Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 28-01-2013) 06-05-2013, n. 19313 Dibattimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo

Con la sentenza emessa in data 8 novembre 2011 la Corte di Assise d’appello di Bari, in riforma della sentenza della locale Corte d’Assise in data 22 aprile 2010, ha assolto per non aver commesso il fatto gli appellanti M.G. e F.A. dai delitti di omicidio aggravato di S.M. e di tentato omicidio di D.S.D., oltre che dai connessi delitti in materia di armi, tutti aggravati ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991, contestati come commessi in (OMISSIS).

Il M. ed il F. erano stati dichiarati dal primo giudice responsabili dei delitti loro ascritti, unificati ai sensi dell’art. 81 cpv. c.p., con esclusione della premeditazione, e condannati alla pena di anni 30 di reclusione ciascuno, applicato, quanto al M., recidivo aggravato ex art. 99 cpv. c.p., il disposto dell’art. 78 c.p..

In breve, era avvenuto che verso le ore 10,27 del (OMISSIS), mentre si trovavano fermi a bordo di un ciclomotore lungo la (OMISSIS), nei pressi del (OMISSIS), S. M. e D.S.D., legati al clan malavitoso Stramaglia, erano stati attinti da più colpi di arma da fuoco esplosi da giovani che, a bordo di ciclomotori, erano passati loro vicino.

MA.Ro., coadiuvante nella gestione del citato Bar, avvertiti gli spari e vista la scena attraverso una finestra del locale, si era recata dai carabinieri per rendere sommarie informazioni testimoniali che indicavano come responsabili dell’agguato il F. ed il M., appartenenti all’avverso clan Di Cosola, persone che la donna avrebbe riconosciuto senza ombra di dubbio.

Nel successivo sviluppo del procedimento – che aveva visto il progressivo arretramento della posizione della teste, culminato con la sua decisa ritrattazione dibattimentale – erano state disposte intercettazioni delle conversazioni fra i prevenuti e le persone ammesse ai colloqui nella casa circondariale dove si trovavano ristretti, nonchè, nel contesto di diverso procedimento a carico di ignoti per intralcio alla giustizia e violenza privata, di conversazioni fra la MA. ed il convivente P.V. mentre erano in attesa negli uffici giudiziari di Bari, dove erano stati convocati. Inoltre, erano state valutate le propalazioni, relative alla vicenda oggetto del procedimento, di due collaboratori di giustizia: R.N. e C.M.. Nei riguardi della sentenza assolutoria ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Bari deducendo violazione di legge, quanto alle norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, con riferimento al testo del provvedimento ed ad atti del processo. Lamenta che il giudice d’appello che aveva ritenuto determinante la valutazione della testimonianza di MA.Ro., non avesse poi considerato come alla condanna dei prevenuti il primo giudice fosse pervenuto a seguito di una completa valutazione di tutti gli elementi emergenti dagli atti, compresa la testimonianza MA., ma anche gli esiti delle intercettazioni e le dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Censura la visione atomistica e spezzata delle emergenze processuali da parte del giudice d’appello, che avrebbe trascurato la necessità che gli elementi di prova fossero valutati con una visione unitaria, nel combinarsi dei diversi contributi delle fonti acquisite nel corso del processo. Rileva che il giudice d’appello incongruamente, sia per le intercettazioni, che per le dichiarazioni testimoniali, da un lato prospetti forti dubbi sulla loro utilizzabilità e dall’altro ne valuti i risultati nel merito, senza chiarire se il suo convincimento si fondi su ritenute illegittimità (per il mancato rispetto delle norme sulle intercettazioni e sull’acquisizione delle dichiarazioni) o su insufficienze dimostrative sostanziali.

Con riferimento alle dichiarazioni della MA., il Procuratore Generale territoriale lamenta la violazione dell’art. 500 c.p.p., comma 4 da parte del giudice d’appello, il quale aveva ritenuto inutilizzabile il verbale di s.i.t. del 10 agosto 2008 della MA. – acquisito dal primo giudice ai sensi della norma sopra citata – sostenendo che la ritrattazione operata in dibattimento dalla teste sarebbe stata solo la risultante della commissione di un delitto di falsa testimonianza e non l’effetto di violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro.

La falsa testimonianza, frutto di una condotta volontaria del teste, sarebbe al di fuori dalla previsione della norma applicata in concreto; situazione della quale la Corte di Assise d’appello aveva tratto conferma dall’avvenuta audizione come teste assistita della donna, quando era stata nuovamente sentita ex art. 507 c.p.p..

Sostiene il ricorrente che, lungi dal ricorrere un’incompatibilità fra le due situazioni, sarebbe proprio l’art. 500 c.p.p., comma 4 a trovare il suo presupposto applicativo proprio nella deposizione falsa.

Critica poi l’affermazione del giudice d’appello circa la necessità di una relazione causale immediata tra l’intimidazione subita dal teste ed il suo comportamento in udienza, in quanto, secondo la giurisprudenza, l’art. 500 c.p.p., comma 4 non prevederebbe la necessità di una relazione immediata tra l’intimidazione subita dal teste ed il di lui contegno processuale. Quanto alla MA. sarebbero stati da valutare, oltre ad elementi emergenti dalle intercettazioni, i suoi iniziali riferimenti ai timori di ritorsione ed alla circostanza, confermata anche in dibattimento, di aver ricevuto una telefonata da parte della convivente del figlio ST.Mi., con cui veniva avvertita di non tornare a casa perchè era stata udita l’esplosione di alcuni colpi di arma da fuoco all’esterno, che, secondo il ricorrente, erroneamente la Corte territoriale avrebbe valutato non tanto come di intimidazione per la donna, non presente in casa, quanto per il di lei figlio, ivi ristretto agli arresti domiciliari.

Secondo il ricorrente, la Corte non avrebbe considerato che l’assenza della donna da quella casa era solo occasionale, tanto che la nuora aveva ritenuto di avvisare proprio lei di non rientrare avendo ben compreso come le esplosioni volessero dimostrare alla MA. quanto concreta dovesse valutare l’intimidazione che si connetteva alle sue precedenti dichiarazioni. Il ricorso critica poi i criteri di valutazione adottati al proposito dal giudice d’appello, il quale avrebbe preteso la prova oltre ogni ragionevole dubbio dell’intimidazione subita dalla testimone, laddove per elementi concreti dovrebbero intendersi, secondo costante giurisprudenza, non le prove dell’inquinamento probatorio, ma ogni circostanza, anche quella eventualmente emersa dagli atti e non nel corso del dibattimento, sintomatica dell’intimidazione, secondo uno standard probatorio diverso quello della prova necessaria per la condanna in dibattimento. Ritenendo che fra gli elementi che avrebbero dimostrato l’inquinamento probatorio dovessero annoverarsi le intercettazioni effettuate, sia quella delle conversazioni tra la MA. ed il P. negli uffici giudiziali, sia quella delle conversazioni degli imputati detenuti con i parenti nella sala colloqui della Casa circondariale di Bari, il ricorrente censura le argomentazioni della sentenza impugnata che avevano ritenuto l’inutilizzabilità dei risultati di quelle captazioni.

Erroneamente il giudice d’appello avrebbe escluso la legittimità delle intercettazioni delle conversazioni fra MA. e P. sul rilievo che sarebbero state disposte in procedimento per reati che non le avrebbero consentite, e ciò, ritenendo che nel decreto di urgenza del Pubblico Ministero che le aveva disposte mancasse la motivazione sulla sussistenza dell’aggravante ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7, conv. in L. n. 203 del 1991, che avrebbe legittimato l’intercettazione in relazione agli ipotizzati reati ex artt. 377 e 610 c.p. in danno della MA..

Per il ricorrente sarebbe illogica la distinzione operata dalla Corte di merito di secondo grado tra il processo madre per l’omicidio aggravato dalla L. n. 203 del 1991, art. 7, ed il processo a carico di ignoti per il reato di cui agli artt. 377 e 610 c.p. in danno dalla MA., laddove la Corte di Assise d’appello aveva ritenuto che la ritrattazione a cui avrebbe puntato il soggetto agente con i comportamenti oggetto di indagine sarebbe stata volta a procurare vantaggio ai soli imputati e non al sodalizio mafioso in quanto tale.

Si contesta pure il metodo del giudice d’appello che avrebbe erroneamente ricercato la prova, che i delitti di minaccia e subornazione del testimone fossero commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività dell’associazione, laddove ai sensi dell’art. 267 c.p.p. occorrerebbe la sola presenza di gravi indizi di reato, valutati ex ante al momento del provvedimento d’urgenza, che non potrebbe essere censurato per aver specificato quali fossero i concreti e gravi indizi per ritenere che i reati ipotizzati in danno della MA. fossero finalizzati ad ottenere la sua ritrattazione, commessi avvalendosi del metodo mafioso e nel perseguimento delle finalità del sodalizio mafioso.

Ancora, il ricorrente denuncia la manifesta illogicità della motivazione quando aveva rilevato che l’esistenza dell’aggravante speciale doveva considerarsi dubbia, con ciò avendo ammesso lo stesso giudice d’appello che ricorrevano anche elementi in senso positivo che ne avrebbero attestata l’esistenza a fronte di altri in senso negativo.

Censura il ricorrente la sentenza del giudice di appello dove aveva ritenuto apparente la motivazione del decreto di urgenza del P.M. in data 29 agosto 2008 che autorizzava sia la captazione che la registrazione per mezzo di strumenti in dotazione alla polizia giudiziaria delle conversazioni all’interno della sala colloqui della Casa circondariale di Bari, soprattutto perchè il giudice d’appello avrebbe richiesto, in contrasto con la costante giurisprudenza sui requisiti minimi della motivazione del decreto d’urgenza, un apparato motivazionale analogo a quello di una sentenza, provvedimento diverso dal decreto richiesto dalla legge, in base alla quale l’obbligo di motivazione sarebbe soddisfatto anche con un’indicazione succinta da cui evincersi l’obiettiva inidoneità delle apparecchiature presenti presso la Procura della Repubblica.

Il P.M. avrebbe congruamente motivato in modo breve che l’inidoneità degli impianti della Procura discendeva dalla circostanza che l’intercettazione doveva svolgersi in carcere e la stessa struttura carceraria rendeva impossibile, per un fatto strutturale, l’allaccio ad una sala posizionata in un luogo distante e, trattandosi di una obiettiva inidoneità, la stessa sarebbe stata lecitamente attestata dal P.M. col richiamo integrale alla nota dei C.C. del Reparto Operativo di Bari del 29 agosto 2008, che evidenziava come le operazioni dovessero essere eseguite mediante l’utilizzo di apparecchiature diverse da quelle della Procura per esigenze tecniche, connesse da un lato alla migliore e proficua intelligibilità del segnale, dall’altro all’impossibilità di far ricorso in tempi brevi ai gestori della linea telefonica che potessero convenire la trasmissione in altra sede. Rilevata la concretezza dei diversi elementi valutabili nel procedimento incidentale ex art. 500 c.p.p., comma 4, in contrasto con le conclusioni del giudice d’appello, il ricorrente rimarca la pretesa violazione di legge e il vizio di illogicità della motivazione con la quale il giudice era giunto in ogni caso alla conclusione che la teste non avrebbe potuto vedere la scena del delitto. Quanto al contributo dei collaboratori di giustizia, ad avviso del ricorrente, sarebbe mancata una corretta confutazione da parte della sentenza impugnata, avvenuta sulla base di argomenti motivazionali insufficienti e contraddittori, della valutazione dei collaboratori in ordine, sia alla loro intrinseca veridicità, con riferimento al percorso collaborativo, sia alla loro estrinseca attendibilità.

Proprio dalla sentenza risulterebbe che C. avrebbe avuto personale conoscenza dei fatti per esser stato vittima di un agguato mafioso, diretta causa della successiva azione contro il clan avverso, che aveva portato alla morte di S. ed al ferimento di D.S.; e viene pure evidenziato come proprio il collaboratore avesse fatto ritrovare le armi adoperate per l’esecuzione del delitto, a dimostrazione della sua intraneità al gruppo che aveva consumato l’agguato ed al livello di conoscenza dei fatti.

Viene poi lamentata violazione di legge per non aver ritenuto, il giudice d’appello, legittima ed utilizzabile la dichiarazione dei collaboratori laddove riferivano di una confessione stragiudiziale da loro percepita, in quanto, secondo la giurisprudenza, sarebbe ammissibile la testimonianza indiretta nella quale la fonte primaria sia rappresentata dalle dichiarazioni rese dall’imputato al teste, essendo vietata la deposizione sulle sole dichiarazioni rese nel corso del procedimento, ma non quella sulle dichiarazioni, aventi anche contenuto confessorio, rese al di fuori della specifica sede processuale a soggetti non preposti istituzionalmente a raccogliere in forma tipica le dichiarazioni degli indagati o imputati, con l’unico limite della necessità di riscontri essendo la fonte indiretta un collaboratore di giustizia.

Nè coglierebbe nel segno la motivazione del giudice d’appello laddove aveva escluso che vi fossero idonei riscontri e che avessero carattere individualizzante i pretesi riscontri costituiti dal rinvenimento delle armi, dimenticandosi di motivare sul rinvenimento dell’auto Fiat Punto Van, indicata da entrambi i collaboratori come l’auto a bordo della quale i due imputati la mattina dell’agguato andavano in giro, e abbandonata in una strada nei pressi della villa vicino alla chiesa di (OMISSIS), sulla quale gli imputati avevano lasciato le loro impronte; circostanza che sarebbe per il ricorrente di particolare rilievo perchè il veicolo, oltre che segnalato dai collaboratori sarebbe stato notato da più testimoni oculari come la FE. e la MA.. Non ultimo elemento pretermesso dalla Corte di Assise d’appello, nella valutazione complessiva degli elementi a disposizione, sarebbe quanto riferito dalla testimone FE. circa il fatto di aver udito nell’immediatezza del fatto che la MA. sul luogo del delitto aveva gridato " T. è stato, è stato T.".

Ha depositato memoria la difesa F. con la quale sostiene l’inammissibilità del ricorso del Procuratore Generale territoriale in quanto non individuerebbe correttamente le violazioni di legge denunciate e, quanto ai vizi di motivazione, finirebbe per prospettare in modo non ammissibile nel giudizio di legittimità una motivazione alternativa a fronte di argomentazioni del giudice di merito non censurabili sotto idrofilo logico.

Evidenzia che la motivazione della sentenza impugnata esclude l’attendibilità delle affermazioni della MA. valutandole anche indipendentemente dalla legittimità, negata, della loro acquisizione dibattimentale, e con motivazione esente da vizi logici.

La memoria poi ripropone le argomentazioni della sentenza impugnata sulla genesi spontanea, e derivante da ripensamento autonomo di soggetto inserito in un ambiente malavitoso di cui conosce le dinamiche, delle sue progressive ritrattazioni delle iniziali dichiarazioni ai carabinieri di Triggiano, chiarendo anche come le frasi da lei pronunciate nell’immediatezza del fatto e riferite da testimoni sarebbero state da interpretare in un diverso contesto, che coinvolgeva anche le altre persone presenti al fatto, con ciò assumendo un diverso valore.

Ribadisce le critiche, accolte dalla sentenza del giudice d’appello, sulla legittimità dell’intercettazione nei locali della Procura della Repubblica, per insufficiente motivazione del decreto sul ricorrere dell’aggravante che avrebbe consentito l’intercettazione in relazione a reati che in quanto tali non l’avrebbero permessa; ed anche le valutazioni di illegittimità del decreto autorizzativo delle intercettazioni in carcere con conseguente inutilizzabilità dei relativi esiti, per difetto motivazionale del decreto stesso, a sopperire alla quale non sarebbe stata sufficiente la postuma produzione di elementi di fatto che secondo il prevenuto avrebbero confermato l’insufficienza motivazionale del decreto.

Peraltro il contenuto delle captazioni non avrebbe giustificato, come osservato correttamente dalla Corte di Assise d’appello, l’ipotesi dell’esistenza di pressioni sulla donna perchè ritrattasse nè avrebbero una rilevanza in tal senso le indicazioni sulla ritrattazione come condizione per giungere alla pax mafiosa fra i due clan opposti, che in ogni caso non si sarebbe poi concretizzata.

Nè avrebbero rilevanza le pretese minacce rivolte al figlio detenuto agli arresti domiciliari peraltro riferibili al rinvenimento di bossoli esplosi non di recente quindi non nell’occasione di cui al procedimento e non nei confronti della donna, ma del figlio che inserito in un contesto criminale ben poteva esser oggetto di minacce del tutto autonome.

Riporta poi la memoria il contenuto delle prime dichiarazioni della MA. per dimostrare come le stesse fossero contraddittorie e scarsamente affidabili nella ricostruzione del fatto e nell’individuazione degli sparatori.

Rileva poi come correttamente la Corte di merito abbia ritenuto inattendibili le affermazioni de relato dei collaboratori ripercorrendone le spinte collaborative e gli spunti di inaffidabilità intrinseca ed estrinseca del narrato, peraltro intervenuto quando già erano diffuse le notizie circa l’episodio tragico, nonchè la mancanza di adeguati riscontri, tali non essendo l’incrociarsi delle due dichiarazioni de relato, peraltro presentanti punti di contrasto fra di loro ed essendo state evidenziate smentite al narrato da parte dei soggetti che avrebbero dovuto confermarne la veridicità.

L’insieme delle valutazioni della Corte di Assise d’appello ad avviso del prevenuto è tale da rilevare correttamente come sulla vicenda e sulle specifiche responsabilità l’impianto probatorio non fosse sufficiente a superare quel livello del dubbio ragionevole che si pone come limite e garanzia nel giudizio sulla responsabilità penale.

Motivi della decisione

Ad avviso del Collegio, il ricorso del Procuratore generale è fondato.

Primaria, per l’importanza che ha assunto nel contesto, è la questione relativa alla valutazione dell’utilizzabilità delle affermazioni della MA., considerate dalla sentenza di primo grado sia nel loro contributo di prova del fatto, sia per il loro valore di conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in merito alle notizie da costoro apprese in carcere, mentre sono state ritenute, al contrario, inutilizzabili, e in ogni caso inattendibili, dal giudice d’appello.

La Corte di Assise d’appello, nel ripercorrere il succedersi delle dichiarazioni della MA., durante le indagini preliminari e poi al dibattimento, ha sostenuto essersi trattato di una semplice falsa testimonianza, che avrebbe avuto origine in un timore di ritorsioni tutto proprio della MA., la quale, anche perchè in qualche modo inserita nella realtà malavitosa del paese dove si fronteggiavano due clan rivali, ad uno dei quali appartenevano i suoi figli e le vittime dell’aggressione letale, si sarebbe decisa in via del tutto autonoma ai progressivi aggiustamenti delle proprie dichiarazioni, culminati nella ritrattazione dibattimentale. Si sarebbe trattato di situazione che non avrebbe autorizzato il primo giudice all’applicazione del disposto dell’art. 500 c.p.p., comma 4, tanto più che proprio lo stesso giudice aveva considerato la teste quale indiziata del delitto di falsa testimonianza, trasmettendo poi gli atti al Pubblico Ministero ed assumendo le sue ultime dichiarazioni in udienza con l’assistenza di un difensore. Rileva al proposito il Collegio che l’affermazione della Corte di merito è frutto di erronea interpretazione del disposto dell’art. 500 c.p., comma 4.

Ha chiarito la giurisprudenza (cfr. Sez. 6, n. 18065 del 23/11/2011, Rv. 252531) che in tema di valutazione della testimonianza, il sistema introdotto dal codice di rito separa nettamente la valutazione della testimonianza ai fini della decisione del processo in cui è stata resa e la persecuzione penale del testimone che abbia eventualmente deposto il falso, attribuendo al giudice il solo compito di informare il P.M. della notizia di reato, quando ne ravvisi gli estremi in sede di valutazione complessiva del materiale probatorio raccolto. Ne consegue che la deposizione dibattimentale del teste, pur se falsa, rimane parte integrante del processo in cui è stata resa e costituisce prova ivi utilizzabile e valutabile in relazione all’altro materiale probatorio legittimamente acquisito, anche sulla base del meccanismo disciplinato ai sensi dell’art. 500 c.p.p., comma 4.

La testimonianza falsa quindi, quale autonomo comportamento del testimone, lascia il materiale dichiarativo versato in dibattimento alla piena valutazione del giudice. Perchè poi si possa giungere a derogare al principio della formazione della prova in dibattimento, occorre che il giudice possa legittimamente ritenere, all’esito di un accertamento avente caratteristiche del tutto peculiari, che quelle false dichiarazioni (e la falsità o reticenza nelle dichiarazioni dibattimentali il presupposto oggettivo di applicabilità della norma) siano frutto di intimidazioni o promesse di retribuzione.

Solo la falsa testimonianza soggettivamente immune da interventi esterni è al di fuori del campo di applicazione della norma in questione.

Nè dall’adozione, da parte del giudice di merito di primo grado, di modalità di assunzione di alcune dichiarazioni testimoniali con accresciuta garanzia, atteso il sospetto di falsità, può trarsi legittimamente la conclusione che si debba trattare di testimone le cui dichiarazioni non si possano ritenere condizionate da influenze esterne valutabili ex art. 500 c.p.p., comma 4, come ha fatto erroneamente la Corte di Assise d’appello.

Invero, dalla sentenza impugnata è stata attribuita, in modo congetturale, la decisione di ritrattare al dibattimento ad un’autonoma decisione della MA., per la sua collateralità al mondo malavitoso nel cui ambito si era verificato il fatto, quale ritorsione per un attentato subito da C.M., esponente dell’opposto clan Di Cosola, situazione che, come ha correttamente evidenziato il ricorrente, di per sè non sarebbe tale da escludere si fosse verificata una coartazione subita dalla teste, logicamente probabile proprio per ragioni di contiguità criminale.

La Corte di Assise d’appello non avrebbe quindi potuto legittimamente ritenere che la oggettiva falsità della testimonianza dovesse necessariamente escludere il ricorrere degli estremi di applicabilità dell’art. 500 c.p.p., comma 4, che si sarebbero dovuti valutare secondo i principi elaborati al proposito da consolidata giurisprudenza, condivisa dal Collegio.

Invero, la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito (cfr per tutte Sez. 6, n. 25254 del 24/1/2012, Rv. 252896) che il procedimento incidentale diretto ad accertare gli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità alfine di non deporre o di deporre il falso, deve fondarsi su parametri di ragionevolezza e di persuasività, nel cui ambito può assumere rilievo qualunque elemento sintomatico dell’intimidazione subita dal teste, purchè sia connotato da precisione, obiettività e significatività, secondo uno "standard" probatorio che non può essere rappresentato dal semplice sospetto, ma neppure da una prova "al di là di ogni ragionevole dubbio", richiesta soltanto per il giudizio di condanna.

E’ quindi evidente che, con il limite della concretezza, precisione, significatività ed obiettività, ben può esser valutato ai fini di cui all’art. 500 c.p.p., comma 4 un qualunque elemento, non necessariamente tale da fornir la prova di una intimidazione o subornazione, come parrebbe pretendere la Corte di Assise d’appello, ma quale concreto sintomo di una situazione di fatto da cui si possa ragionevolmente considerare probabile che il contenuto della testimonianza sia stato frutto di condizionamenti esterni;

condizionamenti esterni rilevanti, peraltro, anche se non verificatisi nel corso del dibattimento, ma riscontrabili (cfr. Sez. 3, n. 48140 dell’8/10/2009 Rv.245414) sulla base dei complessivi elementi di fatto presenti in atti, compresi, secondo la Corte, anche i timori di ritorsione emergenti in modo chiaro, soprattutto se collegati ad elementi ulteriori, quali eventuali minacce, più o meno esplicite, ricevute.

Così che non pare corretta l’affermazione della Corte di merito laddove ha escluso dal novero degli elementi valutabili i timori di ritorsione manifestati, in primis, per le pressioni del convivente (sottovalutando i rilievi oggettivi dei carabinieri, ben evidenziati dalla sentenza di primo grado, su di un incontro, il (OMISSIS), di P. con esponenti del clan Di Cosola avvenuto appena prima che, il successivo (OMISSIS), gli imputati in carcere manifestassero grande fiducia di imminente scarcerazione per quanto evidentemente appreso), definiti come ambientali e valutandoli come meri moti dell’animo della teste, senza la considerazione dei successivi elementi sintomatici di una concreta intimidazione nei riguardi della donna, che peraltro non è necessario (Sez. 4, n. 38230 del 19/5/2009. Rv. 245036) fossero direttamente riconducibili agli imputati.

Non è corretto poi, secondo quanto denunciato dal ricorrente, l’appunto della Corte territoriale al Pubblico Ministero che avrebbe dovuto, se avesse avuto fondati timori di possibile inquinamento, procedere con incidente probatorio, con la conseguentemente ritenuta inesistenza degli estremi per la successiva acquisizione delle dichiarazioni ex art. 500 c.p.p., comma 4; infatti la giurisprudenza di questa Corte è chiara nell’evidenziare (Sez. 1, n. 31188 dell’11/6/2004) la reciproca indipendenza fra le acquisizioni dell’incidente probatorio e l’applicazione dell’art. 500 c.p.p., comma 4 e, più puntualmente in relazione al caso di specie, (Sez. 1, n. 2844 del 21 novembre 2012 Rv. 254191) l’inesistenza di una preclusione all’utilizzo delle dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari ex art. 500 c.p.p., comma 4 per la parte che avrebbe potuto chiedere l’incidente probatorio e non l’aveva fatto.

Non appare poi adeguatamente motivata la valutazione che la Corte di merito ha dato dell’episodio di minacce verificatosi con l’esplosione di colpi di arma da fuoco al di fuori dell’abitazione di campagna della MA., dove si trovava ristretto agli arresti domiciliari il di lei figlio, ST.Do..

La Corte territoriale ha ritenuto che gli spari fossero unicamente diretti ad intimidire il giovane, membro apicale dell’omonimo clan malavitoso e non la madre, non ponendosi tuttavia il problema di dover spiegare come mai la nuora G., convivente dell’altro fratello Mi., potesse aver sentito la necessità di avvisare immediatamente di non rientrare a casa proprio la teste, assente solo occasionalmente.

Poco approfondita pare l’analisi della Corte di Assise d’appello sugli episodi degli spari, in correlazione al rinvenimento dei bossoli da parte dei carabinieri; invero, dalla sentenza di primo grado appaiono alcuni chiari riferimenti a circostanze di fatto, il cui esame è precluso a questa Corte, ma che avrebbero dovuto indurre il giudice d’appello ad un’analisi meno frettolosa di quegli episodi.

Infatti si sarebbe, in primo luogo, dovuto considerare che dai riferimenti del primo giudice si sarebbe potuti risalire alla data della telefonata di allarme alla MA., al fine di inquadrarla nel contesto temporale dei diversi rivolgimenti e contorcimenti delle dichiarazioni orali e scritte della medesima.

Al proposito, la Corte di merito non si è avveduta che dalla sentenza di primo grado risultava che alla sparatoria si era fatto riferimento in un colloquio carcerario intercettato il (OMISSIS), così che il fatto sarebbe ben distante dal momento del casuale rinvenimento, il (OMISSIS), da parte dei carabinieri intenti al controllo del detenuto al domicilio, di quei bossoli che la Corte di merito ha considerato vecchi, e quindi non rapportabili alla sparatoria di cui sopra, con ciò dimenticando sia di valutare lo stacco temporale, che sarebbe stato da esaminare più attentamente prima di frettolose conclusioni, sia di considerare se non si potesse trattare di ulteriore autonomo gesto dimostrativo, minaccioso, per rafforzare la pressione in atto.

In questa sede non sono autorizzate conclusioni di merito, ma il giudice d’appello avrebbe dovuto cercare di approfondire l’esame di ogni elemento a disposizione, per considerare se si fosse o meno davanti a circostanze concrete, sintomatiche, se valutate insieme a tutte le altre circostanze emerse, di una condizione di timore della donna derivante da azioni esterne, che avrebbe inciso sulla sua decisione di ritrattare le primitive dichiarazioni accusatorie.

Nè pare al Collegio che più corretta sia stata la valutazione delle risultanze delle intercettazioni telefoniche disposte sia nel presente procedimento, sia in quello collaterale iniziato dal Pubblico Ministero contro ignoti per i delitti di cui agli artt. 377 e 610 c.p., aggravati ex L. n. 203 del 1991, art. 7.

Si tratta delle intercettazioni delle conversazioni di M. G. e F.A. con i parenti nella sala colloqui della Casa circondariale di Bari dove erano ristretti; nonchè della registrazione audio-video delle conversazioni della MA. e del convivente P.V. quando si trovavano in sala di attesa perchè convocati dall’Autorità giudiziaria. La Corte di merito ha ritenuto l’inutilizzabilità delle prime per la ritenuta illegittimità del decreto d’urgenza considerato insufficientemente motivato circa le ragioni che avrebbero autorizzato lì l’utilizzo di apparati in dotazione alla polizia giudiziaria, al posto di quelli esistenti presso la Procura che disponeva l’operazione, e quella delle seconde per violazione dell’art. 266 c.p.p., lett. a), ritenendo dovesse escludersi l’applicabilità dell’aggravante speciale, il cui ricorrere avrebbe reso legittimo il provvedimento autorizzativo dell’intercettazione in merito ai delitti per i quali si procedeva.

Iniziando da queste ultime, rileva il Collegio l’inadeguatezza di una motivazione che, nel ritenere che i fatti delittuosi ipotizzati nella nuova indagine del Pubblico Ministero fossero volti, in un certo senso privatamente, a favorire i soggetti implicati nell’indagine principale in quanto tali, ha voluto incomprensibilmente considerare distinti i due procedimenti.

Ha dimenticato la Corte territoriale che i delitti di cui al secondo procedimento contro ignoti erano strettamente collegati alla vicenda del processo principale, sull’agguato teso a due esponenti di un clan malavitoso, nell’ambito di una guerra per la supremazia nella zona fra due consorterie, una delle quali aveva appena subito l’aggressione ad un suo esponente e in tal modo si vendicava per dimostrare in ogni caso la propria forza e capacità di reazione.

Ha quindi dimenticato il giudice d’appello che i delitti di subornazione e violenza privata ben potevano essere ipotizzati in fase d’indagine, a livello indiziario, come funzionali alla realizzazione degli interessi della consorteria, di veder compiuta la vendetta e riaffermata la propria potenza, capacità di reazione e di controllo del territorio, senza che contrarie voci testimoniali potessero rompere quell’omertà su cui si fonda buona parte del potere malavitoso-mafioso e consentissero di individuare e assicurare alla giustizia gli autori del fatto omicidiario.

Nè si deve dimenticare come la Corte di merito abbia voluto attribuire un valore di inutilizzabile elemento probatorio alla presenza in atti, al momento dell’emissione del decreto di intercettazione, di un’annotazione di servizio dell’appuntato ma., in cui si riferiva di un particolare atteggiamento e delle affermazioni di timore di una piangente MA. la quale, alla presenza dell’u.p.g., giustificava la propria intenzione di ritrattare con l’essersi verificati nei suoi riguardi interventi esterni. Non ha considerato la Corte che l’annotazione in questione non aveva e non poteva avere valore di inutilizzabile elemento probatorio, essendosi solo trattato di un’indicazione a valenza indiziaria, rilevante non per il contenuto dichiarativo, ma per il suo contenuto di resoconto di immediate percezioni dell’operante, del quale, nella fase procedimentale volta alla decisione sull’intercettazione, il Pubblico Ministero avrebbe potuto legittimamente tener conto (cfr. Sez. 5, n. 33042 del 6/7/2007, Rv.

237576), ed a cui la Corte indebitamente ha attribuito una valenza che non aveva, e che ha finito per eliderne l’efficacia indiziaria.

Si tratta, in definitiva – anche nel caso della valutazione da parte del giudice d’appello del decreto di intercettazione nel procedimento collaterale, che specificava quali fossero i concreti e gravi indizi per ritenere che i reati commessi in danno della MA. per ottenerne la ritrattazione fossero realizzati avvalendosi del metodo mafioso e nel perseguimento delle finalità del sodalizio mafioso – di una manifestazione di quell’atomizzazione della valutazione delle emergenze processuali, che appare caratteristica del provvedimento impugnato, il quale così finisce per perdere di vista la complessità della vicenda, comprensibile solo se esaminata con un approccio che non interrompa le connessioni evidenti fra le diverse parti della stessa. Quanto poi alle intercettazioni ambientali nella sala colloqui della Casa circondariale dove erano ristretti F. e M., osserva il Collegio che appare evidente come il giudice d’appello abbia sottoposto la motivazione del decreto d’urgenza ad un complesso esame per dedurne una pretesa insufficienza di giustificazione, conseguente alla considerata erronea valutazione delle possibilità tecniche di esecuzione delle intercettazioni in questione con i mezzi della Procura, ma non certo una mancanza di motivazione, laddove è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che (cfr. Sez. 1, n. 29188 del 29/3/2011) solo la mancanza – tale dovendosi intendere anche la mera apparenza o l’assoluta incongruità – della motivazione dei decreti che autorizzano o prorogano le operazioni di intercettazioni comporta inutilizzabilità dei risultati delle operazioni captative.

Non ha considerato, la Corte di Assise d’appello, che il lungo percorso interpretativo, con oscillazioni giurisprudenziali e plurimi interventi delle S.U., circa i limiti in cui si possa considerare esistente la motivazione richiesta dalla norma, ha trovato una sua conclusiva perimetrazione con la sentenza delle Sezioni Unite, n. 30347 del 12/7/2007, Rv. 236755, ric: Aguneche e altri) secondo la quale dalla motivazione del decreto del Pubblico Ministero, reso ai sensi dell’art. 268 c.p.p., comma 3 occorre che – quali che siano le espressioni lessicali usate, che possono anche essere estremamente concise, come nel caso in cui si dia atto della indisponibilità degli impianti – si possa dedurre l’iter cognitivo e valutativo seguito… e se ne possano conoscere i risultati che siano conformi alle prescrizioni di legge" e che "è l’esistenza di una obiettiva situazione di insufficienza o di inidoneità che deve emergere dalla motivazione del decreto e non la sola valutazione conclusiva operata in proposito dal pubblico ministero", così che il provvedimento deve indicare i dati materiali che diano conto della conclusione assunta dall’autorità procedente. Nel caso di specie, il giudice d’appello non ha considerato, innanzitutto, che il decreto autorizzativo faceva riferimento, non tanto alla impossibilità di captazione, quanto alla impossibilità tecnica di registrazione degli esiti della captazione presso la Procura della Repubblica, così che le osservazioni della Corte di merito sulla giurisprudenza in tema di remotizzazione della registrazione non hanno, come correttamente rilevato dal ricorrente, particolare rilievo; inoltre, non ha considerato che, sia pure sinteticamente, il decreto del Pubblico Ministero aveva avuto riguardo alle condizioni della Casa circondariale ed alla sua struttura (con un riferimento del tutto legittimo alle circostanze tecniche evidenziate dalla polizia giudiziaria nella richiesta di intercettazione) ed al tipo di attrezzatura da utilizzarsi, così che nel provvedimento in questione non era esplicitata solo la conclusione valutativa del Pubblico Ministero sull’impossibilità di registrazione, ma anche, seppure in sintesi, la somma dei dati di fatto che avevano portato il magistrato a ritenere l’inidoneità delle apparecchiature esistenti presso la Procura della Repubblica a soddisfare l’esigenza di captare conversazioni potenzialmente determinanti in un’indagine per omicidio, maturato in ambiente di malavita organizzata di stampo mafioso.

Nè è possibile, come ha fatto il giudice d’appello, vedere nella successiva produzione del Pubblico Ministero l’integrazione di una motivazione implicitamente ammessa come carente, posto che il provvedimento, nella sua sinteticità e nei suoi riferimenti, era del tutto sufficiente; si era quindi trattato unicamente di un contributo esplicativo prodotto da una parte in vista della decisione del giudice sull’eccezione difensiva.

In definitiva, la Corte di Assise d’appello, quanto agli estremi di applicabilità del disposto dell’art. 500 c.p.p., comma 4, non ha considerato la complessiva situazione della MA., non esaminando in modo collegato l’una all’altra le emergenze processuali, relative ai timori da lei progressivamente manifestati, con ciò perdendone di vista la possibile complessiva significatività – da valutarsi secondo i principi sopra evidenziati con riferimento al quantum necessario – a costituire, un quadro preciso di sintomi puntuali di un’interferenza esterna sulla genuinità della posizione processuale della testimone, in quel contesto, fatto della conoscenza dell’iniziale collaborazione della teste da parte dei prevenuti e del loro gruppo di riferimento, dell’esistenza di azioni minacciose più dirette, quali gli spari e il rinvenimento dei bossoli, nonchè di una progressiva pressione indotta anche sulla famiglia, non ultima apparendo la circostanza, riportata dal primo giudice nell’esame delle intercettazioni, di un progressivo allontanamento dei famigliari dalla zona, anche con la cessione delle diverse attività economiche cui attendevano nel periodo precedente i fatti di causa.

A tanto dovrà provvedere il giudice del rinvio, con rinnovata valutazione di tutte le circostanze risultanti dagli atti, tenuto anche conto della rilevata erroneità del giudizio di inutilizzabilità delle diverse intercettazioni.

Il rinnovato esame del merito da parte del giudice di rinvio, una volta risolta la questione dell’utilizzabilità delle prime dichiarazioni della MA., dovrà anche considerare, se del caso, l’incidenza, in un esame complessivo delle emergenze processuali, del valore di una serie di elementi il cui rilievo probatorio non è stato ritenuto significativo dal giudice d’appello, e in particolare:

– la riscontrata presenza dei prevenuti, in un momento di poco precedente l’agguato, proprio nella zona, mentre erano a bordo di un veicolo dalle caratteristiche particolari e sicuramente privo di targhe, poi ritrovato dalla polizia giudiziaria nel luogo indicato dal collaboratore R. come quello dove, secondo quel che aveva appreso, i due l’avevano abbandonato dopo i primi tentativi di trovare la vittima designata per la vendetta e pacificamente da costoro utilizzato (secondo gli accertamenti dattiloscopici), posto che essi erano stati visti e riconosciuti nel loro passaggio lungo la via del successivo agguato proprio dalla MA., non potendosi trascurare la ricaduta di un tale elemento sull’attendibilità del successivo riconoscimento, pur nella concitata fase dell’azione;

– i particolari rilievi della scena del crimine, di cui ha dato diffusamente conto il primo giudice, anche nell’affrontare la questione dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni della testimone sulla dinamica dei fatti;

– le propalazioni dei collaboratori di giustizia uno dei quali, il C., era proprio la persona che era stata vittima di un attentato del quale l’omicidio per cui si procede sarebbe stata l’immediata risposta del clan d’appartenenza.

Al proposito, la Corte di merito ha svalutato la portata delle dichiarazioni dei collaboratori, affermando che costoro avevano ricevuto in carcere le dichiarazioni confessorie di entrambi i prevenuti, R. da F. e C. da M., ma che le loro dichiarazioni de relato da valutarsi con particolare prudenza non avrebbero avuto riscontri esterni individualizzanti tali da garantirne l’attendibilità.

Rileva il Collegio che – a parte l’ovvia considerazione che la ritenuta inutilizzabilità delle dichiarazioni della MA. aveva finito per togliere uno dei principali ed esterni riscontri all’attendibilità del racconto che i collaboratori avevano ricevuto direttamente dagli imputati, i quali avevano ammesso a persone inserite nel loro clan di riferimento la propria partecipazione all’azione omicida, così che la possibile diversa valutazione delle dichiarazioni MA. non può che influire sulla valutazione complessiva delle predette propalazioni – le dichiarazioni dei collaboratori sono state considerate come smentite dalle affermazioni di soggetti quali G. e P. (il secondo dei quali riconosciuto dalla MA. come uno dei giovani che, anche durante il preliminare passaggio davanti al suo bar, seguiva in ciclomotore la Fiat Punto Van senza targhe di cui s’è detto sopra) le cui dichiarazioni si sarebbero dovute valutare con grande prudenza, considerando la peculiare posizione in cui costoro si trovavano, nei confronti di un’azione criminale nella quale convergenti, autonome dichiarazioni dei due imputati a due collaboratori di giustizia, fatte in circostanze diverse, li avevano in ogni caso coinvolti. Nè la Corte di merito ha considerato come risulti dalla sentenza di primo grado che proprio il C. abbia potuto recuperare le armi usate per l’agguato (come tali individuate per i riscontri balistici sui proiettili utilizzati per i colpi letali), non certo in base ad una propria diretta conoscenza, essendosi trovato al momento del fatto ricoverato in ospedale, ma necessariamente secondo indicazioni di una qualche persona che aveva precisa nozione dell’azione criminosa e della fine che avevano fatto gli strumenti utilizzati, persone che il collaboratore indica in G. e P., le cui dichiarazioni, che non confermerebbero il narrato del C., non potrebbero quindi esser considerate come adamantine smentite dei racconti del collaboratore, ed anche delle confessioni da quello ricevute, ma come affermazioni da valutare nelle loro precise proporzioni dal giudice di merito.

Occorre, in definitiva, che venga sottoposta ad un nuovo giudizio di appello la valutazione del compendio probatorio, affinchè l’intero quadro risultante dal dibattimento sia esaminato nel combinarsi di tutti gli elementi a disposizione, si tratti delle fonti dichiarative, comprese quelle dei collaboratori di giustizia, o delle varie emergenze oggettive.

P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Assise d’appello di Bari per nuovo esame.

Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2013


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