Cass. civ. Sez. V, Sent., 25-07-2012, n. 13116 Tributi locali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Gli atti del giudizio di legittimità.

Il 12.7.2010 è stato notificato alla Regione Toscana un ricorso del "Cavet – Consorzio alta velocità Emilia e Toscana" per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata il 13.1.2010), che ha respinto l’appello dallo stesso Consorzio proposto contro la sentenza n. 49/20/2007 della CTP di Firenze che aveva a sua volta integralmente respinto il ricorso proposto dalla parte contribuente avverso provvedimento di diniego della Regione Toscana in ordine all’istanza di restituzione del tributo speciale per il deposito in discarica di rifiuti solidi versato per il periodo quarto trimestre 2005.

La Regione Toscana si è difesa con controricorso.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 28.2.2012, in cui il PG ha concluso per il rigetto del ricorso.

2. I fatti di causa.

Con il menzionato provvedimento la Regione Toscana ha denegato il rimborso del tributo speciale ex L. n. 549 del 1995 corrisposto dal CAVET per il deposito in discarica delle terre e delle rocce risultanti dai lavori di escavazione effettuati nel corso della realizzazione della tratta "(OMISSIS)" della linea ferroviaria "alta velocità", e ciò sul presupposto che si dovessero considerare "discariche" i siti in cui il predetto materiale è stato ammassato; che si dovessero considerare "rifiuti" i materiali provenienti dalle escavazioni delle gallerie, in ragione della disciplina risultante dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, comma 1, lett. d) e art. 8, comma 1, lett. f) bis ed infine che si dovesse desumere dallo stoccaggio definitivo effettuato presso le anzidette discariche che il gestore di detti materiali aveva inteso disfarsene, facendoli così automaticamente qualificare come rifiuti.

La CTP di Firenze, adita dal Cavet per l’impugnazione del provvedimento di diniego, aveva rigettato il ricorso per difetto della prova (incombente sul consorzio) dell’esistenza di un progetto di rimodellamento del territorio per il quale sarebbero stati riutilizzati i materiali provenienti dalle attività di scavo, apparendo invece che i siti di sua destinazione fossero stati autorizzati dalle competenti autorità quali discariche, destinati appunto a costituire luogo di deposito dei materiali medesimi.

L’appello interposto dal Consorzio è stato respinto dalla CTR Toscana.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR oggetto del ricorso per cassazione, è motivata nel senso che – disattesa l’eccezione di giudicato esterno fatta valere dal consorzio – era risultato dalla documentazione in atti che il sito (deposito (OMISSIS)) nel quale il materiale risultava stoccato era stato autorizzato dalle competenti autorità come discarica, con le conseguenti prescrizioni impartite per il ripristino dei luoghi e la chiusura di detta discarica. D’altronde poi, la natura di interpretazione autentica della L. n. 306 del 2003, art. 23 ne implicava l’effetto retroattivo, sicchè delle rocce e le terre risultanti dallo scavo si sarebbe dovuto dimostrare il riutilizzo. Insomma, in ragione di detta disciplina (che prevede che le terre e le rocce da scavo non costituiscano rifiuto solo se esse siano riutilizzate secondo progetto sottoposto a verifica di impatto ambientale o secondo modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa, sia pure a specifiche condizioni) nella specie di causa non poteva dirsi che ci fosse stata riutilizzazione dei materiali nè progetto del genere di quello appena detto, ma semplici interventi successivi al riempimento della discarica volti al mero recupero dell’area in cui la discarica era stata realizzata. Il rimodellamento, in sostanza, era consistito in una "sapiente collocazione delle terre e delle rocce da scavo" già finite in discarica per il loro smaltimento.

4. Il ricorso per cassazione.

Il ricorso per cassazione è sostenuto con cinque motivi d’impugnazione e si conclude – previa indicazione del valore della lite in Euro 107.219,46 – con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni consequenziale pronuncia anche in ordine alle spese di lite.

Motivi della decisione

5. Il primo ed il secondo motivo d’impugnazione.

Con il primo motivo di ricorso (rubricato come: "Illegittimità della sentenza impugnata…….per insufficienza della motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5"), la parte ricorrente – dopo avere evidenziato che nei giudizi di merito era stato preliminarmente osservato che era passata in giudicato la sentenza n. 95-17-2003 della CTP di Firenze concernente la medesima questione qui controversa (ma con riferimento al tributo per gli anni dal 1997 all’ottobre 2000) ed era stata perciò eccepita la preclusione derivante dall’anzidetto giudicato esterno – si duole del fatto che il giudice del merito abbia disatteso siffatta eccezione sulla superficiale premessa che non era risultato sussistere "effettiva identità di fattispecie" nelle due distinte controversie.

Il giudicante avrebbe invece dovuto – essendo la vicenda sottoposta alla medesima disciplina applicata anche nella menzionata sentenza n. 95; essendo irrilevante che il debito d’imposta si riferisca ad annualità diverse; essendo risultato dalle prodotte "caratterizzazioni" che i materiali oggetto di escavazione nelle due fattispecie avevano omogenea composizione – "esaminare separatamente ogni singola posizione e, soltanto al termine di date esame, affermare eventualmente che nessuna di esse presentava identità di fattispecie con quella decisa nella sentenza definitiva n. 95.

Il motivo appare inammissibilmente formulato.

Ed invero è giurisprudenza costante di questa Corte che il principio della rilevabilità in sede di legittimità del giudicato esterno deve essere coordinato con l’onere di completezza e autosufficienza del ricorso, per cui la parte ricorrente che deduca il suddetto giudicato deve indicare non solo il momento e le circostanze processuali in cui l’atto che contiene il giudicato sia stato prodotto in giudizio ma ne deve anche riprodurre il testo che si assume sia stato erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo (atteso che il solo dispositivo è insufficiente alla comprensione del contenuto del comando giudiziale), senza di che l’interpretazione di un giudicato esterno non può essere effettuata direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena (in termini si veda Cass. Sez. L, Sentenza n. 26627 del 13/12/2006).

La parte qui ricorrente si è invece limitata a fare vago riferimento al contenuto dell’invocato giudicato esterno, quasi che sia sufficiente il mero dato dell’esito a sè favorevole del precedente giudiziario passato in cosa giudicata (e con l’ulteriore menda di non avere considerato che altre pronunce definitive risultano avere avuto esito sfavorevole alla parte ricorrente, come apparirà dalla pronuncia di questa Corte di cui si dirà in seguito) e si possa prescindere dalle ragioni per le quali detto provvedimento è stato adottato.

E’ invece insegnamento costante di questa Corte che l’efficacia del giudicato esterno è subordinata alla sussistenza (tra l’altro) di un indefettibile requisito, e cioè che l’accertamento precedentemente compiuto concerna la soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, in termini tali che detto accertamento abbia formato la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza. Sicchè è solo questo che preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto nell’ambito della controversia venuta successivamente in fase di decisione.

L’avere la parte qui ricorrente eluso l’aspetto centrale della invocata efficacia di giudicato esterno preclude l’esame stesso del motivo di ricorso, che non può essere vagliato nella sua fondatezza ma semplicemente dichiarato inammissibile.

Anche il secondo motivo di impugnazione (che è fondato sulla violazione dell’art. 2909 c.c. in relazione al capo della sentenza che ha respinto l’eccezione di esistenza di un giudicato esterno) è retto dalla stessa sostanziale doglianza ed incorre nello stesso inemendabile difetto dianzi messo in evidenza, sicchè resta coinvolto nella medesima declaratoria di inammissibilità di cui già si è detto dianzi.

Se è ben vero che la parte ricorrente ha trascritto in detto motivo di ricorso il testo integrale della pronuncia di primo grado donde si desumerebbe l’impedimento costituito dal giudicato esterno ivi maturatosi, non è men vero che a mezzo di detto esercizio di trascrizione la parte ricorrente non ha egualmente assolto all’onere che le incombe, e cioè di porre in chiara evidenza – con modalità originali e illuminanti – in che cosa consista la questio facti et iuris, omologa in entrambe le controversie, che consente di dire che l’accertamento precedente ha formato la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza.

In difetto dell’assolvimento di siffatto onere (omissione che si trasforma nell’irrituale attribuzione a questa Corte di esaminare esplorativamente la sentenza invocata, onde desumerne se esista il presupposto dirimente di cui si è detto) non può che concludersi che anche il diverso taglio della questione prospettata nel quarto motivo non consente a questa Corte di concludere in maniera diversa dalla declaratoria di inammissibilità.

6. Il terzo, quarto e quinto motivo di impugnazione.

Con il terzo motivo di impugnazione (rubricato come: "illegittirnità della sentenza impugnata ….per violazione e falsa applicazione del combinato disposto del D.Lgs. 5 maggio 1997, n. 22, artt. 7 e 8 come interpretati autenticamente dalla L. 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1, commi 17, 18 e 19 nella versione modificata dalla L. n. 306 del 2005, art. 23 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3") la parte ricorrente si duole del fatto che i giudici di appello abbiano asserito che non esiste in atti alcun idoneo progetto esecutivo, sottoposto a VIA con esito positivo (poichè la documentazione prodotta in giudizio era risultata riguardare "non la particolare gestione dei materiali da scavo ma il progetto complessivo dei lavori di costruzione della linea ferroviaria"), omettendo di considerare che le norme dianzi menzionate si limitano a richiedere che vi sia un progetto sottoposto a verifica di impatto ambientale, senza alcuna ulteriore specificazione.

Secondo la parte ricorrente, erroneamente sarebbe stata affermata la necessità di uno specifico progetto per il riutilizzo dei materiali (terre e rocce), pur essendo sufficiente che vi sia un progetto – sottoposto a VIA – che ne regolamenti l’utilizzo, sia pure come opere accessorie. In quest’ottica, il giudicante avrebbe dovuto ritenere sufficiente il progetto relativo all’opera per effetto della quale si producono i materiali di scavo, appunto perchè complessivamente sottoposto a VIA e con esito positivo.

Con il quarto motivo d’impugnazione (intestato come l’illegittimità della sentenza impugnata …per insufficienza di motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5") la parte ricorrente si duole del fatto che il giudice di appello aveva ritenuto non dimostrato il riutilizzo dei materiali qui in discorso, alla stregua di un progetto sottoposto a VIA, ma ciò con affermazione apodittica e senza avere compiutamente vagliato la documentazione prodotta in giudizio da essa parte ricorrente medesima, ed in particolare "la documentazione amministrativa dalla quale risultava l’approvazione del progetto da parte dell’allora Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali; l’estratto del progetto esecutivo (entrambi identificati con i numeri di allegazione e produzione in causa, ed il secondo dettagliatamente trascritto in ricorso in relazione ai passi salienti). Dall’esame dei documenti in questione (previo il giudizio in ordine all’esito positivo della VIA) il giudicante avrebbe senz’altro dedotto che l’ubicazione dei siti di deposito del materiale da scavo era stata appositamente scelta per consentire l’inserimento delle opere nel contesto paesaggistico del territorio circostante, e ciò avrebbe consentito di attribuire a dette opere la valenza di attività di rimodellamento territoriale (come parte integrante di un più vasto progetto di opera pubblica) e perciò ritenere dimostrata la qualifica di "riutilizzo" dei materiali prodotto dell’escavazione, ai fini dell’applicazione della disciplina qui in considerazione.

Con il quinto motivo di impugnazione (rubricato come "illegittimità della sentenza impugnata per violazione del combinato disposto del D.Lgs. 13 gennaio 2003, art. 3, comma 2; D.Lgs. 5 maggio 1977, n. 22, artt. 7 e 8 come interpretati autenticamente dalla L. 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1, commi 17, 18 e 19 nella versione modificata dalla L. n. 306 del 2005, art. 23 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3") la parte ricorrente si duole del fatto che – pur avendo essa ricorrente protestato davanti al giudice di appello che i materiali depositati non erano rifiuti e i siti di deposito non erano discariche poichè era la stessa normativa in tema di discariche ad escludere i deposito di terra non inquinata e comunque perchè il termine riutilizzo (a proposito dei detti materiali) aveva valenza neutra, ossia scevra di qualsivoglia valutazione positiva o negativa rispetto all’attività svolta – il giudicante avesse ritenuto inconciliabili le attività di stoccaggio del materiale da scavo "con gli interventi successivi al riempimento della discarica e volti …al recupero dell’area in cui erano state create le discariche", donde era poi derivato il "parziale rimodellamento paesaggistico", che comunque altro non era se non una sapiente collocazione del materiale smaltito, non essendo esistite nella zona in questione "criticità o situazioni di degrado da sanare". In tal modo il giudicante aveva violato le norme anzicitate, le quali avevano recepito il concetto di "rimodellamento" con terminologia neutra e perciò senza richiedere che detta attività pervenga necessariamente ad interventi migliorativi, ma al semplice utilizzo del materiale escavato.

I motivi di impugnazione ora riassunti, tra loro strettamente connessi ed involgenti questioni logiche omogenee e correlate, risultano complessivamente fondati – ad una disamina contestuale – e devono essere accolti.

Appare – tuttavia – utile premettere alla specifica soluzione della questione controversa una digressione di ordine esplicativo, necessaria ad inquadrare anche la presente controversia nel contesto di un quadro interpretativo di insieme che questa Corte ha tenuto presente, anche in occasione di altre decisioni – coeve alla presente – che sono state adottate nella medesima materia e tra le stesse parti.

Ed invero, la considerevole complessità del quadro normativo in ordine al concetto di "rifiuto", alla possibilità di (o le condizioni per) considerare tali le "terre e rocce da scavo", alla ripartizione dell’onere della prova in ordine alla composizione e all’utilizzo dei materiali depositati in discarica ai fini della soggezione a tassazione – venutosi a formare per stratificazioni successive e convulse – obbliga ad una premessa ricostruttiva dello sviluppo ordinamentale, ai quali fini questo collegio ritiene di avvalersi – per economia e praticità – di quello già autorevolmente tracciato con la sentenza n. 19145/2010 di questa stessa sezione.

La norma (L. n. 549 del 1995, art. 3, commi 24 e 41, applicata, per quel che concerne il giudizio in oggetto, con L.R. Toscana n. 60 del 1996) che istituisce la c.d. ecotassa per il deposito in discarica di rifiuti solidi, cioè il tributo preteso nel caso di specie dalla Regione Toscana, fa riferimento per la disciplina di detti "rifiuti" al D.P.R. n. 915 del 1982, art. 2, il cui comma 2, n. 3, classificava tra i rifiuti speciali "i materiali provenienti da demolizioni, costruzioni e scavi", disposizione abrogata, con l’intero provvedimento, prima, dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 56, comma 1, lett. b), (c.d. Decreto Ronchi), e, poi, anche dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 264, comma 1, lett. b), (c.d. Codice dell’ambiente).

Il Decreto Ronchi – con il quale veniva data attuazione alle direttive comunitarie nn. 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio – prevedeva:

– all’art. 6, comma 1, lett. a), definiva rifiuto "qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso di disfarsi o abbia l’obbligo di disfarsi. Di tale disposizione il legislatore ha, poi, dettato una interpretazione autentica con il D.L. n. 138 del 2002, art. 14, secondo la quale si deve intendere per:

a) "si disfi": qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del D.Lgs. n. 22;

b) "abbia deciso di disfarsi": la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del D.Lgs. n. 22, sostanze, materiali o beni;

c) "abbia l’obbligo di disfarsi": l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’allegato D del D.Lgs. n. 22";

– all’art. 7, comma 3, lettera b), classificava come rifiuti speciali "i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonchè i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo";

– all’art. 8, comma 2, lett. c), escludeva dalla categoria dei rifiuti, "i materiali non pericolosi che derivano dall’attività di scavo": il comma 2 era poi interamente abrogato dal D.Lgs. n. 389 del 1997, art. 1, comma 9, emanato per rispondere alla nota della Commissione europea del 29 settembre 1997, n. 6465, con la quale erano state formulate alcune osservazioni sul "Decreto Ronchi" ai sensi e per gli effetti dell’art. 169 del Trattato U.E. L’abrogazione del comma 2 dell’art. 8, non risolveva, tuttavia, quale dovesse essere la effettiva disciplina delle "terre e rocce da scavo", non essendo sufficientemente chiaro se tali materiali dovessero essere considerati rifiuti solo se pericolosi o anche se non pericolosi.

A questo scopo fu emanata la L. n. 93 del 2001 (recante "Disposizioni in campo ambientale"), con il cui art. 10, comma 1, veniva inserita nel D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 8, comma 1, lett. f bis), secondo la quale erano da escludersi dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti, "le terre e le rocce da scavo destinai all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti". Questa modifica era chiaramente intesa a "restringere", in qualche misura, l’area di esclusione delle "terre e rocce da scavo" dalla disciplina dei rifiuti (recependo così, in qualche modo, l’indirizzo europeo sul "divieto" di una interpretazione restrittiva della nozione di "rifiuto"), condizionando l’esclusione ad un "effettivo utilizzo" dei materiali e ad una composizione dei medesimi priva di una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalla legge.

L’incertezza del legislatore nazionale di fronte alle norme comunitarie era, tuttavia, evidente, in quanto:

– da un lato, la nuova norma era inserita in un contesto (art. 8, comma del "decreto Ronchi"), funzionale ad escludere dalla disciplina del decreto stesso determinati materiali in ragione del fatto che questi fossero regolati da norme speciali, norme quest’ultime inesistenti per quanto riguarda le "terre e rocce da scavo";

– dall’altro, non era fatta chiarezza sulla circostanza se l’utilizzo delle "terre e rocce da scavo" potesse avvenire, con le medesime conseguenze (sull’esclusione dalla nozione di "rifiuto"), in luogo diverso da quello di provenienza dei materiali e su come potesse essere accertata la contaminazione dei materiali.

Di qui l’esigenza di dettare una norma di interpretazione autentica, alla quale il legislatore provvede con la L. n. 443 del 2001, art. 1, commi 17, 18 e 19 (c.d. "Legge Lunardi" o "legge obiettivo"), i quali stabiliscono come debbano intendersi le disposizioni di cui al Decreto Ronchi, art. 7, comma 3, lett. b) e art. 8, comma 1, lett. f- bis):

– il comma 17 stabilisce: "Il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 7 comma 3, lett. b), ed art. 8, comma 1, lett. f bis, si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, semprechè la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti";

– il comma 18 stabilisce: "Il rispetto dei limiti di cui al comma 17 è verificato mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dall’allegato 1, tabella 1, colonna B, del D.M. Ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore";

– il comma 19 stabilisce: "Per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi incluso il riempimento delle cave, coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato".

Mediante la richiamata norma interpretativa il legislatore intende chiarire meglio le condizioni, ricorrendo le quali, le "terre e le rocce da scavo" non costituiscono un rifiuto (come, invece, di norma è): ciò accade quando tali materiali, pur contaminati, ma senza eccedere i limiti di accettabilità di concentrazione delle sostanze inquinanti (riferiti all’intera massa), siano destinate all’effettivo riutilizzo "per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati", in tale concetto ricompresa anche "la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi incluso il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito", ove quest’ultima sia a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente.

Due sembrano emergere come elementi essenziali della fattispecie:

a) il primo, concerne la concreta ed effettiva destinazione dei materiali.

– la discarica (nel qual caso essi vanno definiti e trattati come "rifiuti") o, – riutilizzo per le finalità descritte dalla legge (nel qual caso essi sono esclusi dalla disciplina dei rifiuti);

b) il secondo, è la qualità dei materiali stessi, ossia il grado della loro contaminazione da agenti inquinanti.

La disciplina non riesce, tuttavia, a trovare una sua "tranquillità", perchè la predetta disposizione viene modificata con la L. n. 306 del 2003, art. 23 (c.d. Legge comunitaria 2003), per effetto della quale la L. n. 443 del 2001, art. 1, commi 17, 18 e 19, vengono ad assumere i seguenti contenuti:

– comma 17: art. 7, comma 3, lett. b), ed del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 8, comma 1, lett. f bis si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo solo nel caso in cui, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, siano utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA, semprechè la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti.

– comma 18: Il rispetto dei limiti di cui al comma 17 può essere verificato in accordo alle previsioni progettuali anche mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dall’allegato 1, tabella 1, colonna B, del D.M. ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore.

– comma 19: Per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, purchè sia progettualmente previsto l’utilizzo di tali materiali, intendendosi per tale anche il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, previo, ove il relativo progetto non sia sottoposto a VIA, parere dell’ARPA a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato. Qualora i materiali di cui al comma 17 siano destinati a differenti cicli di produzione industriale, le autorità amministrative competenti ad esercitare le funzioni di vigilanza e controllo sui medesimi cicli, provvedono a verificare, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, anche mediante l’effettuazione di controlli periodici, l’effettiva destinazione all’uso autorizzato dei materiali; a tal fine l’utilizzatore è tenuto a documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione".

Le modifiche del 2003, pur essendo apportate da una norma di interpretazione autentica, presentano notevoli e consistenti "novità", in quanto agli elementi essenziali dell’effettivo utilizzo delle terre e rocce da scavo e ai limiti dei loro componenti inquinanti, aggiunge ulteriori significativi elementi: – assenza di trasformazioni preliminari per l’utilizzo dei materiali; – utilizzazione dei medesimi secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA;

– controllo sull’effettiva destinazione dei materiali, con obbligo per l’utilizzatore di documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione.

La portata di dette "novità" – soprattutto quella che condiziona l’utilizzo dei materiali a modalità stabilite nel progetto sottoposto a VIA o dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA – è tale, che la loro automatica applicazione retroattiva, perchè modifiche apportate da una norma di interpretazione autentica, potrebbe avere effetti non indifferenti per gli operatori del settore: sicchè il legislatore vara una "moratoria" con il D.L. n. 355 del 2003, art. 23 octies (introdotto dalla Legge di Conversione n. 47 del 2004), stabilendo che "la L. 31 ottobre 2003, n. 306, art. 23, si applica ai lavori in corso alla data del 30 novembre 2003 a decorrere dal 31 dicembre 2004".

Il contenuto della "nuova" norma "interpretativa", successivamente confluiva sostanzialmente inalterato, sia pur in quadro di regole più ampio, nel D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, che sarebbe stato a sua volta modificato, una prima volta, mediante integrale sostituzione, con il D.Lgs. n. 4 del 2008, art. 2, comma 23, a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia del 18 dicembre 2007 in causa C-194/05 su procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, e, poi, con il D.L. n. 185 del 2008, convertito con modificazioni dalla L. n. 13 del 2009.

Alla luce della descritta evoluzione del quadro normativo, va considerato che la disciplina applicabile nel caso di specie ora in esame (appunto perchè riferita a presupposto d’imposta che si è realizzato in epoca successiva alla scadenza della "moratoria" di cui dianzi si è detto) è quella emergente del "Decreto Ronchi, art. 8, comma 1, lett. f-bis)", così come interpretato autenticamente dalla "Legge Obiettivo", art. 1, commi 17, 18 e 19, e come successivamente modificato/interpretato dalla L. n. 306 del 2003, art. 23.

In specie, per effetto delle "modifiche" introdotte dalla norma dell’art. 23 ultimo menzionato, ciò che rileva in termini preliminari ai fini della soluzione della questione ora in rassegna è il requisito normativo (esimente) secondo cui "le terre e rocce da scavo ……….siano utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA", requisito che il giudicante ha ritenuto insussistente in difetto di una apposito progetto relativo alla "particolare gestione dei materiali da scavo", non potendosi a questo fine ritenere idoneo "il progetto complessivo dei lavori di costruzione della linea ferroviaria".

Ma, la disciplina di cui si discute – nel riferirsi al "progetto sottoposto a VIA" – non può che avere considerato qualsivoglia strumento nel quale la realizzazione delle opere è prevista e disciplinata, ovunque e comunque ciò sia avvenuto. Ed invero, la necessità di un apposito progetto relativo alla gestione dei materiali da scavo non emerge in alcun punto della normativa vigente al momento dei fatti di causa e dianzi analiticamente menzionata, nella quale è scolpito soltanto l’onere che le opere finalizzate al riutilizzo dei materiali da scavo siano state "previste nel progetto", senza ulteriore specificazione o connotazione, sicchè non vi è ragione di supporre che detta previsione non possa essere stata contenuta all’interno di un documento progettuale di più ampia portata e non specificamente destinato a regolamentare e programmare le opere di riutilizzo, così come appare essere avvenuto nella specie di causa, per come si desume dalla analitica trascrizione che la parte qui ricorrente ha fatto dei passi salienti del progetto esecutivo prodotto in giudizio. Si deve in definitiva concludere nel senso che l’originaria "valutazione di impatto ambientale" riferita all’intero progetto dell’opera che implica l’escavo (inclusivo anche di quelle di rimodellazione ambientale, collegate e connesse) costituisce la corretta e sufficiente premessa per giudicare della sussistenza della condizione esonerativa consistente nel "riutilizzo" dei materiali di scavo.

Per effetto di questa erronea esegesi della lettera della disciplina normativa, il giudice del merito – negando l’idoneità dell’elaborato progettuale prodotto in giudizio dalla parte ricorrente – si è pure precluso di tenere conto del materiale istruttorio dotato di decisiva valenza ai fini della considerazione del thema decidendum, con conseguente inadeguata considerazione e motivazione della sentenza in ordine ai fatti controversi di causa.

Ed invero, le opere di "(ri)utilizzo" che – a mente del richiamato art. 23 – esonerano le rocce e le terre da scavo dall’applicazione della disciplina sui rifiuti (nell’ottica tributaria di cui qui si discute) sono proprio ed esattamente quelle "progettualmente previste", sicchè una risposta alla questione qui controversa non può prescindere dallo specifico esame della concreta disciplina progettuale che ha presieduto alla realizzazione dell’opera, onde acclarare se dette opere vi corrispondono e ne costituiscano pedissequa attuazione.

Tutto ciò, ovviamente, in accordo con i limiti espressamente previsti nella specifica disposizione dell’art. 23 dianzi trascritta (che nella specie recupera alla lettera la previsione della L. n. 443 del 2001, art. 1, comma 19), nella quale la categorie delle opere rilevanti ai fini dell’esenzione (purchè progettualmente previste) sono solo quelle concernenti dei "reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche (con) destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ………., intendendosi per tale anche il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito".

E dunque, al fine di valutare la sussistenza delle predette cause di esenzione dal tributo, il giudicante del merito avrebbe dovuto ineludibilmente apprezzare (se necessario avvalendosi di una specifica collaborazione tecnica) la sussistenza delle condizioni di legge dianzi evidenziate, previo ed a mezzo dello specifico esame del documento progettuale che nella specie risulta non essere stato debitamente esaminato.

D’altronde, muovendo dalla premessa che – alla luce dei principi enunciati dalla sentenza n. 19145/2010 di questa Corte e trattandosi di prova relativa ad una causa di esenzione o di esclusione da un determinato tributo – compete senz’altro alla parte contribuente fornire la prova dell’effettivo riutilizzo dei materiali, in nessun altro modo alla parte contribuente sarebbe possibile dare la prova della sussistenza dei caratteri normativamente prescritti dell’effettivo "riutilizzo" se non a mezzo della produzione del progetto approvato, nel quale dette opere siano (come nella specie si assume) contemplate e disciplinate.

Nella pronuncia di appello peraltro- si da atto (in evidente contraddizione con l’assunto che il progetto prodotto in causa non ne avesse fatto previsione, ciò che lascerebbe da intendere sulla scorta di quale autorizzazione dette opere siano state poi realizzate) del fatto che il Consorzio contribuente aveva allegato e dimostrato di avere comunque effettuato "interventi successivi al riempimento della discarica volti…al recupero dell’area in cui erano state create le discariche", con conseguente "parziale rimodellamento paesaggistico". Detta constatazione è però ritenuta – da un canto – logicamente incompatibile con la pregressa attività di stoccaggio e – d’altro canto – irrilevante, alla luce del fatto che giustificazione causale del detto rimodellamento doveva rinvenirsi proprio nel riempimento della discarica.

In tal modo il giudicante finisce – per un verso – per aprioristicamente escludere che le "attività di stoccaggio del materiale da scavo"(adeguatamente disciplinate dalle prescrizioni amministrative a ciò specificamente finalizzate) e le conseguenti opere di rimodellamento che ad esse hanno fatto seguito possano contemporaneamente soddisfare (in termini oggettivi, ed indipendentemente dall’intenzione del progettista, che ovviamente non poteva tenere conto della disciplina sopravvenuta e delle conseguenze di genere tributario a cui ciò avrebbe dato luogo) anche alle condizioni previste nella disciplina risultante dal combinato disposto degli art. 23 ed art. 1, comma 19 dianzi richiamati, e possano dunque costituire ragione obiettiva per l’esenzione dal tributo di cui qui si discute. Apriorismo logico che appare tanto più radicale alla luce della previsione dell’art. 1, comma 19 citato che fa espresso riferimento a "reinterri, riempimenti"; al "riempimento delle cave coltivate" ed alla "ricollocazione in altro sito", ciò che consente di escludere che non sia possibile fare contemporaneo esercizio di attività di stoccaggio dei materiali e di rimodellamento paesaggistico, se la sapiente disciplina del concreto progetto ambientale connesso con la realizzazione dell’opera di escavo lo consente ed adeguatamente lo prescrive.

Per altro verso, il giudicante ha pure finito per attribuire al concetto di "rimodellamento" una connotazione valutativa che nella legge non è affatto implicata, sicchè non può avere alcun rilievo (agli effetti dell’esenzione di cui qui si discute) se il rimodellamento sia stato effettuato proprio al fine di "recuperare l’originaria fisionomia dei luoghi ed il loro equilibrio naturale" a seguito dell’effettuazione dell’opera o dello stoccaggio dei materiali di risulta. Ciò che in definitiva rileva nella disciplina di cui occorre fare applicazione è che i materiali risultati dalla escavazione siano stati essi stessi strumento della nuova connotazione paesaggistica progettualmente prevista, sicchè l’onere di provvedervi non ricada sull’amministrazione ma sia sostenuto direttamente da chi ha esercitato l’attività di escavo il quale – riutilizzando il medesimo materiale – soddisfa con ciò stesso alla finalità ambientale cui il progetto è informato. Da qui la correlazione con l’esenzione dal tributo che costituisce il nucleo della questione nella presente sede oggetto di controversia.

Si impone quindi da parte del giudice del merito un riesame del materiale probatorio versato agli atti di causa affinchè, alla luce della corretta interpretazione del quadro normativo dianzi tracciato, torni a valutare la fondatezza dell’appello proposto dal Consorzio.

Le spese di lite di questo grado saranno regolate dal medesimo giudice di rinvio.

P.Q.M.

la Corte – riconvocata in data 23.5.2012 – accoglie il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR Toscana che – in diversa composizione – esaminerà le censure di appello alla luce dei principi contenuti nella presente decisione, regolando anche le spese di lite relative al presente grado.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 maggio 2012.

Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2012
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