Cass. civ. Sez. V, Sent., 25-07-2012, n. 13114 Tassa rimozione rifiuti solidi Tributi locali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo
1. Gli atti del giudizio di legittimità.
Il 15.3.2010 è stato notificato alla Regione Toscana un ricorso del "X – Consorzio alta velocità Emilia e Toscana" per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe (depositata il 24.8.2009), che ha respinto l’appello dallo stesso Consorzio proposto contro la sentenza n. 61/19/2007 della CTP di Firenze che aveva a sua volta integralmente respinto il ricorso proposto dalla parte contribuente avverso provvedimento di diniego della Regione Toscana in ordine all’istanza di restituzione del tributo speciale per il deposito in discarica di rifiuti solidi versato per il periodo quarto trimestre 2004.
La Regione Toscana si è difesa con controricorso.
La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 28.2.2012, in cui il PG ha concluso per il rigetto del ricorso.
2. I fatti di causa.
Con il menzionato provvedimento di diniego la Regione Toscana ha denegato il rimborso del tributo speciale ex L. n. 549 del 1995 corrisposto dal X per il deposito in discarica delle terre e delle rocce risultanti dai lavori di escavazione effettuati nel corso della realizzazione della tratta "(OMISSIS)" della linea ferroviaria "alta velocità", e ciò sul presupposto che si dovessero considerare "discariche" i siti in cui il predetto materiale è stato ammassato; che si dovessero considerare "rifiuti" i materiali provenienti dalle escavazioni delle gallerie, in ragione della disciplina risultante dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, comma 1, lett. d) e art. 8, comma 1, lett. f) bis ed infine che si dovesse desumere dallo stoccaggio definitivo effettuato presso le anzidette discariche che il gestore di detti materiali aveva inteso disfarse, facendoli così automaticamente qualificare come rifiuti.
La CTP di Firenze, adita dal X per l’impugnazione del provvedimento di diniego, aveva rigettato il ricorso per difetto della prova (incombente sul consorzio) dell’esistenza di un progetto di rimodellamento del territorio per il quale sarebbero stati riutilizzati i materiali provenienti dalle attività di scavo, apparendo invece che i siti di sua destinazione fossero stati autorizzati dalle competenti autorità quali discariche, destinati appunto a costituire luogo di deposito dei materiali medesimi.
L’appello interposto dal Consorzio è stato respinto dalla CTR Toscana.
3. La motivazione della sentenza impugnata.
La sentenza della CTR oggetto del ricorso per cassazione, è motivata nel senso che – disattesa l’eccezione di giudicato esterno fatta valere dal consorzio – era risultato dalla documentazione in atti che entrambi i siti nei quali il materiale risultava stoccato erano stati autorizzati dalle competenti autorità come discariche, con le conseguenti prescrizioni impartite per il ripristino dei luoghi e la chiusura di dette discariche. D’altronde poi, la natura di interpretazione autentica della L. n. 306 del 2003, art. 23 ne implicava l’effetto retroattivo, efficacia che non avrebbe potuto essere limitata da altra e sopravvenuta norma (il D.L. n. 355 del 2003, art. 23 octies nel quale si differiva l’applicazione della L. n. 306 del 2003, art. 23 all’epoca successiva al 31.12.2004), la quale altrimenti sarebbe risultata costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 11 e 117 Cost..
Insomma, in ragione di detta disciplina (che prevedeva che le terre e le rocce da scavo non costituiscano rifiuto solo se esse siano riutilizzate secondo un progetto sottoposto a verifica di impatto ambientale o secondo modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa, sia pure a specifiche condizioni) nella specie di causa non poteva dirsi che ci fosse stata riutilizzazione dei materiali nè progetto del genere di quello appena detto, nè si sarebbe potuto assegnare valore probatorio alle analisi effettuate dal X trattandosi di analisi su campioni, mai sottoposte a valutazione o vidimazione dall’ARPAT. 4. Il ricorso per cassazione.
Il ricorso per cassazione è sostenuto con (se ben si intende dal disorganico atto di ricorso) sei motivi d’impugnazione e si conclude – previa indicazione del valore della lite in Euro 172.214,93 – con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni consequenziale pronuncia anche in ordine alle spese di lite.
Motivi della decisione
5. Il primo motivo d’impugnazione.
Con il primo motivo di ricorso il quale risulta (rubricato come l’illegittimità della sentenza impugnata …….in quanto viziata nella motivazione sotto diversi profili, in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5"), la parte ricorrente – dopo avere evidenziato che nei giudizi di merito era stato preliminarmente osservato che era passata in giudicato la sentenza n. 95-17-2003 della CTP di Firenze concernente la medesima questione qui controversa (ma con riferimento al tributo per gli anni dal 1997 all’ottobre 2000) ed era stata perciò eccepita la preclusione derivante dall’anzidetto giudicato esterno – si duole del fatto che il giudice del merito abbia disatteso siffatta eccezione sulla superficiale premessa che non era risultato sussistere "effettiva identità di fattispecie" nelle due distinte controversie.
Il giudicante avrebbe invece dovuto – essendo la vicenda sottoposta alla medesima disciplina applicata anche nella menzionata sentenza n. 95; essendo irrilevante che il debito d’imposta si riferisca ad annualità diverse; essendo risultato dalle prodotte "caratterizzazioni" che i materiali oggetto di escavazione nelle due fattispecie avevano omogenea composizione – "esaminare separatamente ogni singola posizione e, soltanto al termine di detto esame, affermare eventualmente che nessuna di esse presentava identità di fattispecie con quella decisa nella sentenza definitiva n. 95".
Il motivo appare inammissibilmente formulato.
Ed invero è giurisprudenza costante di questa Corte che il principio della rilevabilità in sede di legittimità del giudicato esterno deve essere coordinato con l’onere di completezza e autosufficienza del ricorso, per cui la parte ricorrente che deduca il suddetto giudicato deve indicare non solo il momento e le circostanze processuali in cui l’atto che contiene il giudicato sia stato prodotto in giudizio ma ne deve anche riprodurre il testo che si assume sia stato erroneamente interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo (atteso che il solo dispositivo è insufficiente alla comprensione del contenuto del comando giudiziale), senza di che l’interpretazione di un giudicato esterno non può essere effettuata direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena (in termini si veda Cass. Sez. L, Sentenza n. 26627 del 13/12/2006).
La parte qui ricorrente si è invece limitata a fare vago riferimento al contenuto dell’invocato giudicato esterno, quasi che sia sufficiente il mero dato dell’esito a sè favorevole del precedente giudiziario passato in cosa giudicata (e con l’ulteriore menda di non avere considerato che altre pronunce definitive risultano avere avuto esito sfavorevole alla parte ricorrente, come apparirà dalla pronuncia di questa Corte di cui si dirà in seguito) e si possa prescindere dalle ragioni per le quali detto provvedimento è stato adottato.
E’ invece insegnamento costante di questa Corte che l’efficacia del giudicato esterno è subordinata alla sussistenza (tra l’altro) di un indefettibile requisito, e cioè che l’accertamento precedentemente compiuto concerna la soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, in termini tali che detto accertamento abbia formato la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza. Sicchè è solo questo che preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto nell’ambito della controversia venuta successivamente in fase di decisione.
L’avere la parte qui ricorrente eluso l’aspetto centrale della invocata efficacia di giudicato esterno preclude l’esame stesso del motivo di ricorso, che non può essere vagliato nella sua fondatezza ma semplicemente dichiarato inammissibile.
6. Il secondo motivo d’impugnazione.
Il secondo motivo d’impugnazione è intestato come:"….violazione e falsa applicazione della L. 31 ottobre 2003, n. 306, art. 23 in combinato disposto con il D.L. 24 dicembre 2003, n. 355, art. 23 octies……in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3".
Con detto motivo di impugnazione la parte ricorrente si duole del rigetto da parte del giudicante della censura fondata sul fatto che alla specie di causa non è applicabile la L. n. 443 del 2001, art. 1 nella versione modificata dalla L. n. 306 del 2003, art. 23 bensì la disciplina dettata dagli originari D.Lgs. n. 22 del 1997, artt. 7 e 8 appunto perchè si discute qui di fatti avvenuti nell’anno 2004 e del rimborso di tributi versati nello stesso anno. Ed in specie si duole del fatto che il giudicante abbia ritenuto che la L. n. 306 del 2003, art. 23 sia norma di interpretazione autentica, con effetto non cronologicamente limitato per effetto del disposto del D.L. n. 355 del 2003, art. 23 octies (che ha previsto che la L. n. 306 del 2003, art. 23 octies "si applica ai lavori in corso alla data del 30.11.2003 a decorrere dal 31.12.2004).
Il motivo di impugnazione, come dianzi riassunto, è fondato e deve essere accolto.
Prima di passare alla puntuale disamina del motivo di impugnazione si impone una digressione. Ed invero, la considerevole complessità del quadro normativo in ordine al concetto di "rifiuto", alla possibilità di (o le condizioni per) considerare tali le "terre e rocce da scavo", alla ripartizione dell’onere della prova in ordine alla composizione e all’utilizzo dei materiali depositati in discarica ai fini della soggezione a tassazione – venutosi a formare per stratificazioni successive e convulse – obbliga ad una premessa ricostruttiva dello sviluppo ordinamentale, ai quali fini questo collegio ritiene di avvalersi – per economia e praticità – di quello già autorevolmente tracciato con la sentenza n. 19145/2010 di questa stessa sezione.
6.1 Il quadro normativo di riferimento.
La norma (L. n. 549 del 1995, art. 3, commi 24 e 41, applicata, per quel che concerne il giudizio in oggetto, con L.R. Toscana n. 60 del 1996) che istituisce la c.d. ecotassa per il deposito in discarica di rifiuti solidi, cioè il tributo preteso nel caso di specie dalla Regione Toscana, fa riferimento per la disciplina di detti "rifiuti" al D.P.R. n. 915 del 1982, art. 2, il cui comma 2, n. 3, classificava tra i rifiuti speciali "i materiali provenienti da demolizioni, costruzioni e scavi", disposizione abrogata, con l’intero provvedimento, prima, dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 56, comma 1, lett. b), (c.d. decreto Ronchi), e, poi, anche dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 264, comma 1, lett. b), (c.d. Codice dell’ambiente).
Il Decreto Ronchi – con il quale veniva data attuazione alle direttive comunitarie nn. 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio – prevedeva:
– all’art. 6, comma 1, lett. a), definiva rifiuto "qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disii o abbia deciso di disfarsi o abbia l’obbligo di disfarsi. Di tale disposizione il legislatore ha, poi, dettato una interpretazione autentica con il D.L. n. 138 del 2002, art. 14, secondo la quale si deve intendere per:
a) "si disfi": qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati BeC del D.Lgs. n. 22;
b) "abbia deciso di disfarsi": la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del D.Lgs. n. 22, sostanze, materiali o beni;
c) "abbia l’obbligo di disfarsi": l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell’elenco dei rifiuti pericolosi di cui all’allegato D del D.Lgs. n. 22";
– all’art. 7, comma 3, lett. b), classificava come rifiuti speciali "i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonchè i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo";
– all’art. 8, comma 2, lett. c), escludeva dalla categoria dei rifiuti, "i materiali non pericolosi che derivano dall’attività di scavo": il comma 2 era poi interamente abrogato dal D.Lgs. 389 del 1997, art. 1, comma 9, emanato per rispondere alla nota della Commissione europea del 29 settembre 1997, n. 6465, con la quale erano state formulate alcune osservazioni sul "decreto Ronchi" ai sensi e per gli effetti dell’art. 169 del Trattato U.E. L’abrogazione dell’art. 8, comma 2 non risolveva, tuttavia, quale dovesse essere la effettiva disciplina delle "terre e rocce da scavo", non essendo sufficientemente chiaro se tali materiali dovessero essere considerati rifiuti solo se pericolosi o anche se non pericolosi.
A questo scopo fu emanata la L. n. 93 del 2001 (recante "Disposizioni in campo ambientale"), con il cui art. 10, comma 1, veniva inserita nel D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 8, comma 1, la lett. f bis), secondo la quale erano da escludersi dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti, "le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti". Questa modifica era chiaramente intesa a "restringere", in qualche misura, l’area di esclusione delle "terre e rocce da scavo" dalla disciplina dei rifiuti (recependo cosi, in qualche modo, l’indirizzo europeo sul "divieto" di una interpretazione restrittiva della nozione di "rifiuto"), condizionando l’esclusione ad un "effettivo utilizzo" dei materiali e ad una composizione dei medesimi priva di una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalla legge.
L’incertezza del legislatore nazionale di fronte alle norme comunitarie era, tuttavia, evidente, in quanto:
– da un lato, la nuova norma era inserita in un contesto ("Decreto Ronchi", art. 8, comma 1), funzionale ad escludere dalla disciplina del decreto stesso determinati materiali in ragione del fatto che questi fossero regolati da norme speciali, norme quest’ultime inesistenti per quanto riguarda le "terre e rocce da scavo":
– dall’altro, non era fatta chiarezza sulla circostanza se l’utilizzo delle "terre e rocce da scavo" potesse avvenire, con le medesime conseguenze (sull’esclusione dalla nozione di "rifiuto"), in luogo diverso da quello di provenienza dei materiali e su come potesse essere accertata la contaminazione dei materiali.
Di qui l’esigenza di dettare una norma di interpretazione autentica, alla quale il legislatore provvede con la L. n. 443 del 2001, art. 1, commi 17, 18 e 19 (c.d. "legge Lunardi" o "legge obiettivo"), i quali stabiliscono come debbano intendersi le disposizioni di cui al decreto Ronchi, art. 7, comma 3, lett. b) e art. 8, comma 1, lett. f- bis):
– il comma 17 stabilisce: "Il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 7 comma 3, lett. b), ed art. 8, comma 1, lett. f bis, si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, semprechè la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti";
– il comma 18 stabilisce: "Il rispetto dei limiti di cui al comma 17 è verificato mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dall’allegato 1, tabella 1, colonna B, del D.M. Ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore";
– il comma 19 stabilisce: "Per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi incluso il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato".
Mediante la richiamata norma interpretativa il legislatore intende chiarire meglio le condizioni, ricorrendo le quali, le "terre e le rocce da scavo" non costituiscono un rifiuto (come, invece, di norma è): ciò accade quando tali materiali, pur contaminati, ma senza eccedere i limiti di accettabilità di concentrazione delle sostanze inquinanti (riferiti all’intera massa), siano destinate all’effettivo riutilizzo "per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati", in tale concetto ricompresa anche "la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, ivi incluso il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito", ove quest’ultima sia a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente.
Due sembrano emergere come elementi essenziali della fattispecie:
a) il primo, concerne la concreta ed effettiva destinazione dei materiali.
– la discarica (nel qual caso essi vanno definiti e trattati come "rifiuti") o – riutilizzo per le finalità descritte dalla legge (nel qual caso essi sono esclusi dalla disciplina dei rifiuti);
b) il secondo, è la qualità dei materiali stessi, ossia il grado della loro contaminazione da agenti inquinanti.
La disciplina non riesce, tuttavia, a trovare una sua "tranquillità", perchè la predetta disposizione viene modificata con la L. n. 306 del 2003, art. 23 (c.d. Legge comunitaria 2003), per effetto della quale la L. n. 443 del 2001, art. 1, commi 17, 18 e 19, vengono ad assumere i seguenti contenuti:
– comma 17: il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 7, comma 3, lett. b), ed art. 8, comma 1, lett. f bis si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo solo nel caso in cui, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, siano utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA, semprechè la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti.
– comma 18: Il rispetto dei limiti di cui al comma 17 può essere verificato in accordo alle previsioni progettuali anche mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dall’allegato 1, tabella 1, colonna B, del D.M. ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore.
– comma 19: Per i materiali di cui al comma 17 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione a differenti cicli di produzione industriale, purchè sia progettualmente previsto l’utilizzo di tali materiali, intendendosi per tale anche il riempimento delle cave coltivate, nonchè la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall’autorità amministrativa competente, previo, ove il relativo progetto non sia sottoposto a VIA, parere dell’ARPA a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 18 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità di rimodellazione ambientale del territorio interessato. Qualora i materiali di cui al comma 17 siano destinati a differenti cicli di produzione industriale, le autorità amministrative competenti ad esercitare le funzioni di vigilanza e controllo sui medesimi cicli, provvedono a verificare, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, anche mediante l’effettuazione di controlli periodici, l’effettiva destinazione all’uso autorizzato dei materiali; a tal fine l’utilizzatore è tenuto a documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione".
Le modifiche del 2003, pur essendo apportate da una norma di interpretazione autentica, presentano notevoli e consistenti "novità", in quanto agli elementi essenziali dell’effettivo utilizzo delle terre e rocce da scavo e ai limiti dei loro componenti inquinanti, aggiunge ulteriori significativi elementi:
-assenza di trasformazioni preliminari per l’utilizzo dei materiali;
-utilizzazione dei medesimi secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA;
– controllo sull’effettiva destinazione dei materiali, con obbligo per l’utilizzatore di documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione.
La portata di dette "novità" – soprattutto quella che condizione l’utilizzo dei materiali a modalità stabilite nel progetto sottoposto a VIA o dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA – è tale, che la loro automatica applicazione retroattiva, perchè modifiche apportate da una norma di interpretazione autentica, potrebbe avere effetti non indifferenti per gli operatori del settore: sicchè il legislatore vara una "moratoria" con il D.L. n. 355 del 2003, art. 23 octies (introdotto dalla Legge di Conversione n. 47 del 2004), stabilendo che "la L. 31 ottobre 2003, n. 306, art. 23, si applica ai lavori in corso alla data del 30 novembre 2003 a decorrere dal 31 dicembre 2004".
Il contenuto della "nuova" norma "interpretativa", successivamente confluiva sostanzialmente inalterato, sia pur in quadro di regole più ampio, nel D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, che sarebbe stato a sua volta modificato, una prima volta, mediante integrale sostituzione, con il D.Lgs. n. 4 del 2008, art. 2, comma 23, a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia del 18 dicembre 2007 in causa C-194/05 su procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, e, poi, con il D.L. n. 185 del 2008, convertito con modificazioni dalla L. n. 13 del 2009.
Alla luce della descritta evoluzione del quadro normativo, la disciplina applicabile anche nel caso di specie ora in esame (non meno che in quello tenuto in considerazione ai fini della pronuncia n. 19145/2010 di questa Corte) è quella emergente dal "Decreto Ronchi", art. 8, comma 1, lett. f-bis), così come interpretato autenticamente dalla "Legge Obiettivo", art. 1, commi 17, 18 e 19, senza tener conto, per le ragioni già dapprima enunciate, delle modifiche a quest’ultima norma apportate con la L. n. 306 del 2003, art. 23.
Invero, i fatti di causa, infatti, risalgono agli anni dal 2000 al 2004 (in particolare al 4 trimestre dell’anno 2004, in relazione al quale è stato pagato il tributo di cui si chiede qui il rimborso), fuori, quindi, del periodo di "moratoria" stabilito con il D.L. n. 355 del 2003, art. 23 octies.
Ciò posto, per ragioni di coerenza con i precedenti di questa Corte e per l’adesione che questo collegio manifesta apertamente alla ricostruzione del quadro normativo dianzi riassunto, va detto che non è condivisibile, e francamente anche non chiaramente intelligibile, l’assunto di parte controricorrente secondo cui il menzionato precedente finirebbe per affermare e poi negare la natura di interpretazione autentica della L. n. 306 del 2003: non è infatti questa Corte ma il Legislatore italiano (cui compete la discrezionalità di applicare a situazioni diverse differenti discipline, come è il caso del confine tra opere di genere strategico e opere non tali, senza che se ne possano indurre sperequazioni di rilievo costituzionale) che ha ritenuto di applicare una "moratoria" all’"effetto retroattivo della norma di interpretazione autentica, in tal modo rendendola norma innovativa con riferimento a quelle categorie di lavori che sono da qualificarsi "strategiche" e perciò depauperandone (in parte qua) la originaria natura.
A questa Corte incombe il dovere di prenderne atto e di perseverare nel l’attribuire alle parole della legge il senso loro proprio, scevra da suggestioni di genere esterno che non si riflettano in corretti motivi di interpretazione logico-adeguatrice, quali infatti non si ravvisano nella presente fattispecie, atteso che il senso manifesto della locuzione normativa non può che essere inteso nei termini di cui già si è detto, e cioè nel senso che l’intervallo di inefficacia previsto nel D.L. n. 355 del 2003 costituisce un rinvio vero e proprio di concreta effettività della norma novellatrice (e, specularmente, una protrazione dell’efficacia della precedente formula normativa), per la dichiarata intenzione del legislatore di consentire alle imprese che avevano già in corso al momento del 30.11.2003 opere di genere "strategico" di proseguire temporaneamente nella precedente gestione dei rifiuti inerti e non doversi uniformare ai gravosi adempimenti imposti dalla più rigorosa disciplina interpretativa emanata nel 2003.
Non si tratta quindi – come suppone la parte controricorrente – di un semplice periodo di intervallo, di un periodo di semplice sospensione della efficacia retroattiva della L. n. 306 del 2003, ma di una vero e proprio differimento dell’efficacia di questa, che quindi non potrà avere effetto alcuno (per le vicende del genere a cui si applica il differimento) ai fatti intervenuti prima del 1.1.2005, ove per fatti intervenuti deve intendersi (nella concreta vicenda di causa) la maturazione dei presupposti di imposta donde si genera l’obbligo del pagamento del tributo speciale.
E d’altronde, quale altro meccanismo di sospensione d’efficacia la parte controricorrente intenda proporre, neppure è agevole intenderlo, nel concreto degli effetti che se ne dovrebbero generare:
pare solo di capire che nella proposta ricostruzione dell’efficacia "intervallata" della norma interpretativa dell’anno 2003 (che riprenderebbe l’integrale suo vigore retroattivo una volta scaduto il termine del 31.12.2004) si dovrebbe di fatto generare una situazione nella quale il discrimine cronologico del 1.1.2005 dovrebbe fungere soltanto come criterio per l’autoregolazione dell’arbitrio delle Amministrazioni regionale, sicchè spetterebbe a queste ultime adottare i provvedimenti prima di quella data (e perciò destinarli all’applicazione del regime ante L. n. 306 del 2003) ovvero adottarli successivamente a quella data (e perciò destinarli all’applicazione del regime post L. n. 306 del 2003), indipendentemente dalle date di maturazione dei presupposti di imposta.
Ma si tratterebbe di un esito così aberrante ed inusitato, con l’assegnazione alle Amministrazioni locali della facoltà di prescegliere il regime normativo ritenuto favorevole, che già di per sè contrasta con la fondatezza della proposta ricostruttiva formulata dall’odierna ricorrente.
6.2 Il limite della disciplina comunitaria.
Fatto chiaro il quadro dell’evoluzione normativa e precisato quale sia la disciplina effettivamente applicabile alla fattispecie in esame (e cioè il "Decreto Ronchi", art. 8, comma 1, lett. f-bis, così come interpretato autenticamente dalla L. n. 443 del 2001, art. 1, commi 17, 18 e 19), si impone a questo punto una ulteriore digressione per dare conto dei dubbi di compatibilità tra la dianzi accennata disciplina nazionale e quella europea, dubbi sinteticamente prospettati dalla parte ricorrente e molto più analiticamente e evidenziati e approfonditi dal Pubblico Ministero che – nella sua dotta requisitoria e dopo avere prospettato la necessità di confermare la correttezza del dispositivo della decisione impugnata, sia pur correggendone la motivazione – ha sostanzialmente riaffermato il principio secondo cui non può qui trascurarsi il quadro dell’ordinamento comunitario (direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE), quale risulta per effetto dell’attività interpretativa effettuata dalle sentenze della Corte di Giustizia della Comunità Europea (in particolare, il riferimento è alla sentenza 11.11.2004 in causa C-457/02, Niselli), le cui decisioni sono immediatamente e direttamente applicabili in ambito nazionale.
Secondo detto quadro comunitario la nozione di rifiuto non deve essere intesa nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, atteso che la protezione della salute umana e dell’ambiente verrebbe ad essere compromessa qualora l’applicazione delle direttive comunitarie in materia fosse fatta dipendere dall’intenzione del detentore di escludere o meno una riutilizzazione economica da parte di altri delle sostanza o degli oggetti di cui ci si disfa (o si sia deciso o si abbia l’obbligo di disfarsi)", con la conseguenza che, "al fine di delineare la nozione di rifiuto, sussiste la necessità dell’applicazione immediata, diretta e prevalente, nell’ordinamento nazionale dei principi fissati dai regolamenti comunitari e dalle sentenze della Corte di Giustizia, atteso che tali decisioni, allorchè l’esegesi del diritto comunitario sia incontrovertibile e la normativa nazionale ne appaia in contrasto, sono immediatamente e direttamente applicabili in sede nazionale, sussistendo l’obbligo di non applicazione delle disposizioni nazionali in contrasto con quelle comunitarie provenienti da tali fonti".
Conferma dell’esistenza di un siffatto limite alla piena applicazione della disciplina nazionale deriverebbe poi dalla sentenza della Corte di Giustizia 18 dicembre 2007 nella causa C-263/05 che (nell’esaminare il ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, proposto Commissione delle Comunità europee in relazione al rapporto tra la disciplina del D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 14 e la disciplina dell’art. 1, lett. a), della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti) ha dichiarato che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi le incombono in forza della direttiva, l’nella misura in cui le disposizioni controverse hanno escluso dall’ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di quelli provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti".
Senonchè, nella pur attenta valutazione delle acute considerazioni oggetto della requisitoria, non può sfuggire a questa Corte che la disciplina in diretto rilievo nella presente controversia non è già quella dettata nella materia ambientale e fin qui menzionata, siccome implicata dalla necessità di identificare la nozione di "rifiuto" ai fini della precisa qualificazione del presupposto d’imposta, ma bensì la L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3 che, ai commi 24 e seguenti, nel testo vigente all’epoca di cui trattasi, prevede:" "24. Al fine di favorire la minore produzione di rifiuti e il recupero dagli stessi di materia prima e di energia, a decorrere dal 1 gennaio 1996 è istituito il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, così come definiti e disciplinati dal D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, art. 2.
25. Presupposto dell’imposta è il deposito in discarica dei rifiuti solidi, compresi i fanghi palabili.
26. Soggetto passivo dell’imposta è il gestore dell’impresa di stoccaggio definitivo con obbligo di rivalsa nei confronti di colui che effettua il conferimento.
27. Il tributo è dovuto alle regioni; una quota del 10 per cento di esso spetta alle province…
28. La base imponibile è costituita dalla quantità dei rifiuti conferiti in discarica sulla base delle annotazioni nei registri tenuti in attuazione del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, artt. 11 e 19".
Si deduce per diretto dalla lettura della norma che l’istituzione del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi è stata dal legislatore nazionale espressamente indirizzata al fine di favorire la minore produzione di rifiuti ed il recupero da essi di materia prima e di energia (grazie alla situazione sfavorevole alla produzione che se ne genera) ed è semplicemente raccordato al fenomeno dello smaltimento di questi, sotto il profilo dell’accertamento del presupposto d’imposta e della quantificazione base imponibile.
Ed invero, le finalità che costituiscono la premessa della previsione normativa (sicuramente estranee allo strumento del prelievo tributario) indirizzano verso una forma di garanzia per la predisposizione delle risorse finanziarie necessaire ad eseguire specifici interventi nel campo ambientale, anche non necessariamente connessi con il fenomeno peculiare del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti.
Riassuntivamente, e senza fermarsi all’analisi delle specifiche disposizioni, è possibile affermare che (come messo in evidenza dalla dottrina di settore) dalle norme della L. n. 549 del 1995 non emerge alcun collegamento immediato tra l’istituzione del tributo speciale e le attività connesse con lo smaltimento dei rifiuti giacchè il fatto generatore dell’imposta è il semplice deposito in discarica dei rifiuti solidi, sicchè può concludersi nel senso che il tributo appare estraneo al fenomeno del sostenimento dei costi e delle spese necessarie per la gestione dello smaltimento e quindi anche all’erogazione del relativo servizio.
La disciplina speciale dianzi richiamata, dunque, si innesta ovviamente su quella relativa alla disciplina dello smaltimento (che ha origine con il D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, a cui espressamente rinvia), su quella della gestione dei rifiuti (originariamente contenuta nel D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22) ed infine su quella relativa al danno ambientale (L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18) e con dette discipline extratributarie non può non essere coerente in termini di massima, ma non è ad esse minutamente coordinata (come si potrebbe dimostrare con una più analitica esegesi dei testi normativi) e non ne è necessariamente condizionata nelle conclusioni e negli effetti, nè può considerarsi strumento diretto e necessitato di applicazione delle disposizioni contenute nella direttiva europea più volte menzionata e nelle sue successive evoluzioni.
In specie, la disciplina in parola non può non ritenersi estranea alle prescrizioni contenute nell’art. 15 della direttiva, secondo cui: "Conformemente al principio chi inquina paga, il costo dello smaltimento dei rifiuti deve essere sostenuto:
– dal detentore che consegna i rifiuti ad un raccoglitore o ad una impresa di cui all’art. 9 e/o;
– dai precedenti detentori o dal produttore del prodotto causa dei rifiuti".
D’altronde, è stato autorevolmente sostenuto che lo stesso principio "chi inquina paga" (recepito nell’Atto Unico Europeo del 17.2.1986 con la conseguente introduzione nel Trattato dell’art. 130R, secondo la numerazione dell’epoca, oggi divenuto arti74, in cui le esigenze connesse con la salvaguardia dell’ambiente sono elevate al rango di componente delle politiche della Comunità) ha una funzione essenzialmente programmatica e non costituisce norma direttamente applicabile, giacchè esso non specifica dettagliatamente il contenuto delle obbligazioni poste in capo ai responsabili, tanto che la sua capacità normogenetica è stata ricondotta alla sola materia della riparazione del danno.
La stessa Corte di Giustizia Europea ha recentemente confermato (sez. 2, sentenza 25.2,2010, causa C-172/08) che – pur essendo tenuti gli stati membri ad adottare misure affinchè tutti i costi derivanti dall’impianto e dall’esercizio della discarica siano coperti dal prezzo applicato dal gestore per lo smaltimento di qualsiasi tipo di rifiuti nella discarica medesima (secondo la espressa previsione dell’art. 10 della direttiva del Consiglio 26 aprile 1999, 1999/31) – la anzicitata norma non impone agli stati membri alcun metodo specifico per quanto attiene a finanziamento dei costi delle discariche, sicchè tale finanziamento può – a scelta dello stato membro interessato – essere indifferentemente assicurato mediante una tassa, un canone o qualsiasi altra modalità. A maggior ragione, la discrezionalità del legislatore nazionale non può non rimanere integra anche in riferimento all’identificazione dell’eventuale presupposto di imposta e della base imponibile, non competendo all’ordinamento comunitario se non una facoltà di verifica del raggiungimento del complessivo risultato identificato nel predetto art. 10, e cioè l’integrale assolvimento del costo delle discariche con il prezzo applicato per lo smaltimento. In sostanza, se la disciplina contenuta nella direttiva impone il raggiungimento di un complessivo risultato, essa non impone anche le modalità specifiche per il perseguimento del predetto risultato, assicurando che in quest’ambito gli stati membri restino provvisti della propria discrezionalità, e salvo il limite (espressamente imposto dall’interpretazione del predetto art. 10 adottata dalla dianzi menzionata sentenza della Corte di Giustizia) che – ove il costo sia coperto con un tributo posto a carico del gestore della discarica – quest’ultimo debba potersi rivalere effettivamente ed in breve termine sull’ente locale cui è riferibile il comportamento inquinante.
E’ espressione di questo ambito di discrezionalità anche la identificazione del concetto di "rifiuto" da prendere in considerazione ai fini della determinazione del presupposto di imposta, concetto che non ha da essere necessariamente unitario e uniforme nelle diverse branche dell’ordinamento, ben potendo la legislazione ambientale e quella tributaria differenziarsi tra loro nella identificazione della dell’ente da prendere in considerazione ai fini dell’applicazione degli autonomi istituti che sono propri dell’una e dell’altra.
Non resta che concludere che gli obblighi imposti agli stati membri dalla direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, sui rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE (anche volendo prescindere dall’esame del loro grado di determinatezza, che già di per sè ne precluderebbe l’effetto autoapplicativo), non possono costituire un limite – ai fini della determinazione del presupposto di imposta del tributo speciale per il deposito in discarica ex L. n. 549 del 1995 – a che il legislatore italiano identifichi una nozione di "rifiuto" quale quella contenuta nella versione (per ragioni cronologiche) qui applicabile dell’art. 8, comma 1, lett. f bis) del D.Lgs. n. 22 del 1997, e neppure possono costituire un riferimento obbligatorio ai fini della interpretazione della disciplina tributaria qui in esame che risponde a principi e presupposti autonomi.
Deve quindi assicurarsi continuità al principio già insegnato da questa Corte nella sentenza 19145/2010 secondo cui "L’applicabilità alle terre e rocce da scavo del tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (c.d. ecotasse), istituito dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, commi 24 e segg., dipende dalla qualifica di tali materiali quali rifiuti", intendendosi con ciò – certamente – che il rinvio ai fini della qualificazione è fatto alla disciplina definitoria dettata nella specifica materia (quella ambientale), ma con la precisazione che il legislatore nazionale resta comunque libero, ai fini tributali (in ragione dei motivi di politica fiscale che lo determinano), di assegnare o meno a detti materiali la qualifica di rifiuto, ovvero di determinare le condizioni alle quali a detti materiali spetta la predetta qualifica, non sussistendo alcuna limite comunitario che gli imponga di conformarsi ad una nozione data.
Di conseguenza, deve pure disattendersi l’ulteriore passaggio logico prospettato dal Pubblico Ministero nella sua requisitoria, e cioè che si dovrebbe da questa Corte dare prevalenza al principio secondo cui chi invoca un regime differenziato e di favore (e perciò la parte contribuente) ha l’onere di allegare la sussistenza di tutte le condizioni per la sua applicazione, onere, che non potrebbe dirsi assolto con le mere dichiarazioni soggettive dell’interessato, il quale, invece, dovrebbe fornire la prova piena delle ragioni per cui opera il regime differenziato invocato, vuoi in materia di prova delle condizioni per la qualifica di rifiuto; vuoi in materia di prova del grado dell’inquinamento.
Prescindendo per un attimo dalla considerazione della specificità del caso qui in esame (nel quale si applica una disciplina diversa da quella tenuta in considerazione dalla Corte nella sentenza dianzi citata, giacchè la domanda di rimborso determina inversione dell’onus probandi ed altera perciò gli ordinali canoni della materia), ritiene invece questa Corte – in termini generali – che anche per questi aspetti debba essere data continuità ai principi insegnati nella pronuncia dianzi citata, principi che riposano sulla premessa che, sia sull’esistenza del presupposto per la legittimità dell’imposizione sia sulle ragioni di esclusione della deroga al normale regime dei rifiuti, spetta all’amministrazione provare gli elementi di fatto che giustificano l’applicazione del tributo, nel mentre spetta al contribuente fornire la prova relativa ad una causa di esenzione o di esclusione da un determinato tributo, quale è – per esempio – l’effettivo riutilizzo dei materiali secondo un progetto ambientalmente compatibile.
E d’altronde, anche la recente pronuncia della Corte di Giustizia richiamata da ultimo dal Pubblico Ministero (Corte di Giustizia Europea, terza sezione, sentenza 18.12.2007 nella causa C-263/05) – che qui non trova diretta applicazione, perchè dettata in materia di "disposizioni in campo ambientale" e di "di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive" (L. 23 marzo 2001, n. 93, art. 10; L. 21 dicembre 2001, n. 443, art. 1, commi 17 e 19) – è tornata a ribadire quanto di seguito, al punto 44:
"Atteso che la direttiva non suggerisce alcun criterio determinante per individuare la volontà del detentore di disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale, in mancanza di disposizioni comunitarie gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti nelle direttive da essi recepite, purchè ciò non pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario (v. citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 41, nonchè Niselli, punto 34). Infatti, gli Stati membri possono, ad esempio, definire varie categorie di rifiuti, in particolare per facilitare l’organizzazione e il controllo della loro gestione, purchè gli obblighi risultanti dalla direttiva o da altre disposizioni di diritto comunitario relative ai rifiuti in parola siano rispettati e l’eventuale esclusione di determinate categorie dall’ambito di applicazione delle misure adottate per recepire gli obblighi derivanti dalla direttiva si veri fichi in conformità all’art. 2, n. 1, di quest’ultima (v., in tal senso, sentenza 16 dicembre 2004, causa C-62/03, Commissione/Regno Unito, non pubblicata nella Raccolta, punto 12).
Ciò consente di concludere che – a maggior ragione nella materia tributaria, permeata da regole sue proprie in ordine al riparto degli oneri probatori circa gli elementi costitutivi del presupposto di imposta – vi è piena discrezionalità in capo al legislatore nazionale in ordine alla disciplina degli incombenti necessari ai fini della dimostrazione della sussistenza dell’obbligazione tributaria che si genera con il deposito in discarica di materiale astrattamente idoneo alla qualifica di "rifiuto".
7. Conclusioni.
Consegue a quanto si è detto fin qui che la sentenza di appello, che non si è attenuta ai principi ora enunciati, ma ha ritenuto di assoggettare la vicenda qui in esame alla efficacia (interpretativa) della L. n. 306 del 2003, art. 23 deve essere riformata e gli atti devono essere restituiti al medesimo giudice di appello affinchè riesamini il gravame alla luce del diritto antevigente rispetto all’emanazione della predetta disciplina di legge.
Gli ulteriori motivi di impugnazione proposti dalla parte ricorrente (dei quali è difficile indicare il numero esatto, non potendosi intendere l’autonomia dei diversi capi che sono stati articolati in un confuso periodare e con irregolare elencazione) restano assorbiti dall’accoglimento del motivo che precede e non potranno che costituire oggetto delle questioni che sono rimesse alla valutazione del giudice del rinvio, cui competerà pure la liquidazione delle spese della presente fase.
P.Q.M.
la Corte – riconvocata in data 23.5.2012 – accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbiti i successivi. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR Toscana che – in diversa composizione – esaminerà le censure di appello alla luce dei principi contenuti nella presente decisione, regolando anche le spese di lite relative al presente grado.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2012

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