Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 25-01-2013) 11-02-2013, n. 6578 Poteri della Cassazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo

1. P.M., agente di polizia urbana del Comune di Bedizzole, era imputato del reato di cui all’art. 317 c.p. perchè, nella qualità, al fine di omettere la verbalizzazione di una violazione al codice della strada commessa da minore quattordicenne (che circolava su ciclomotore trasportando un coetaneo ed era privo dei documenti) lo costringeva a consegnargli la somma di 50 Euro. Il fatto risale all'(OMISSIS).

Secondo la ricostruzione dei Giudici del merito, nel pomeriggio il minore era stato fermato alla guida di un ciclomotore, trasportando un coetaneo e senza documenti; recuperati i documenti, il minore si recava negli uffici della polizia urbana e nell’occasione il P. "diceva che la sanzione prevista dalla legge era di circa 800 Euro ma si poteva fare un verbale pagando subito 50 o 100 Euro"; riferita la cosa al padre e con lui d’accordo, il minore tornava negli uffici consegnando al vigile (mentre il padre attendeva fuori) una banconota da 50 Euro; la stessa tuttavia veniva contrassegnata prima della consegna, non avendo chiaro i due il contesto della richiesta: P. intascava la banconota e diceva al minore di riferire al genitori di aver perso per strada il verbale.

2. Condannato in primo e secondo grado (GUP Brescia 6.11.2006 e Corte d’appello di Brescia 10.11.2011), con l’applicazione in appello sia della circostanza attenuante ex art. 323 bis c.p. (e la conseguente riduzione della pena principale ed accessoria ad un anno e quattro mesi di reclusione) sia del beneficio della non condanna, a mezzo del difensore il P. ricorre a questa Corte suprema enunciando questi motivi:

– "Erronea applicazione della legge penale e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione" (con riferimento agli artt. 125, 192, art. 533, comma 1 e art. 546 c.p.p.). Secondo il ricorrente, la sentenza d’appello avrebbe "censurabilmente" valorizzato solo le dichiarazioni del minore, non ancora quindicenne, trascurando quelle dell’imputato e dei testi B. e L. (su pregresse condotte di guida irregolari del minore), il mancato rinvenimento della banconota indosso al P. quando questi era stato fatto tornare presso l’ufficio municipale dopo la denuncia di padre e figlio ai carabinieri (sul punto la motivazione d’appello apparendo "non condivisibile" e "non convincente", in relazione ai tempi della vicenda ed alla presenza di un collega, e "francamente carente" in relazione all’interlocuzione con il collega C. nelle varie fasi), nonchè le conseguenze del possibile "fraintendimento incrociato" tra il giovane ed il padre;

– erronea applicazione degli artt. 317 e 319 c.p., art. 546 c.p.p., comma 1, lett. E e mancanza di motivazione. Il ricorrente riconosce che il motivo è nuovo, non essendo stata la questione devoluta al Giudice d’appello, ma, richiamando le conclusioni presentate in udienza d’appello dal procuratore generale (per la riqualificazione come corruzione propria antecedente e la conseguente prescrizione del reato), deduce l’ammissibilità permanente del tema della qualificazione giuridica del fatto. Dopo aver riportato il testo della denuncia, il ricorrente deduce che nella fattispecie l’alternativa offerta dal pubblico ufficiale, priva di contenuti autoritativi o minatori, avrebbe esulato da alcuna costrizione o induzione, non incidendo sulla libera determinazione dell’interlocutore, la minore età essendo irrilevante per il concorso del padre nella decisione di corrispondere i 50 Euro. La stessa decisione di segnare la banconota sarebbe indice non della coartazione subita ma della riferita perplessità per il contenuto contorto della prospettazione. In definitiva nel caso di specie il rapporto sarebbe sussumibile in uno schema sinallagmatico, di libero accordo tra volontà conducenti ad ottenere una reciproca illecita utilità.

Motivi della decisione

3. Il primo motivo, relativo al punto della decisione afferente la responsabilità, è inammissibile perchè diverso da quelli consentiti, risolvendosi in censure di merito, volte ad una preclusa rivalutazione del materiale probatorio, rispetto al pertinente apprezzamento della Corte distrettuale, attento al puntuale confronto con le censure d’appello e sorretto da motivazione tutt’altro che apparente, inoltre non palesemente incongrua ai dati probatori richiamati e immune dai vizi di manifesta illogicità e contraddittorietà (in definitiva neppure specificamente dedotti dal ricorrente, come del resto già ‘anticipatò dall’enunciazione dei motivi, del tutto generica e alternativa, pertanto incompatibile con l’onere di specificità del motivo : Sez. 6, sent. 800/2012; Sez. 6, sent. 32227/2010).

In particolare, è costante insegnamento di questa Corte suprema (per tutte, Sez. 6, sent. 49745/2012) che il controllo di logicità della motivazione che sorregge la decisione di merito può essere eseguito solo in riferimento ai tassativi vizi che esclusivamente rilevano in questo giudizio: la assenza di motivazione (anche nella forma della mera apparenza grafica o dell’apparenza), la "manifesta" illogicità e la contraddittorietà, così come previsto dall’art. 606 c.p.p., lett. E, comma 1 … Da qui l’irrilevanza, esemplificativamente, sia della mera "illogicità" della motivazione (perchè strutturalmente diversa dalla "manifesta illogicità", vizio distinto dal precedente e unico rilevante: infatti, l’unica illogicità della motivazione censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E) è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi": S.U. Sent. 47289 del 24.09 -10.12.2003, Petrella), sia delle censure che, come nel ricorso in esame, attribuiscono alla motivazione di essere incongrua, non plausibile, non persuasiva, non esaustiva, carente, insufficiente o insoddisfacente, non condivisibile. Si tratta di vizi dell’argomentazione che, quand’anche effettivamente presenti nel testo del provvedimento impugnato, sono irrilevanti nel giudizio di legittimità, caratterizzandosi invece per un assorbente contenuto di merito: a ben vedere, infatti, si tratta di vizi che tutti richiedono – per l’adeguato pertinente loro apprezzamento – il necessario confronto con l’intero materiale probatorio, del tutto precluso al giudice di legittimità.

4. Il secondo motivo è infondato, nei termini che seguono.

La Corte d’appello, investita solo di motivo in fatto che contestava la sufficienza probatoria nella ricostruzione della vicenda negando credibilità alla stessa dazione della banconota, aveva espressamente, ancorchè succintamente (p. 7), confermato l’adeguatezza della qualificazione giuridica in termini di concussione (per costrizione, come inequivocamente specificato nel capo di imputazione).

Il ricorrente con questo motivo (nuovo rispetto a quelli enunciati in grado di appello) ha posto la questione della qualificazione giuridica della vicenda, sollecitandone la lettura quale corruzione ai sensi dell’art. 319 c.p., argomentando della sussistenza di un rapporto sinallagmatico.

Se è vero che la lettura giuridica adeguata del fatto contestato è punto della decisione che può essere introdotto anche per la prima volta nel giudizio di legittimità, tuttavia tale tardiva deduzione, pur in sè ammissibile, soffre inevitabilmente dei limiti di cognizione della Corte suprema, che non consentono alcun accesso e confronto con il contenuto probatorio degli atti e con la sua valutazione di merito. Quando infatti il tema della riqualificazione giuridica è introdotto come motivo nuovo, il fatto storico con cui è possibile il confronto deve necessariamente essere quello ricostruito dai giudici dei merito, insuscettibile di letture alternative del fatto.

Nel caso di specie, la sollecitazione difensiva alla derubricazione poggia su aspetti in fatto (il rapporto paritario tra figlio minorenne e padre da un lato, pubblico ufficiale dall’altro; assenza di toni o contenuti autoritativi nella richiesta del pubblico ufficiale; assenza di condotte volte a coartare la volontà altrui) non dedotti alla Corte d’appello che anzi, come esposto In precedenza, ha affermato la sussistenza di una "macroscopica disparità". Nè la ricostruzione difensiva (significativamente accompagnata da espressioni possibilistè: "non pare rilevatore…", "appare ininfluente", "non pare rivelatore") si impone comunque con quell’immediata evidenza che non supera ogni dissenso anche solo di tipo logico.

Basti in proposito la constatazione che l’importo indicato (800 Euro) per una violazione (quella dell’art. 115 C.d.S., comma 4) che nel suo massimo prevede somma di gran lunga inferiore (e nel caso di usuale tempestivo pagamento somma di ancor più limitata entità), l’essere l’interlocutore immediato appena quattordicenne, l’essersi il pubblico ufficiale intascato la somma di cinquanta Euro "accontentandosene" subito e dando suggerimenti al ragazzo perchè nascondesse la cosa ai genitori, costituiscono aspetti in fatto riferiti dai Giudici del merito che, per sè, sono logicamente congrui alla ricostruzione giudicata dalla Corte d’appello in termini di Costrizione. Si tratta infatti di prospettazione di una minaccia ingiusta, ricostruita dai Giudici del merito come idonea a costituire una vis compulsiva, che anche ai sensi delle modifiche apportate dalla recente legge n. 190/2012 configura la condotta della costrizione.

Consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2013


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