Cass. civ. Sez. I, Sent., 26-07-2012, n. 13296

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Svolgimento del processo
Con lodo del 16 maggio 2000, il Collegio arbitrale di cui all’art. 12 del contratto di appalto stipulato dal comune di Lungro in data 7 settembre 1991 con la s.p.a. costruzioni Ing. P., mandataria dell’ATI Costruzioni impianti ing. P. e B. C., condannò l’ente pubblico al pagamento della complessiva somma di L. 232.892.006 all’impresa per compensi contrattuali richiesti con apposite riserve.
L’impugnazione del comune è stata respinta dalla Corte di appello di Roma con sentenza del 13 gennaio 2005, in quanto: a) lo stesso bando di gara prevedeva la stipulazione di un futuro contratto di appalto contenente la disciplina dei rapporti tra le parti che, dunque, ha avuto quale fonte genetica esclusiva il negozio successivo all’aggiudicazione formalmente stipulato con il sindaco, e contenente nell’art. 12 la clausola arbitrale che devolveva tutte le controversie nascenti dal rapporto ad un collegio di 5 arbitri; b) a nulla rilevava la difformità della clausola suddetta rispetto a quella di tenore opposto contenuta nel bando di gara, perchè ciò poteva comportare al più l’annullabilità del contratto: tuttavia ratificato o convalidato dalla sua avvenuta regolare esecuzione.
Per la cassazione della sentenza, il comune di Lungro ha proposto ricorso per un motivo; cui resiste la s.p.a. P. con controricorso.
Motivi della decisione
Con il ricorso, l’ente pubblico, deducendo violazione degli artt. 1325 e 1418 cod. civ. censura la sentenza impugnata per non aver dichiarato la nullità del contratto di appalto e/o della clausola compromissoria introdotta abusivamente dal sindaco in sede di stipulazione del negozio, e comunque in palese contrasto con quella contenuta nel bando di gara che invece devolveva la cognizione delle relative controversie al giudice ordinario, escludendo la possibilità di ricorso alla cognizione arbitrale. Rileva che il contenuto del contratto è esclusivamente quello predisposto dal bando e non modificabile anche per il rispetto della par condicio di tutti gli offerenti; sicchè se è possibile alla p.a. rinviarne la conclusione ad un momento successivo all’aggiudicazione, ovvero annullarla, non è consentito all’organo che la rappresenta introdurre clausole di contenuto difforme da quelle deliberate dal Consiglio comunale, che è il solo organo competente a stabilirne l’opportunità ed il conseguente inserimento nel negozio: altrimenti non potendo la stessa essere attribuita a volontà della stazione appaltante.
Il ricorso è infondato.
La sentenza impugnata si è puntualmente attenuta alla giurisprudenza di questa Corte, resa anche a sezioni unite e del tutto consolidata, secondo cui nella stipulazione di appalti con la Pubblica Amministrazione, attraverso il sistema dell’aggiudicazione a seguito di incanti pubblici o di licitazioni private, nella disciplina antecedente al D.P.R. n. 163 del 2006: 1) il verbale o altro provvedimento di aggiudicazione è atto non preparatorio, ma conclusivo del procedimento, ed è equivalente, per ogni effetto, al contratto, in virtù del R.D. n. 2440 del 1923, art. 16 nonchè del R.D. n. 827 del 1924, artt. 88 e 97, applicabili agli enti locali per il richiamo contenuto nel R.D. n. 383 del 1934, art. 140 (mantenuto in vigore, quanto al comma 1, L. n. 142 del 1990, dell’art. 64, comma 1, lett. e), e della L. n. 142 del 1990, art. 56 con forza immediatamente vincolante, per la stessa amministrazione; 2) l’eventuale successiva stipulazione di quest’ultimo configura una formalità ulteriore, che nulla aggiunge all’esistenza ed alla perfezione del vincolo negoziale: a meno dell’ipotesi che dallo stesso verbale o dal bando di gara risulti la volontà dell’Amministrazione di rinviare la costituzione del vincolo al momento successivo della stipulazione del contratto (Cass. 12629/2006; 11103/2004; 9366/2003; sez. un. 5807/1998).
Proprio quest’ultima ipotesi si è verificata nella fattispecie, avendo la Corte di appello accertato, senza contestazioni al riguardo del comune, che nel bando di gara 8 aprile 1991 l’amministrazione comunale aveva espressamente rinviato la stipula del contratto ad un momento successivo all’aggiudicazione; che all’uopo aveva predisposto una serie di adempimenti da eseguirsi a carico dell’impresa, nonchè un termine entro il quale dovevano essere conclusi, che condizionava la stipulazione del contratto; e previsto infine la propria facoltà di procedere all’annullamento dell’aggiudicazione, nonchè di attribuirla al concorrente immediatamente successivo in caso di inadempimento dell’aggiudicatario.
Ciò significa, da un lato, che nella fattispecie, per volontà della stessa amministrazione comunale, vi è stata una fase preliminare – caratterizzata dalla formazione della sua volontà rimasta sul piano del diritto amministrativo, e disciplinata dalle regole c.d.
dell’evidenza pubblica – che si è conclusa con il provvedimento di aggiudicazione: destinata a disporre in ordine alla stipulazione del negozio e con ciò a conferire all’organo qualificato alla rappresentanza dell’ente la effettiva potestà di porlo in essere con le finalità e l’oggetto già specificati nel sudetto provvedimento amministrativo. Ma, dall’altro, che tale fase conserva piena autonomia – logica e giuridica – rispetto alla successiva (e solo eventuale) attività negoziale esterna dell’ente pubblico, la quale:
a) deve "tradursi" nella stipulazione documentale del contratto di appalto secondo le disposizioni comuni dell’art. 1325 c.c. e dell’art. 1350 c.c., n. 13; b) è peraltro di competenza di un organo diverso (dal Consiglio o dalla Giunta) che nel caso era pacificamente il sindaco; c) conserva finalità, funzioni e soprattutto una disciplina sua propria e diversa da quelle della fase precedente, che per quanto riguarda la volontà delle parti è regolata dall’art. 1325 cod. civ., con la conseguenza, più volte evidenziata da questa Corte, che il contratto può ritenersi affetto da nullità soltanto quando il negozio non sia stato stipulato in forma scritta richiesta ad substantiam dal menzionato art. 1350 cod. civ., ovvero nel caso in cui contratto e deliberazione non contengano l’indicazione della spesa ed i mezzi per farvi fronte, perchè in tal modo disposto dagli art. 284 e segg. del t.u. 3 marzo 1934 n. 383. Mentre per quanto riguarda "l’accordo tra le parti" di cui all’art. 1325 c.c., n. 1 la giurisprudenza lo esclude soltanto quando il contratto non sia comunque riferibile alla p.a. ovvero nel caso di straripamento di potere dell’organo stipulante come verificatosi nella fattispecie esaminata da Cass. 12015/2004 invocata dal comune di Lungro; e certamente non ricorrente nel caso concreto in cui lo stesso ente pubblico ha ricordato e riconosciuto che il solo organo rappresentativo esterno abilitato a stipulare il contratto di appalto in nome e per suo conto e ad essere perciò munito dei poteri necessari per vincolare l’amministrazione per la quale si obbliga in base alla L. n. 142 del 1990, art. 36 era proprio il sindaco che ha stipulato il contratto 7 settembre 1991 (Cass. 2067/2003; 2832/2002;
13628/2001; 9682/1999).
Consegue altresì che sono soltanto le peculiari pattuizioni di quest’ultimo a costituire il momento genetico ex art. 1372 cod. civ., dei diritti e delle obbligazioni di ciascuna delle parti, (coincidano o meno con quelle previste dal bando di gara), a consentire l’identificazione dello specifico contenuto negoziale che diverrà oggetto dei controlli dell’autorità tutoria, ed a richiedere l’esplicita previsione dei mezzi finanziari per far fronte al compenso da corrispondersi all’appaltatore (R.D. 3 marzo 1934, n. 383, art. 284; della L. n. 66 del 1989, art. 23; della L. n. 142 del 1990, art. 55); e che il regime delle controversie era proprio quello contenuto nella clausola dell’art. 12 dell’atto il quale le ha devolute al giudizio di 5 arbitri, tuttavia richiamando la normativa del capitolato generale di appalto delle O.P. appr. con D.P.R. n. 1063 del 1962, il cui art. 47 consentiva comunque al comune di escludere la competenza arbitrale, nonchè di proseguire il giudizio davanti al giudice ordinario competente. Tutt’altro problema è quello di stabilire se nella specie la modifica suddetta sia stata introdotta dal sindaco senza averne il potere, od eccedendo dai limiti delle facoltà conferitigli dal consiglio comunale posto che la clausola dell’art. 15 del bando riportata dalla lettera di invito stabiliva testualmente che, che per tutte le controversie (e non soltanto quelle antecedenti al contratto, peraltro devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo) relative all’appalto si sarebbe dovuto "fare ricorso esclusivamente alla magistratura ordinaria, escludendosi qualsiasi ricorso ai collegi arbitrali…".
E sotto tale profilo è ravvisabile anzitutto un’ipotesi di responsabilità di detto organo nei confronti del comune (che tuttavia esula dalla presente controversia: Cass. 6587/1988); mentre la giurisprudenza di legittimità, correttamente applicata dalla sentenza impugnata, è fermissima nel ritenere che tanto nella ipotesi di eccesso di potere dell’organo dell’ente competente a concludere il negozio, quanto in quella di rappresentanza senza potere e, comunque di mancanza della deliberazione da parte dell’organo competente del potere a contrarre, la conseguenza è soltanto quella che detti vizi, giustamente accomunati dalla Corte territoriale, si traducono in altrettanti difetti del consenso dell’ente, che incidendo sulla validità ed efficacia del contratto privatistico, ne comportano l’annullabilità; la quale può essere fatta valere esclusivamente dall’ente pubblico, nel cui esclusivo interesse sono poste le norme procedimentali violate.
E tuttavia il contratto annullabile, a differenza di quello nullo (Cass. 59/2001; 1615/1981), può essere ratificato o convalidato ai sensi dell’art. 1444 cod. civ. tutte le volte in cui l’amministrazione che conosceva o doveva conoscere la causa di invalità ed "alla quale spettava l’azione di annullamento vi ha dato volontariamente esecuzione": così come è avvenuto nel caso concreto in cui la sentenza impugnata ha accertato che è stato proprio il comune di Lungro a pretendere ed ottenere l’esecuzione del contratto, perciò convalidandone il contenuto in ogni sua parte e rendendo inoppugnabile anche la clausola dell’art. 12 modificativa di quella di segno opposto contenuta nel bando.
Pertanto siccome l’ente pubblico non ha specificamente impugnato la statuizione suddetta, nè l’accertamento di fatto sul quale è stata fondata, la sentenza impugnata anche sotto questo profilo va confermata; con conseguente condanna dell’ente pubblico al pagamento delle spese processuali, da liquidare come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in favore della soc. P. in complessivi Euro 3.700,00 di cui Euro 3.500,00 per onorario di difesa, oltre a spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 12 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2012

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