Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 28-01-2013) 21-03-2013, n. 13296

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 14/03/2012, la Corte d’appello di Catania ha confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato M. A.G. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato di cui all’art. 494 c.p..

La Corte territoriale, premesso che non era stata contestata la condotta dell’imputato per come ricostruita dal giudice di prime cure (presentazione dell’istanza per ottenere l’attribuzione di un codice fiscale per conto di un soggetto inesistente attraverso l’utilizzo di una fotocopia di un documento di identità rivelatosi frutto di un fotomontaggio e poi strappata dall’imputato nel momento in cui l’impiegata destinataria della richiesta, insospettitasi, aveva avviato dei controlli), ha ritenuto che essa si traducesse nell’illegittima attribuzione a sè di una inesistente qualità di delegato. La sentenza impugnata ha aggiunto che la richiesta del codice fiscale era preordinata all’acquisizione di un dato utilizzabile sotto molteplici aspetti e quindi con finalità di recare a sè o altri un vantaggio e che l’avvenuta consumazione del reato a natura istantanea impediva di applicare l’istituto della desistenza.

2. Nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico, articolato motivo.

In particolare, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), illegittima ed errata valutazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 494 c.p. e della desistenza volontaria.

Quanto al primo profilo, si sostiene che la condotta dell’imputato non era riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 494 c.p., in quanto: a) il M. non si era sostituito all’altrui persona e non aveva presentato alcuna delega, talchè non aveva indotto alcuno in errore; b) il M., quando si era reso conto di non poter presentare alcuna richiesta, aveva deciso di non presentarla e per questo aveva deciso di strappare la fotocopia del documento di identità; c) se il M. avesse avuto la reale intenzione di attribuirsi la qualità di incaricato avrebbe anche predisposto una delega, che invece era inesistente; d) non era pertanto ravvisabile il dolo specifico richiesto per la configurazione del delitto contestato. Quanto al secondo profilo, nel ricorso si osserva che gli atti compiuti dal M. non costituivano reato e neppure potevano essere qualificati come atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto. L’imputato non aveva indotto in errore alcuno, avendo desistito dall’azione ancor prima che l’effetto si realizzasse.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza delle censure proposte.

L’art. 494 c.p., infatti, punisce chiunque, al fine di procurare a sè o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sè o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici.

Nella specie, il ricorrente ha esattamente attribuito falsamente a sè la veste di delegato di un soggetto, ossia una qualità cui la legge riconduce l’effetto giuridico di agire in nome e per conto del rappresentato. Il fatto che quest’ultimo sia risultato essere inesistente non assume alcun rilievo.

D’altra parte, non essendo necessario, salva una specifica previsione di legge, che siffatto potere rappresentativo emerga da una formale procura, non ricorre alcun vizio motivazionale nella sentenza impugnata, che ha valorizzato la procedura dell’ufficio destinatario della richiesta di ritenere sufficiente la semplice produzione di copia del documento di identità del soggetto interessato.

Ne discende l’inconferenza delle critiche che sottolineano la mancata predisposizione da parte del ricorrente di un autonomo atto di delega.

Sul piano soggettivo, va aggiunto che il dolo specifico del delitto di cui all’art. 494 c.p., consiste nel fine di procurare a se o ad altri un vantaggio patrimoniale o non o di recare ad altri un danno (Sez. 5, n. 3207 del 23/01/1981, Bertolucci, Rv. 148355) e sul punto la Corte territoriale ha dato conto dei vantaggi ritraibili dall’attribuzione di un codice fiscale.

Il ricorso rileva che non v’è prova che il M. volesse trarre in inganno il pubblico ufficiate e, tuttavia, non aggiunge alcuna indicazione fattuale idonea a rendere manifestamente illogica la ricostruzione della sentenza impugnata che muove dall’incontestata condotta posta in essere e dall’unico ragionevole fine che può averla determinata.

5. Alla pronuncia di inammissibilità consegue ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2013


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