Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., 26-07-2012, n. 13322

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo

Con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Perugia in data 1 luglio 2009, G.M. ha chiesto il riconoscimento dell’equa riparazione per la irragionevole durata di un processo tributario avente ad oggetto la domanda di annullamento del processo verbale di contestazione e avviso di rettifica relativo all’anno 1991, con il quale l’Ufficio IVA di Latina aveva applicato sanzioni pecuniarie per indebita richiesta a rimborso dell’IVA pagata sull’acquisto di un immobile; giudizio introdotto dinnanzi alla Commissione tributaria di primo grado di Latina con ricorso depositato in data 11 ottobre 1994, conclusosi in sede di appello con sentenza del 18 dicembre 2007.

L’adita Corte d’appello ha dichiarato inammissibile il ricorso, facendo applicazione del principio secondo cui la L. n. 89 del 2001, art. 3 deve essere interpretato nel senso che l’equa riparazione prevista dalla legge nazionale per le violazioni dell’art. 6, par. 1, della CEDU non è riferibile all’eventuale eccessiva durata di controversie concernenti la potestà impositiva dello Stato, le quali restano escluse dal quadro di tutela della norma comunitaria, a meno che non si tratti di controversie di natura civilistica (non riguardanti cioè l’ammontare del tributo, ma solo aspetti consequenziali, come accade nel giudizio di ottemperanza) o di natura penale (intendendo per tali quelle in cui si discuta di una sanzione commutabile in pena detentiva o, comunque, talmente grave da essere assimilabile, sul piano dell’afflittivita, ad una sanzione penale).

Nel caso di specie, ha osservato la Corte d’appello, non si verteva nè in un caso di processo civile, nè in un caso di processo penale, con la precisazione che l’afflittività va valutata in senso assoluto e non relativo, non rispondendo al detto carattere la previsione che la sanzione sia pari al 100% dell’imposta di riferimento.

Per la cassazione di questo decreto G.M. propone ricorso sulla base di due motivi; l’intimata amministrazione non ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia violazione e mancata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1, e art. 3, comma 3, e dell’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Premesso che la sanzione applicata ammontava a L. 28.600.000, il ricorrente sostiene che la statuizione di inammissibilità del ricorso contrasterebbe con le richiamate disposizioni, interpretate alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con particolare riferimento alla nozione di causa civile e penale. Assume, infatti, che per individuare l’area di applicazione della disciplina del diritto all’equa riparazione per mancato rispetto del termine ragionevole del processo dovrebbe aversi riguardo alle indicazioni della giurisprudenza della Corte europea, la quale non esclude che la riparazione possa essere richiesta anche con riferimento a controversie che si svolgono dinnanzi al giudice tributario, laddove esse siano riferibili alla materia civile o alla materia penale; con l’avvertenza, quanto a quest’ultima, che deve farsi riferimento alla nozione autonoma elaborata dalla stessa Corte europea. In particolare, la nozione "penale" risulta caratterizzata da tre elementi alternativi tra loro e non cumulativi, occorrendo accertare se la norma che definisce l’infrazione incriminata appartenga, secondo la tecnica giuridica dello Stato considerato, al diritto penale o disciplinare ovvero ad entrambi; quale sia la natura della infrazione; quale sia infine il grado di severità della sanzione che l’interessato rischia di subire.

Con riferimento alla natura della infrazione, la Corte europea, osserva il ricorrente, ha affermato che nel caso in cui le sanzioni tributarie non mirino alla riparazione pecuniaria di un pregiudizio ma siano dirette a punire ed impedire la reiterazione delle condotte incriminate e perseguano uno scopo sia preventivo che repressivo, l’infrazione avrebbe per ciò solo carattere "penale"; carattere che non sarebbe escluso neanche dalla tenuità della sanzione (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grand Chambre 23 novembre 2006, n. 73053). In sostanza, osserva il ricorrente, secondo la Corte europea, ogni volta che una sanzione tributaria abbia una funzione che vada oltre le mere esigenze compensative del ritardato pagamento dell’imposta dovuta, allora sarebbe innegabile la sua valenza afflittiva indipendentemente dall’entità della sanzione inflitta.

Nella specie, ad avviso del ricorrente, sarebbe indubbia la valenza afflittiva, equiparabile a quella penale, propria della sanzione tributaria comminatagli, atteso che la sanzione era relativa alla dichiarazione di IVA detraibile superiore a quella spettante e consisteva in una pena pecuniaria da una a due volte la differenza di imposta. La norma sanzionatoria persegue quindi la finalità di prevenire che vengano effettuati rimborsi fiscali non dovuti e mira a punire severamente chi, attraverso una dichiarazione IVA eccedente il dovuto, esponga il fisco al rischio di effettuare rimborsi non spettanti. La Corte d’appello avrebbe quindi errato nel non riconoscere, in presenza della rilevata finalità della norma sanzionatoria, la natura "penale" della sanzione comminata, concentrando invece la valutazione sulla entità della stessa.

In ogni caso, osserva il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe errato anche nell’escludere che la sanzione, per la sua entità, non avesse un’afflittività assimilabile a quella "penale", atteso che si trattava di una sanzione commisurata al 100% dell’imposta di riferimento. La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, prima di attribuire rilievo alla natura della norma sanzionatoria, aveva ritenuto che una sanzione determinata in misura superiore al 40% dell’imposta potesse essere considerata particolarmente afflittiva.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione in ordine alla esclusione della natura afflittiva della sanzione. In particolare, il riferimento contenuto nel decreto impugnato alla sensibilità comune quale criterio per la verifica della afflittività o no della sanzione pecuniaria sarebbe apodittico, generico e inidoneo ad integrare una sufficiente motivazione sul punto.

3. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Questa Corte ha avuto modo di affermare che "per individuare l’area di applicazione della disciplina del diritto all’equa riparazione per mancato rispetto del termine ragionevole, previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, bisogna fare riferimento al complessivo impianto sistematico della legge nazionale e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La lettura sistematica in parola non esclude che la riparazione possa essere richiesta anche con riferimento a controversie del giudice tributario che siano riferibili alla "materia civile" (in quanto riguardanti pretese del contribuente che non investano la determinazione del tributo ma solo aspetti consequenziali come nel caso del giudizio di ottemperanza ad un giudicato tributario D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 70 o in quello del giudizio vertente sull’individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza) o alla "materia penale". Quest’ultima, in particolare – secondo la nozione autonoma elaborata dalla giurisprudenza della CEDU, di cui il giudice nazionale deve tenere conto – va intesa come comprensiva anche delle controversie relative all’applicazione di sanzioni tributarie, ove queste siano commutabili in misure detentive ovvero siano, per la loro gravità, assimilabili sul piano dell’afflittività ad una sanzione penale, prescindendo dalla soglia di imposta evasa e dalla sussistenza o meno della rilevanza anche penale dei fatti per i quali si controverte nel giudizio tributario" (Cass. n. 19367 del 2008).

Orbene, la Corte d’appello si è attenuta al principio affermato dalla richiamata sentenza, espressamente menzionata nella motivazione del provvedimento impugnato. Già tale rilievo induce ad escludere che il provvedimento impugnato possa essere incorso nella denunciata violazione di legge.

3.1. Le ulteriori argomentazioni svolte dal ricorrente non appaiono idonee a pervenire a differenti conclusioni. Invero, l’affermazione secondo cui dovrebbe aversi riguardo alla natura e alla funzione svolta dalla disposizione rilevante, nel senso che ove questa abbia uno scopo meramente sanzionatorio, sarebbe innegabile il carattere "penale" del relativo contenzioso, ancorchè desunta dalla giurisprudenza della Corte europea, risulta astratta e suscettibile di introdurre una generalizzazione assoluta, essendo implicito nel concetto di sanzione un connotato di afflittività. Se si seguisse siffatta interpretazione verrebbe meno la necessità di verificare, in materia di sanzioni tributarie, se queste, per il loro contenuto di afflittività, siano o no assimilabili ad una sanzione penale, dovendosi sempre predicare tale assimilazione. Al contrario, il richiamato arresto di questa Corte, maturato sulla base di un’attenta ricognizione dei rapporti tra ordinamento interno e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, con particolare riferimento alla assoggettabilità delle controversie tributarie alle regole del giusto processo di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione stessa, postula proprio la non automaticità di una tale assimilazione, la quale potrebbe essere rinvenuta solo ove la sanzione, per la sua gravità, risulti connotata da un connotato di afflittività a tal punto significativo, da farla apparire alternativa a una sanzione penale ovvero a una sanzione che, in caso di mancato adempimento, sia commutabile in una misura detentiva.

3.2. Del tutto irrilevante appare poi il rilievo secondo cui nell’ordinamento vi sarebbero sanzioni penali pecuniarie di importo di gran lunga inferiore a quello della sanzione tributaria oggetto della controversia presupposta. La sanzione penale, anche se pecuniaria e anche se di modesto importo, ha infatti un connotato di gravità non comparabile con quello di altre sanzioni civili, amministrative o tributarie, atteso che solo la prima, e non anche le altre, incidono, in quanto conseguenti all’accertamento di un illecito penale, sul piano della dignità della persona condannata.

Nè meritevole di condivisione può essere l’affermazione, desunta dal ricorrente da una pronuncia della Corte europea richiamata in ricorso, che una sanzione tributaria sarebbe sempre afflittiva, nei sensi prima indicati e quindi assimilabile ad una sanzione penale, ove fosse rapportata al 40% dell’imposta dovuta o evasa. Anche un simile criterio pecca di astrattezza, nel senso che ben potrebbero darsi sanzioni tributarie che, pur essendo ragguagliate all’importo della imposta dovuta o evasa, siano di entità tanto lieve da non potersene in alcun modo predicare la assimilabilità ad una sanzione penale, nei sensi prima indicati. Ancora una volta, quindi, deve rilevarsi che la questione va affrontata in concreto, in relazione alle specificità di ogni singola fattispecie, della sanzione applicata e in generale del rapporto tributario cui la sanzione inerisce.

4. La questione si risolve dunque in un accertamento di fatto e l’attenzione va conseguentemente rivolta alla motivazione addotta dal giudice del merito a sostegno della riconducibilità o no della singola controversia in cui si discuta di una sanzione tributaria all’ambito di applicazione delle regole della ragionevole durata del processo. Non a caso, del resto, il ricorrente, con il secondo motivo, censura il provvedimento impugnato anche dal punto di vista della denunciata illogicità o insufficienza della motivazione. Ma le censure in tal modo proposte non appaiono suscettibili di accoglimento.

Accertare in concreto se una sanzione tributaria abbia i connotati di gravità per i quali la controversia relativa alla sua applicazione possa essere assimilata, ai fini che qui rilevano, a una controversia di natura "penale", costituisce accertamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità ove, come nel caso di specie, sia sorretto da motivazione congrua e immune da vizi logici o giuridici.

La Corte d’appello di Perugia ha infatti ritenuto che l’importo della sanzione, valutato nella sua oggettività e secondo il comune sentire, non fosse di entità tale da imporre di assimilare la controversia tributaria nella quale di quella sanzione si discuteva ad una controversia di natura "penale". E trattasi di valutazione che, essendo ancorata ad un criterio – quello oggettivo della entità della sanzione – esplicitato e in concreto applicato, si sottrae al sindacato di legittimità.

5. Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, non avendo l’amministrazione intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte suprema di Cassazione, il 8 marzo 2012.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2012

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