di dare o promettere denaro o altra utilità, per evitare conseguenze dannose (tra le tante, Sez. 6^, 1 ottobre 2003, n. 49538, P.G. in proc. Bertolotti).
Nel caso in esame si è trattato di una condotta consistita nel prospettare un’applicazione della legge "dannosa" onde si aderisse alle condizioni poste dal F. e si evitasse la prospettata sanzione pecuniaria; in altri termini, un comportamento che si è caratterizzato per un uso strumentale e abusivo dei poteri attraverso cui è stata esercitata una pressione psicologica sui soggetti passivi che si sono convinti della opportunità di dare il denaro per evitare le paventate conseguenze dannose, seppur non illegittime.
Ne deriva che al riconoscimento del carattere induttivo della condotta consegue l’applicazione della nuova ipotesi di reato prevista dall’art. 319 quater c.p., più favorevole rispetto all’originaria fattispecie contestata.
Il reato, così diversamente qualificato, risulta commesso nell’agosto del 2001 per cui, considerando il termine massimo di prescrizione, pari a dieci anni ex art. 157 c.p. e segg., comprensivo dell’aumento di un quarto determinato dalla intervenute interruzioni, esso risulta estinto per prescrizione, successivamente alla pronuncia della sentenza di appello.
9.4. La dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione comporta, in presenza della condanna generica al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile (S. s.p.a.) la necessità che questa Corte decida il ricorso proposto dall’imputato ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, ai sensi dell’art. 578 c.p.p..
Tuttavia, si pone preliminarmente un ulteriore problema di diritto intertemporale, in quanto si tratta di stabilire se, a seguito della riqualificazione del delitto di concussione nel nuovo reato di induzione indebita, previsto dall’art. 319 quater c.p., la società S., regolarmente costituitasi come parte civile nel processo per l’originario reato, conservi il suo "status" e mantenga il diritto alle restituzioni e al risarcimento del danno.
Come si è già detto una delle maggiori novità del reato previsto dall’art. 319 quater c.p., è costituita dal fatto che ad essere punito non è solo il pubblico agente autore dell’induzione, ma anche il privato che subisce l’attività induttiva, seppure con una sanzione più mite. Si è trattato di una scelta che è stata giustificata con la necessità di recepire una serie di inviti e di raccomandazioni rivolti al nostro Paese da organismi internazionali, per i quali l’originaria fattispecie di concussione costituiva una "via di fuga" per il privato che si rendeva responsabile di fatti corruttivi.
In ogni caso, quale che sia la rado della nuova norma introdotta, nella presente fattispecie bisogna stabilire se la previsione della "punibilità bilaterale" possa avere conseguenze in ordine alla condanna al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile pronunciata dalla sentenza di merito con riferimento all’originaria ipotesi di concussione per induzione, in cui il soggetto "concusso" non era punibile. In altri termini, occorre verificare se la qualificazione del fatto contestato all’imputato nella nuova ipotesi di cui all’art. 319 quater c.p., produce ripercussioni anche sul fronte del risarcimento dei danni civili a favore del soggetto indotto, che nella nuova fattispecie "concorre" nel reato, dal momento che l’affermazione della responsabilità risarcitoria dell’imputato risulta pronunciata nei confronti del privato con riferimento ad un illecito che questi avrebbe contribuito a realizzare.
Una serie di ragioni conducono a ritenere che la parte civile conservi il diritto al risarcimento dei danni subiti e che, quindi, possa essere mantenuta la statuizione sugli interessi civili in suo favore, anche solo considerando che la condotta del soggetto attivo dell’induzione, da cui può derivare un danno al soggetto indotto, era penalmente rilevante prima della riforma del 2012 e continua ad essere punita anche oggi, seppure con una pena meno severa.
Nella specie deve essere riaffermato il principio secondo cui quando un fatto costituisce illecito civile nel momento in cui è stato commesso, su di esso non influiscono le successive vicende riguardanti la punibilità del reato ovvero la rilevanza penale di quel fatto.
Questo principio è stato affermato con riferimento a casi in cui era intervenuta una abolitio criminis, sostenendo che l’abrogazione della norma penale in presenza di una condanna irrevocabile comporta la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione, ma limitatamente ai capi penali non anche a quelli civili, la cui esecuzione ha comunque luogo secondo le norme del codice di procedura civile: sicchè se vi è stata costituzione di parte civile, con conseguente condanna al risarcimento dei danni a carico dell’imputato, questa statuizione resta ferma (cfr., Corte cost., ord. n. 57 del 2001 e n. 273 del 2002, in cui si sottolinea come la formula assolutoria adottata a seguito della sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice "non è fra quelle alle quali l’art. 652 c.p.p. attribuisce efficacia nel giudizio civile). Infatti, se l’art. 2 c.p. disciplina espressamente la sola cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna, ne deriva, attraverso un’argomentazione a contrario, che le obbligazioni civili derivanti dal reato abrogato non cessano, in quanto per il diritto del danneggiato al risarcimento dei danni trovano applicazione i principi generali sulla successione delle leggi stabiliti dall’art. 11 preleggi, non quelli contenuti nel citato art. 2 c.p. (v., Sez. 6^, 21 gennaio 1992, n. 2520, Dalla Bona; Sez. 5^, 20 dicembre 2005, n. 4266, Colacito; Sez. 5^, 24 maggio 2005, n. 28701, Romiti, che ha affermato la permanenza del diritto al risarcimento dei danni nel caso della avvenuta depenalizzazione del reato di falso in bilancio ex art. 2621 c.c.).
Il principio della "indifferenza" dei capi civili della sentenza rispetto alla sorte della regiudicanda penale può trovare applicazione anche nel caso in esame, con le necessarie distinzioni.
In particolare, la qualificazione del fatto originariamente contestato nel nuovo reato di cui all’art. 319 quater c.p., avviene sulla base del principio fissato dall’art. 2 c.p., comma 4, in quanto si tratta di norma penale più favorevole all’imputato; ma lo stesso principio non può trovare applicazione anche per la parte civile e ritenere che la riqualificazione del fatto nel nuovo reato di induzione, che assoggetta a sanzione penale anche colui che è stato indotto, condizioni il diritto di quest’ultimo al risarcimento per i danni derivati dall’originario reato di concussione.
Infatti, occorre considerare che la nuova fattispecie di induzione può trovare applicazione, per i fatti pregressi, solo per l’imputato, perchè norma più favorevole, non per il "concusso" per il quale la disposizione prevista dall’art. 319 quater c.p., comma 2, non è certo applicabile retroattivamente ex art. 2 c.p., comma 1.
D’altra parte, richiamando la citata giurisprudenza formatasi in materia di abolitio criminis, deve riconoscersi che la legge sopraggiunta non determina alcun effetto sul capo della sentenza che ha accertato il diritto al risarcimento del danno, trovando applicazione i principi generali di cui all’art. 11 preleggi, che pongono il divieto di effetti retroattivi, prevedendo che la legge, anche quella penale, per quanto riguarda gli effetti civili dispone solo per l’avvenire.
Una volta riconosciuta la natura prettamente civilistica del diritto al risarcimento del danno, deve conseguentemente escludersi l’applicabilità ad esso del principio penalistico della successione delle leggi di cui all’art. 2 c.p., trovando applicazione, come si è detto, l’art. 11 preleggi.
In altri termini, in presenza di un fatto ingiusto che ha cagionato un danno, il diritto del danneggiato al risarcimento permane, a nulla rilevando (e successive modifiche legislative. D’altra parte, se questi principi trovano applicazione nei caso in cui la modifica legislativa "trasforma" in condotte lecite fatti che erano penalmente rilevanti, a maggior ragione possono trovare una giustificazione nella fattispecie in esame, in cui il reato permane, ma coinvolge anche uno dei soggetti che prima della modifica non era punibile e che rivestiva la posizione di persona offesa.
9.5. Sotto un altro profilo sarebbe ingiustificato operare una vantazione complessiva dell’art. 319 quater c.p., come legge più favorevole per l’imputato, in ragione del fatto che in essa il concusso non riveste più il ruolo di persona offesa e, per l’effetto, escludere il diritto al risarcimento del danno provocato all’epoca dal reato.
Infatti, il richiamo alle norme più favorevoli – rispetto all’imputato -, contenuto nell’art. 2 c.p., comma 4, si intende riferito alle disposizioni penali, con esclusione dei possibili effetti civili da queste indirettamente derivanti. Come è noto la giurisprudenza nell’individuare la legge più favorevole ritiene che si debba procedere ad una valutazione in concreto, anche con riferimento alle conseguenze giuridiche meno gravose, ma in ogni caso tale valutazione ha ad oggetto gli elementi costitutivi del reato, le circostanze, il tipo e la durata della pena, l’applicabilità delle pene accessorie o delle misure di sicurezza, le cause di non punibilità ovvero di estinzione e, anche se all’espressione "legge penale", contenuta nell’art. 2 c.p., comma 4, si associa una nozione allargata – che cioè ricomprenda non solo le leggi extrapenali espressamente richiamate dalla norma penale e integranti il precetto, ma anche quelle leggi che ne costituiscono l’indispensabile presupposto o che concorrono a determinarne, anche parzialmente e implicitamente, il sostanziale contenuto – non si è mai sostenuto che vi possano rientrare anche le conseguenza civili derivanti dal reato.
In altri termini, nella nozione di legge più favorevole si è sempre fatto riferimento esclusivamente agli elementi ed effetti penali, seppure valutati non in astratto ma in concreto.
9.6. In conclusione, rispetto al caso in esame deve affermarsi il principio secondo cui "se l’illecito penale ha prodotto conseguenze di rilevanza civilistica, da cui sono derivati obblighi di restituzione o di risarcimento del danno, in base alla normativa vigente all’epoca del commesso reato, non viene meno la natura di illecito civile".
9.7. Passando all’esame dei motivi di ricorso ai soli effetti civili, si rileva che sono tutti infondati, sicchè devono confermarsi integralmente le statuizioni civili sul risarcimento.
Fermo restando quanto detto in precedenza con riferimento ai motivi già esaminati, si deve sottolineare che le ulteriori doglianze riguardano tutte, prevalentemente, vizi di motivazione con cui il ricorrente formula una lettura alternativa delle risultanze processuali così come interpretate dai giudici di merito, sulla base di una motivazione che appare del tutto immune da vizi logici. In alcuni casi, come nel motivo in cui si sostiene che sia stata omessa la valutazione della dichiarazione resa dal teste Z., si cerca di inserire considerazioni di fatto che non possono avere ingresso nel giudizio di legittimità; con un altro motivo si censura la sentenza per avere ritenuto attendibile la testimonianza di V., nonostante la sua posizione di parte interessata, ma sul punto la sentenza impugnata ha ribadito la piena credibilità del teste d’accusa; con un altro ancora si denuncia un travisamento della prova con riferimento alle testimonianze di P., A. e Ma. nonchè di alcuni documenti da cui sarebbe emerso che non vi era alcuna soggezione da parte dei vertici della società rispetto al F., travisamento che non si ravvisa in quanto sul punto vi è ampia motivazione nella sentenza di primo grado, richiamata da quella di appello.
Inammissibile è infine il motivo con cui si lamenta la mancanza di motivazione sul rigetto della richiesta di giudizio abbreviato, avanzata nel corso dell’udienza preliminare, da parte dei giudici di primo e secondo grado, in quanto il ricorrente non ha adempiuto all’onere di allegazione dimostrando di avere riproposto prima dell’apertura del dibattimento la richiesta di giudizio abbreviato, presupposto dell’attivazione, all’esito del dibattimento di primo grado e a fortiori di quello d’appello, del meccanismo del sindacato e del riconoscimento del diritto alla riduzione della pena: in difetto della sussistenza di tale presupposto appare del tutto irrilevante il tema della motivazione in ordine al diniego sulla domanda del giudizio speciale.
10. In conclusione, devono essere rigettati i ricorsi di C., Ce. e C. che vanno condannati al pagamento delle spese processuali; C. e Ce. devono essere condannati anche a rifondere le spese sostenute dalla parte civile I.N.P.S., liquidate in complessivi Euro tremila, oltre I.V.A. e C.P.A..
Nei confronti di F., a seguito della qualificazione del reato di cui al capo I) nella nuova fattispecie di induzione ai sensi dell’art. 319 quater c.p., deve disporsi l’annullamento della sentenza senza rinvio per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, con la conferma delle statuizioni civili e il rigetto del ricorso nel resto; lo stesso ricorrente non va condannato nè alle spese processuali, nè alla rifusione delle spese in favore della parte civile perchè non è soccombente.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Vittorio F. perchè, qualificato il reato di cui al capo I) ex art. 319 quater c.p., lo stesso è estinto per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili.
Rigetta nel resto il ricorso del F..
Rigetta gli altri ricorsi e condanna i relativi ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè C.D. e C. I. a rifondere le spese sostenute dalla parte civile I.N.P.S. che liquida in complessivi Euro tremila, oltre I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2013

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