Cass. civ. Sez. V, Sent., 25-07-2012, n. 13115 Tassa rimozione rifiuti solidi Tributi locali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo
1. Gli atti del giudizio di legittimità.
Il 15.3.2010 è stato notificato alla Regione Toscana un ricorso del "Consorzio X" per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata il 24.8.2009), che ha respinto l’appello dallo stesso Consorzio proposto contro la sentenza n. 42/02/2007 della CTP di Firenze che aveva a sua volta integralmente respinto il ricorso proposto dalla parte contribuente avverso provvedimento di diniego della Regione Toscana in ordine all’istanza di restituzione del tributo speciale per il deposito in discarica (esattamente in quelle denominate (OMISSIS), entrambe poste nel comune di (OMISSIS)) di rifiuti solidi versati durante il periodo: terzo trimestre 2005.
La Regione Toscana si è difesa con controricorso.
La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 28.2.2012, in cui il PG ha concluso per il rigetto del ricorso.
2. I fatti di causa.
Con il menzionato provvedimento di diniego la Regione Toscana ha denegato il rimborso del tributo speciale ex L. n. 549 del 1995 corrisposto dal X per il deposito in discarica delle terre e delle rocce risultanti dai lavori di escavazione effettuati nel corso della realizzazione della tratta "(OMISSIS)" della linea ferroviaria "alta velocità", e ciò sul presupposto che si dovessero considerare "discariche" i siti in cui il predetto materiale è stato ammassato; che si dovessero considerare "rifiuti" i materiali provenienti dalle escavazioni delle gallerie, in ragione della disciplina risultante dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, comma 1, lett. d) e art. 8, comma 1, lett. f) bis ed infine che si dovesse desumere dallo stoccaggio definitivo effettuato presso le anzidette discariche che i gestore di detti materiali aveva inteso disfarsi, facendoli così automaticamente qualificare come rifiuti.
La CTP di Firenze, adita dal X per l’impugnazione del provvedimento di diniego, aveva rigettato il ricorso per difetto della prova (incombente sul consorzio) dell’esistenza di un progetto di rimodellamento del territorio per il quale sarebbero stati riutilizzati i materiali provenienti dalle attività di scavo, apparendo invece che i siti di sua destinazione fossero stati autorizzati dalle competenti autorità quali discariche, destinati appunto a costituire luogo di deposito dei materiali medesimi.
L’appello interposto dal Consorzio è stato respinto dalla CTR Toscana.
3. La motivazione della sentenza impugnata.
La sentenza della CTR oggetto del ricorso per cassazione, è motivata nel senso che – disattesa l’eccezione di giudicato esterno fatta valere dal consorzio – era risultato dalla documentazione in atti che entrambi i siti nei quali il materiale risultava stoccato ( (OMISSIS)) erano stati autorizzati dalle competenti autorità come discariche, con le conseguenti prescrizioni impartite per il ripristino dei luoghi e la chiusura di dette discariche. D’altronde poi, la natura di interpretazione autentica della L. n. 306 del 2003, art. 23 ne implicava l’effetto retroattivo, efficacia che non avrebbe potuto essere limitata da altra e sopravvenuta norma (il D.L. n. 355 del 2003, art. 23 octies nel quale si differiva l’applicazione della L. n. 306 del 2003, art. 23 all’epoca successiva al 31.12.2004), la quale altrimenti sarebbe risultata costituzionalmente illegittima per violazione degli art. 11 e 117 Cost..
Insomma, in ragione di detta disciplina (che prevedeva che le terre e le rocce da scavo non costituiscano rifiuto solo se esse siano riutilizzate secondo progetto sottoposto a verifica di impatto ambientale o secondo modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa, sia pure a specifiche condizioni) nella specie di causa non poteva dirsi che ci fosse stata riutilizzazione dei materiali nè progetto del genere di quello appena detto, nè si sarebbe potuto assegnare valore probatorio alle analisi effettuate dal X trattandosi di analisi su campioni, mai sottoposte a valutazione o vidimazione dall’ARPAT. 4. Il ricorso per cassazione.
Il ricorso per cassazione è sostenuto con quattro motivi d’impugnazione e si conclude – previa indicazione del valore della lite in Euro 78.152,17 – con la richiesta che sìa cassata la sentenza impugnata, con ogni consequenziale pronuncia anche in ordine alle spese di lite.
Motivi della decisione
5. Il primo motivo d’impugnazione.
Con il primo motivo di ricorso (rubricato come: "Illegittimità della sentenza impugnata…….per insufficienza della motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5"), la parte ricorrente – dopo avere evidenziato che nei giudizi di merito era stato preliminarmente osservato che era passata in giudicato la sentenza n. 95-17-2003 della CTP di Firenze concernente la medesima questione qui controversa (ma con riferimento al tributo per gli anni dal 1997 all’ottobre 2000) ed era stata perciò eccepita la preclusione derivante dall’anzidetto giudicato esterno – si duole del fatto che il giudice del merito abbia disatteso siffatta eccezione sulla superficiale premessa che non era risultato sussistere "effettiva identità di fattispecie" nelle due distinte controversie.
Il giudicante avrebbe invece dovuto essendo la vicenda sottoposta ala medesima disciplina applicata anche nella menzionata sentenza n. 95;
essendo irrilevante che il debito d’imposta si riferisca ad annualità diverse; essendo risultato dalle prodotte "caratterizzazioni" che i materiali oggetto di escavazione nelle due fattispecie avevano omogenea composizione – "esaminare separatamente ogni singola posizione e, soltanto al termine di detto esame, affermare eventualmente che nessuna di esse presentava identità di fattispecie con quella decisa nella sentenza definitiva n. 95".
Il motivo appare inammissibilmente formulato.
Ed invero è giurisprudenza costante di questa Corte che il principio della rilevabilità in sede di legittimità del giudicato esterno deve essere coordinato con l’onere di completezza e autosufficienza del ricorso, per cui la parte ricorrente che deduca il suddetto giudicato deve indicare non solo il momento e le circostanze processuali in cui l’atto che contiene il giudicato sia stato prodotto in giudizio ma ne deve anche riprodurre il testo che si assume sia stato erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo (atteso che il solo dispositivo è insufficiente alla comprensione del contenuto del comando giudiziale), senza di che l’interpretazione di un giudicato esterno non può essere effettuata direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena (in termini si veda Cass. Sez. L, Sentenza n. 26627 del 13/12/2006).
La parte qui ricorrente si è invece limitata a fare vago riferimento al contenuto dell’invocato giudicato esterno, quasi che sia sufficiente il mero dato dell’esito a sè favorevole del precedente giudiziario passato in cosa giudicata (e con l’ulteriore menda di non avere considerato che altre pronunce definitive risultano avere avuto esito sfavorevole alla parte ricorrente, come apparirà dalla pronuncia di questa Corte di cui si dirà in seguito) e si possa prescindere dalle ragioni per le quali detto provvedimento è stato adottato.
E’ infatti insegnamento costante di questa Corte che l’efficacia del giudicato esterno è subordinata alla sussistenza (tra l’altro) di un indefettibile requisito, e cioè che l’accertamento precedentemente compiuto concerna la soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, in termini tali che detto accertamento abbia formato la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza. Sicchè è solo questo che preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto nell’ambito della controversia venuta successivamente in fase di decisione.
L’avere la parte qui ricorrente eluso l’aspetto centrale della invocata efficacia di giudicato esterno preclude l’esame stesso del motivo di ricorso, che non può essere vagliato nella sua fondatezza ma semplicemente dichiarato inammissibile.
6. Il secondo ed il quarto motivo di impugnazione.
Con il secondo motivo d’impugnazione (intestato come:"ilegittimità della sentenza impugnata …per carenza di motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5") la parte ricorrente si duole del fatto che pur avendo essa parte ricorrente evidenziato che sin dalle fasi di approvazione/progettazione della linea ferroviaria e nella sede di conferenza di servizi era stato stabilito il "riutilizzo" di tutto il materiale proveniente dagli scavi in attività di "rimodellamento ambientale", sicchè essa parte ricorrente, come mero esecutore materiale di detta disposizione, non poteva avere "intenzione di disfarsi dei materiali" ma aveva solo l’obbligo di riutilizzarli nelle attività predeterminate in quella sede – i giudici di appello avessero affermato in maniera del tutto apodittica ed elusiva delle produzioni documentali che "nella specie non esiste riutilizzazione di materiali". Vi era stato – al contrario – riutilizzo dei materiali escavati secondo le modalità preventivamente determinate con il progetto esecutivo allegato agli atti di causa sin dal ricorso introduttivo, progetto che aveva astretto il Consorzio ad adeguarsi alle prescrizioni ivi impartite concernenti le opere accessorie a quella principale.
Con il quarto motivo di impugnazione (rubricato come:"illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del combinato disposto del D.Lgs. 5 maggio 1997, n. 22, artt. 7 e 8 come interpretati autenticamente dalla L. 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1, commi 17, 18 e 19 nella versione modificata dalla L. n. 306 del 2005, art. 23 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3") la parte ricorrente si duole del fatto che i giudici di appello abbiano asserito che non esiste alcun progetto esecutivo sottoposto a VIA con esito positivo, omettendo di considerare che le norme dianzi menzionate si limitano a richiedere che vi sia un progetto sottoposto a verifica di impatto ambientale, senza alcuna ulteriore specificazione.
Secondo la parte ricorrente, erroneamente sarebbe stata affermata la necessità di uno specifico progetto per il riutilizzo dei materiali (terre e rocce), pur essendo sufficiente che vi sia un progetto – sottoposto a VIA – che ne regolamenti l’utilizzo, sia pure come opere accessorie. In quest’ottica, il giudicante avrebbe dovuto ritenere sufficiente il progetto relativo all’opera per effetto della quale si producono i materiali di scavo, appunto perchè complessivamente sottoposto a VIA e con esito positivo. Dall’esame del progetto in questione (previo il giudizio positivo in ordine alla sua idoneità ai fini di causa) il giudicante avrebbe senz’altro dedotto che l’ubicazione dei siti di deposito del materiale da scavo era stata appositamente scelta per consentire l’inserimento delle opere nel contesto paesaggistico del territorio circostante, e ciò avrebbe consentito di attribuire all’attività di rimodellamento territoriale la qualifica di "riutilizzo" dei materiali prodotto dell’escavazione, ai fini dell’applicazione della disciplina qui in considerazione.
I motivi di impugnazione ora riassunti, tra loro strettamente connessi ed involgenti questioni logiche omogenee e correlate, risultano fondati ad una disamina contestuale – e devono essere accolti.
Appare – tuttavia – utile premettere alla specifica soluzione della questione controversa una digressione di ordine esplicativo, necessaria ad inquadrare anche la presente controversia nel contesto di un quadro interpretativo di insieme che questa Corte ha tenuto presente, anche in occasione di altre decisioni – coeve alla presente – che sono state adottate nella medesima materia e tra le stesse parti.
Ed invero, la considerevole complessità del quadro normativo in ordine al concetto di "rifiuto", alla possibilità di (o le condizioni per) considerare tali le "terre e rocce da scavo", alla ripartizione dell’onere della prova in ordine alla composizione e all’utilizzo dei materiali depositati in discarica ai fini della soggezione a tassazione – venutosi a formare per stratificazioni successive e convulse – obbliga ad una premessa ricostruttiva dello sviluppo ordinamentale, ai quali fini questo collegio ritiene di avvalersi – per economia e praticità – di quello già autorevolmente tracciato con la sentenza n. 19145/2010 di questa stessa sezione.
La norma (L. n. 549 del 1995, art. 3, commi 24 e 41, applicata, per quel che concerne il giudizio in oggetto, con L.R. Toscana n. 60 del 1996) che istituisce la c.d. ecotassa per il deposito in discarica di rifiuti solidi, cioè il tributo preteso nel caso di specie dalla Regione Toscana, fa riferimento per la disciplina di detti "rifiuti" al D.P.R. n. 915 del 1982, art. 2, il cui comma 2, n. 3, classificava tra i rifiuti speciali "i materiali provenienti da demolizioni, costruzioni e scavi", disposizione abrogata, con l’intero provvedimento, prima, dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 56, comma 1, lett. b), (c.d. decreto Ronchi), e, poi, anche dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 264, comma 1, lett. b), (c.d. Codice dell’ambiente).
Il Decreto Ronchi – con il quale veniva data attuazione alle direttive comunitarie nn. 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio – prevedeva:
– all’art. 6, comma 1, lett. a), definiva rifiuto "qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso di disfarsi o abbia l’obbligo di disfarsi. Di tale disposizione il legislatore ha, poi, dettato una interpretazione autentica con il D.L. n. 138 del 2002, art. 14, secondo la quale si deve intendere per:
a) "si disfi": qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del D.Lgs. n. 22;
b) "abbia deciso di disfarsi": la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del D.Lgs. n. 22, sostanze, materiali o beni;
c) "abbia l’obbligo di disfarsi": l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’allegato D del D.Lgs. n. 22";
– all’art. 7, comma 3, lettera b), classificava come rifiuti speciali "i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonchè i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo";
– all’art. 8, comma 2, lett. c), escludeva dalla categoria dei rifiuti, "i materiali non pericolosi che derivano dall’attività di scavo": il comma 2 era poi interamente abrogato dal D.Lgs. 389 del 1997, art. 1, comma 9, emanato per rispondere alla nota della Commissione europea del 29 settembre 1997, n. 6465, con la quale erano state formulate alcune osservazioni sul "Decreto Ronchi" ai sensi e per gli effetti dell’art. 169 del Trattato U.E. L’abrogazione dell’art. 8, comma 2, non risolveva, tuttavia, quale dovesse essere la effettiva disciplina delle "terre e rocce da scavo", non essendo sufficientemente chiaro se tali materiali dovessero essere considerati rifiuti solo se pericolosi o anche se non pericolosi.
A questo scopo fu emanata la L. n. 93 del 2001 (recante "Disposizioni in campo ambientale"), con il cui art. 10, comma 1, veniva inserita nel D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 8, comma 1, la lett. f bis), secondo la quale erano da escludersi dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti, "le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti". Questa modifica era chiaramente intesa a "restringere", in qualche misura, l’area di esclusione delle "terre e rocce da scavo" dalla disciplina dei rifiuti (recependo così, in qualche modo, l’indirizzo europeo sul "divieto" di una interpretazione restrittiva della nozione di "rifiuto"), condizionando l’esclusione ad un "effettivo utilizzo" dei materiali e ad una composizione dei medesimi priva di una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalla legge.
L’incertezza del legislatore nazionale di fronte alle norme comunitarie era, tuttavia, evidente, in quanto:
– da un lato, la nuova norma era inserita in un contesto (Decreto Ronchi, art. 8, comma 1,), funzionale ad escludere dalla disciplina del decreto stesso determinati materiali in ragione del fatto che questi fossero regolati da norme speciali, norme quest’ultime inesistenti per quanto riguarda le "terre e rocce da scavo";
– dall’altro, non era fatta chiarezza sulla circostanza se l’utilizzo delle "terre e rocce da scavo" potesse avvenire, con le medesime conseguenze (sull’esclusione dalla nozione di "rifiuto"), in luogo diverso da quello di provenienza dei materiali e su come potesse essere accertata la contaminazione dei materiali.
Di qui l’esigenza di dettare una norma di interpretazione autentica, alla quale il legislatore provvede con la L. n. 443 del 2001, art. 1, commi 17, 18 e 19 (c.d. "Legge Lunardi" o "legge obiettivo"), i quali stabiliscono come debbano intendersi le disposizioni di cui al Decreto Ronchi, art. 7, comma 3, lett. b) e art. 8, comma 1, lett. i- bis):
– il comma 17 stabilisce: "Il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 7, comma 3, lett. b), ed art. 8, comma 1, lett. f bis, si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, semprechè la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti";
– il comma 18 stabilisce: "Il rispetto dei limiti di cui al comma 17 è verificato mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dall’allegato 1, tabella 1, colonna B, del D.M. Ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore";
– il comma 19 stabilisce: "Per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi incluso il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato".
Mediante la richiamata norma interpretativa il legislatore intende chiarire meglio le condizioni, ricorrendo le quali, le "terre e le rocce da scavo" non costituiscono un rifiuto (come, invece, di norma è): ciò accade quando tali materiali, pur contaminati, ma senza eccedere i limiti di accettabilità di concentrazione delle sostanze inquinanti (riferiti all’intera massa), siano destinate all’effettivo riutilizzo "per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati", in tale concetto ricompresa anche "la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi incluso il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito", ove quest’ultima sia a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente.
Due sembrano emergere come elementi essenziali della fattispecie:
a) il primo, concerne la concreta ed effettiva destinazione dei materiali.
– la discarica (nel qual caso essi vanno definiti e trattati come "rifiuti") o – riutilizzo per le finalità descritte dalla legge (nel qual caso essi sono esclusi dalla disciplina dei rifiuti);
b) il secondo, è la qualità dei materiali stessi, ossia il grado della loro contaminazione da agenti inquinanti.
La disciplina non riesce, tuttavia, a trovare una sua "tranquillità", perchè la predetta disposizione viene modificata con la L. n. 306 del 2003, art. 23 (c.d. Legge comunitaria 2003), per effetto della quale la L. n. 443 del 2001, art. 1, commi 17, 18 e 19, vengono ad assumere i seguenti contenuti:
– comma 17: il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 7, comma 3, lett. b), art. 8, comma 1, lett. f bis si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo solo nel caso in cui, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, siano utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA, semprechè la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti.
– comma 18: Il rispetto dei limiti di cui al comma 17 può essere verificato in accordo alle previsioni progettuali anche mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dall’allegato 1, tabella 1, colonna B, del D.M. ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore.
– comma 19: Per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, purchè sia progettualmente previsto l’utilizzo di tali materiali, intendendosi per tale anche il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, previo, ove il relativo progetto non sia sottoposto a VIA, parere dell’ARPA a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato. Qualora i materiali di cui al comma 17 siano destinati a differenti cicli di produzione industriale, le autorità amministrative competenti ad esercitare le funzioni di vigilanza e controllo sui medesimi cicli, provvedono a verificare, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, anche mediante l’effettuazione di controlli periodici, l’effettiva destinazione all’uso autorizzato dei materiali; a tal fine l’utilizzatore è tenuto a documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione".
Le modifiche del 2003, pur essendo apportate da una norma di interpretazione autentica, presentano notevoli e consistenti "novità", in quanto agli elementi essenziali dell’effettivo utilizzo delle terre e rocce da scavo e ai limiti dei loro componenti inquinanti, aggiunge ulteriori significativi elementi: – assenza di trasformazioni preliminari per l’utilizzo dei materiali; – utilizzazione dei medesimi secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA;
– controllo sull’effettiva destinazione dei materiali, con obbligo per l’utilizzatore di documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione.
La portata di dette "novità" – soprattutto quella che condiziona l’utilizzo dei materiali a modalità stabilite nel progetto sottoposto a VIA o dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA – è tale, che la loro automatica applicazione retroattiva, perchè modifiche apportate da una norma di interpretazione autentica, potrebbe avere effetti non indifferenti per gli operatori del settore: sicchè il legislatore vara una "moratoria" con il D.L. n. 355 del 2003, art. 23 octies (introdotto dalla Legge di Conversione n. 47 del 2004), stabilendo che "la L. 31 ottobre 2003, n. 306, art. 23, si applica ai lavori in corso alla data del 30 novembre 2003 a decorrere dal 3 dicembre 2004".
Il contenuto della "nuova" norma "interpretativa", successivamente confluiva sostanzialmente inalterato, sia pur in quadro di regole più ampio, nel D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, che sarebbe stato a sua volta modificato, una prima volta, mediante integrale sostituzione, con il D.Lgs. n. 4 del 2008, art. 2, comma 23, a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia del 18 dicembre 2007 in causa C-194/05 su procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, e, poi, con il D.L. n. 185 del 2008, convertito con modificazioni dalla L. n. 13 del 2009.
Alla luce della descritta evoluzione del quadro normativo, va considerato che la disciplina applicabile nel caso di specie ora in esame (appunto perchè riferita a presupposto d’imposta che si è realizzato in epoca successiva alla scadenza della "moratoria" di cui dianzi si è detto) è quella emergente dal "decreto Ronchi", art. 8, comma 1, lett. f-bis), così come interpretato autenticamente dalla "Legge Obiettivo", art. 1, commi 17, 18 e 19, e come successivamente modificato/interpretato dalla L. n. 306 del 2003, art. 23.
In specie, per effetto delle "modifiche" introdotte dalla norma dell’art. 23 ultimo menzionato, ciò che rileva in termini preliminari ai fini della soluzione della questione ora in rassegna è il requisito normativo (esimente) secondo cui "le terre e rocce da scavo ……….siano utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA, requisito che il giudicante ha ritenuto insussistente in difetto di una (apposita) procedura di "Valutazione di impatto ambientale" delle opere.
In realtà, che il giudice del merito abbia ritenuto necessaria una "apposita" procedura assume la sola parte ricorrente ma non è possibile ricavarlo per diretto nella motivazione della sentenza qui impugnata, dalla quale si desume semplicemente che il giudicante ha ritenuto che "…non esiste…progetto esecutivo", con ciò lasciando trasparire di non avere affatto esaminato e tenuto in conto il progetto esecutivo dell’opera che la parte ricorrente evidenzia di avere prodotto come allegato n. 6 al ricorso introduttivo di primo grado e della cui esistenza in atti è la stessa parte intimata a dare atto al capo 4 del proprio controricorso, pur contestando la specifica idoneità di tale documento a costituire prova degli assunti di parte avversaria.
Orbene, detto documento, di cui è da supporre che il giudicante non abbia tenuto conto alcuno, appare a questa Corte ragione sufficiente della fondatezza della censura di inadeguata motivazione lamentata dalla parte qui ricorrente, in considerazione della valenza decisiva che ad esso documento non può non essere assegnata alla luce del disposto normativo di cui si discute.
Ed invero, le opere di "(n)utilizzo" che – a mente del richiamato art.23 – esonerano le rocce e le terre da scavo dall’applicazione della disciplina sui rifiuti (nell’ottica tributaria di cui qui si discute) sono proprio ed esattamente quelle "progettualmente previste", sicchè una risposta alla questione qui controversa non può prescindere dallo specifico esame della concreta disciplina progettuale che ha presieduto alla realizzazione dell’opera, onde acclarare se essa vi corrisponde e ne costituisca pedissequa attuazione.
Tutto ciò, ovviamente, in accordo con i limiti espressamente previsti nella specifica disposizione dell’art. 23 dianzi trascritta (che nella specie recupera alla lettera la previsione della L. n. 443 del 2001, art. 1, comma 19), nella quale la categorie delle opere rilevanti ai fini dell’esenzione (purchè progettualmente previste) sono solo quelle concernenti dei "reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche (con) destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ……….. intendendosi per tale anche il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito".
E dunque, al fine di valutare la sussistenza delle predette cause di esenzione dal tributo, il giudicante del merito avrebbe dovuto ineludibilmente apprezzare (se necessario avvalendosi di una specifica collaborazione tecnica) la sussistenza delle condizioni di legge dianzi evidenziate, previo ed a mezzo dello specifico esame del documento progettuale che nella specie risulta non essere stato debitamente esaminato.
D’altronde, muovendo dalla premessa che – alla luce dei principi enunciati dalla sentenza n. 19145/2010 di questa Corte e trattandosi di prova relativa ad una causa di esenzione o di esclusione da un determinato tributo – compete senz’altro alla parte contribuente fornire la prova dell’effettivo riutilizzo dei materiali, in nessun altro modo alla parte contribuente sarebbe possibile dare la prova della sussistenza dei caratteri normativamente prescritti dell’effettivo "riutilizzo" se non a mezzo della produzione del progetto approvato nel quale dette opere siano (come nella specie si assume) contemplate e disciplinate.
Nella pronuncia di appello – peraltro – si da atto (in un diverso passaggio motivazionale) de fatto che il Consorzio contribuente assume di avere allegato un "progetto approvato" contenente anche "prescrizioni relative alle opere accessorie consistenti in interventi di rimodellamento e riqualificazione ambientale", ma si liquida detta allegazione con l’irrilevante considerazione che "tutti gli atti relativi al (OMISSIS) autorizzano discariche, dettando poi prescrizioni per la gestione e, contestualmente, per il ripristino dei luoghi alla chiusura della stesse".
In tal modo il giudicante – oltre ad inibirsi il diretto esame del documento progettuale ai fini delle verifica della sussistenza delle condizioni normative di cui si è detto – finisce per aprioristicamente escludere che le "prescrizioni per il ripristino e la chiusura delle stesse" possano contemporaneamente soddisfare (in termini oggettivi, ed indipendentemente dall’intenzione progettuale dell’epoca, che ovviamente non poteva tenere conto della disciplina sopravvenuta) anche alle condizioni previste nella disciplina risultante dal combinato disposto degli art. 23 ed art. 1, comma 19 dianzi richiamati, e possano comunque costituire ragione obiettiva per l’esenzione dal tributo di cui qui si discute. In tal modo il giudice dell’appello ha finito per realizzare anche la violazione della prescrizione normativa, supponendo – senza giustificazione alcuna e tanto più alla luce della previsione dell’art. 1, comma 19 citato che fa espresso riferimento a "reinterri, riempimenti"; al "riempimento delle cave coltivate" ed alla "ricollocazione in altro sito" – che l’esistenza dell’autorizzazione alla coltivazione di discariche implichi anche di necessità un ostacolo dirimente per l’applicazione del disposto combinato della L. n. 549 del 1995, art. 23 e delle norme or ora richiamate.
Nè potrebbe il giudicante avere supposto (ciò che si è detto non emergere per diretto dalla motivazione della pronuncia impugnata) che per la valorizzazione delle opere di "riutilizzo" ai fini di cui qui trattasi vi sarebbe stato bisogno di una apposita nuova "valutazione di impatto ambientale" (elemento a cui si accenna qui per ragione di completezza e prevenzione), appunto perchè detta autonoma e apposita procedura non risulta richiesta dalla disciplina di cui si discute che nel riferirsi al "progetto sottoposto a VIA" – non può che avere considerato lo strumento nel quale la realizzazione delle opere è prevista e disciplinata, ovunque e comunque ciò sia avvenuto. In definitiva, anche a questo proposito deve concludersi che l’originaria "valutazione" riferita all’intero progetto dell’opera (inclusivo anche di quelle di rimodellazione ambientale, collegate e connesse) costituisce la corretta e sufficiente premessa per giudicare della sussistenza della condizione esonerativa consistente nel "riutilizzo" dei materiali di scavo.
Si impone quindi da parte del giudice del merito un riesame del materiale probatorio versato agli atti di causa affinchè, alla luce della corretta interpretazione del quadro normativo dianzi tracciato, torni a valutare la fondatezza del rapano proposto dal Consorzio.
Il terzo ed il quinto motivo di ricorso restano privi di autonoma rilevanza per la valenza assorbente dei vizi della pronuncia impugnata fin qui esaminati.
Le spese di lite di questo grado saranno regolate dal medesimo giudice di rinvio.
P.Q.M.
la Corte – riconvocata in data 23.5.2012 – accoglie il secondo ed il quarto motivo di ricorso, assorbiti il terzo ed il quinto. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR Toscana che – in diversa composizione – esaminerà le censure di appello alla luce dei principi contenuti nella presente decisione, regolando anche le spese di lite relative al presente grado.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *