Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 28-01-2013) 12-04-2013, n. 17036

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza emessa in data 25 maggio 2010 dal locale Tribunale, appellata da S.L., dichiarato responsabile dei delitti di ingiurie e tentata violenza privata continuata, commessi in danno di T.C., il (OMISSIS).

Propone ricorso per cassazione l’imputato sviluppando tre motivi.

Con il primo deduce vizio di motivazione sulla responsabilità, che sarebbe stata affermata in base ad una valutazione dell’attendibilità della persona offesa non adeguatamente motivata, nè sotto il profilo dall’attendibilità intrinseca della T., nè della validità dei pretesi riscontri, che il ricorrente ritiene insufficienti, inconferenti e valutati erroneamente dalla Corte di merito.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione sul ricorrere del tentativo di violenza privata, per l’inidoneità delle espressioni utilizzate a prefigurare alla donna un male ingiusto, con riferimento al filmato di cui le aveva anticipato dei fotogrammi per posta elettronica, perchè la T. aveva rilasciato una liberatoria che gli avrebbe consentito l’utilizzo di quel video in sede pubblica e privata, a dimostrazione che lei non aveva ritenuto di aver qualcosa da temere dalla sua diffusione.

In ogni caso, mancherebbe la direzione della minaccia ad ottenere un riavvicinamento con la donna, proprio perchè nelle comunicazioni con la stessa aveva usato toni, vendicativi, che non la avrebbero certo potuta convincere a riallacciare i rapporti fra loro, con la conseguenza che i giudici del merito avrebbero dovuto ravvisare nel suo sfogo verbale una mera ipotesi di minaccia.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge per la mancata applicazione del disposto dell’art. 599 c.p..

Dal tenore di un suo sms, proprio quello oggetto dell’imputazione sub 2) in cui sosteneva di sentirsi trattato "come una bestia", si sarebbe dovuto dedurre che il comportamento della destinataria era stato offensivo e in ogni caso provocatorio.

La p.c T. ha depositato memoria con la quale chiede dichiararsi l’inammissibilità del ricorso dell’imputato.

Il ricorso non può essere accolto.

Il primo motivo è infondato in quanto non considera che i diversi elementi evidenziati dalla Corte d’appello erano stati indicati, non tanto come costituenti di per sè prova dei fatti di causa, quanto piuttosto come dimostrativi dell’attendibilità della persona offesa.

Il ricorrente, nell’attestare un invio di propri sms, lamenta la mancata considerazione del loro tenore ed il fatto che il flusso di messaggi sarebbe stato anche in senso opposto; si tratta invero di rilievi non decisivi laddove appare invece evidente che la Corte di merito, dal pacifico invio dei messaggi, aveva semplicemente tratto spunto per considerare attendibili le restanti affermazioni della p.o., una delle quali, peraltro, riguarda un messaggio offensivo che il prevenuto ha ammesso di aver spedito, tanto da segnalarlo anche in ricorso, per porne il testo (oggetto del capo 2) a fondamento del terzo motivo.

Il ricorrente poi, per dimostrare l’erronea valutazione di attendibilità della p.o. si riferisce ad elementi di fatto, quali le frequentazioni fra i due successive all’anno 2001, che pretendono una valutazione in fatto della loro valenza dimostrativa di inattendibilità, che a questa Corte è preclusa.

In definitiva, come anche ammette il ricorrente, è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che l’affermazione di responsabilità può essere basata sulle sole dichiarazioni della parte offesa, la cui testimonianza, ove ritenuta intrinsecamente attendibile, costituisce una vera e propria fonte di prova (cfr. pure C. cost. ordinanze n. 82 del 2005, n. 115 del 1992, n. 374 del 1994, e sentenze n. 2 del 1973 e n. 190 del 1971), purchè la relativa valutazione sia adeguatamente motivata. E ciò vale, in particolare, proprio in tema di quei reati che, commessi non in presenza d’altri, non possono che essere accertati attraverso la valutazione e la comparazione delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi (così, da ultimo, in tema di reati sessuali, Sez. 4, Sentenza n. 30422 del 21/06/2005, e più in generale: Sez. 6,, Sentenza n. 443 del 04/11/2004).

Non è quindi compito del giudice di legittimità compiere una rivalutazione del compendio probatorio, sulla base delle prospettazioni del ricorrente, avendo questa Corte chiarito già da tempo che esula dai suoi poteri una "rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Sez. Un. n. 41476 del 25/10/2005, Misiano;

Sez. Un. n. 6402 del 2.7.1997, Dessimone, rv. 207944; Sez. Un. n. 930 del 29.1.1996, Clarke, rv. 203428).

Corretta pare anche la qualificazione giuridica del fatto sub 3), sulla base di quanto rilevato dai giudici del merito a cui il ricorso oppone una diversa lettura delle emergenze processuali, anche sull’identità del video oggetto di liberatoria e quello oggetto di minaccia, enfatizzando le situazioni di incontro fra i due che, dallo stesso testo del ricorso, appaiono, più che altro, dovute a momenti di cedimento della donna sottoposta a continua pressione, che cercava di gestire in qualche modo, barcamenandosi con difficoltà.

Manifestamente infondato è poi il terzo motivo.

La Corte di merito ha correttamente osservato che dell’asserita reciprocità delle offese e della provocazione non vi sarebbe stata prova alcuna; nè il ricorrente può fondatamente pretendere che l’aver usato proprio lui in un messaggio certi termini (di sentirsi trattato "come una bestia") sia circostanza tale da dare la dimostrazione del ricorrere della invocata scriminante.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al rimborso di quelle di parte civile, liquidate in Euro 2,300,00=, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2013


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