Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 28-01-2013) 06-03-2013, n. 10411

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione V.E. avverso la sentenza della Corte di assise di appello di Napoli in data 1 dicembre 2011 con la quale è stata – per quanto qui d’interesse- confermata quella di primo grado, di condanna in ordine i reati di cui ai capi A, B e C della rubrica (omicidio aggravato, in concorso, in danno di V.L., fatto commesso, rivestendo la qualità di esecutore, il (OMISSIS); illegittimi detenzione e porto di tre armi da sparo nonchè di un fucile mitragliatore; ricettazione aggravata di un’autovettura rubata) con conseguente erogazione della pena dell’ergastolo e isolamento diurno.

Deduce:

1) il vizio della motivazione.

Rileva che non sono state rispettate le regole di valutazione dei tre chiamanti in correità, M.F., M.F. e T.V..

Le dichiarazioni del primo, essendo de relato, avrebbero dovuto essere sottoposte ad un vaglio rigoroso sia sulla attendibilità del chiamante stesso, sia sull’attendibilità della sua fonte. La attendibilità del chiamante in correità, tuttavia, era stata incrinata dal fatto che il suo racconto, a proposito dell’appostamento che, qualche giorno prima, il ricorrente avrebbe effettuato assieme a tale C. per uccidere il V., non era stato creduto ed aveva portato all’assoluzione dai reati contestati ai capi J) e K).

La fonte del M.F., poi, era rappresentata dalla moglie, M.F. la quale, tuttavia, era a sua volta teste de relato, avendo riferito al marito ciò che aveva appreso da M.A.C.. E quest’ultima fonte non era stata oggetto della necessaria valutazione sulla attendibilità, pur essendo risultato che aveva fornito due versioni diverse dell’esecuzione dell’omicidio: una a M.F. e l’altra a T. G., il quale aveva detto di aver appreso da M.A. C. i nomi di due diversi autori dell’omicidio, tali P. A. e N., identificato in L.N..

Ma la Corte d’assise d’appello, invece di valutare ed evidenziare, come richiestogli dalla difesa nei motivi d’appello, la (in)attendibilità di M.A.C. per tale ragione, si era limitata, del tutto illegittimamente, a scegliere una delle due versioni e a sminuire la credibilità del racconto di T., reputato soggetto confuso e dai ricordi incerti.

Oltretutto nella sentenza impugnata si erano ignorate le dichiarazioni rese da T. in udienza il 21 aprile 2009 (allegate al ricorso per la valutazione del travisamento della prova), dichiarazioni con le quali si era ribadito che l’omicidio era stato commesso dal detto A. insieme al menzionato N., detto "occhio blindato".

Sostiene la difesa che le conclusioni della Corte d’assise d’appello sul punto – e cioè che il M.A.C. aveva detto la verità solo quando aveva parlato con M.F. e poi con M.F. – sarebbero non soddisfacenti perchè opinabili.

Infatti erano state basate su un assunto apodittico e non dimostrato, secondo cui il M.A.C. diffidava di T..

Anche l’altra fonte del T. e cioè L.N., il quale si sarebbe attribuito la corresponsabilità dell’omicidio, era stata sminuita nella sua credibilità, dalla Corte territoriale, in modo superficiale.

Inoltre la Corte aveva valorizzato le dichiarazioni di tale T. – secondo cui M.A. aveva escluso che T. sapesse alcunchè dell’omicidio – contraddicendo altra parte della motivazione (pagina 27) nella quale si era dato atto delle precise conoscenze, da parte del T. a proposito dell’omicidio stesso, avendo oltretutto contribuito, secondo la Corte stessa, alla distruzione delle armi.

Per quanto poi concerne l’elemento indiziante rappresentato dalle dichiarazioni di M.F. circa la confessione del reato ricevuta dallo stesso ricorrente, durante un colloquio avuto in carcere, la difesa sottolinea come di tale circostanza non sia stata acquisita alcuna prova certa, essendo viceversa immerso che M. e V. E. erano detenuti nel carcere di Poggioreale in due diversi padiglioni e con divieto di colloquio, sicchè la possibilità di un loro incontro era solo astrattamente possibile ma non probabile.

In ordine alle dichiarazioni di M.F., pure ritenute elemento di riscontro di quelle di M.F. perchè autonome, la difesa rileva che si tratta, per quanto concerne la materialità della condotta di rilevanza penale attribuita al ricorrente, di dichiarazioni de relato, dovendosi considerare che la F. aveva svolto il ruolo di specchiettista e non si trovava sul teatro dell’omicidio.

Dunque le sue dichiarazioni accusatorie rilevanti come riscontro individualizzate a carico del prevenuto erano soltanto quelle ricevute da M.A.C. che era la stessa fonte di conoscenza di M.F..

Per tale ragione, mancando l’autonomia delle fonti, le dichiarazioni accusatorie di M.F. non potevano costituire valido riscontro di quelle di M.F..

E comunque sostiene il difensore che una dichiarazione de relato non dovrebbe poter costituire valido riscontro di altra dichiarazione accusatorie pure de relato.

Infine non avrebbe dovuto trascurarsi che la fonte comune, M. A.C., era rimasta silente in giudizio.

Ritiene la difesa che debba trovare applicazione la giurisprudenza (sent. n. 847 del 1993) che ritiene non utilizzabile la chiamata in correità de relato quando la fonte non possa essere escussa;

2) Il vizio della motivazione con riferimento al principio dell’"oltre ogni ragionevole dubbio", per le ragioni sopra evidenziate.

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

La sagace e articolata difesa svolta nelle ricorso merita una decisione di rigetto giustificata dalla infondatezza del secondo motivo di ricorso, essendo i temi rappresentati a sostegno del primo motivo tutti inammissibili in quanto manifestamente infondati e volti, nella sostanza, a confutare, sul piano del merito, la ricostruzione operata dalle due Corti di assise, nonostante che la motivazione da queste esibita risulti pienamente conforme ai canoni della logica e della esaustività.

Tornando al primo punto, compendiato come detto nel secondo motivo di ricorso, si ritiene doveroso evidenziare, conformemente a quanto sostenuto dalla difesa, che il principio dell’"oltre ogni ragionevole dubbio", introdotto formalmente dalla L. n. 46 del 2006, che ha modificato l’art. 533 cod. proc. pen., costituisce l’espressione di una regola di giudizio cui il giudice del merito è tenuto ad attenersi- in buona parte già desumibile dal disposto dell’art. 530 c.p.p., commi 2 e 3 – e che impone allo stesso di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità (vedi Rv. 251507).

Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, tuttavia, tale principio non vale ad intaccare l’altro fondamentale cardine in tema di decisione del processo, valido con riferimento al giudizio di legittimità: e cioè quello secondo cui, anche dopo la novella normativa dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del 2006, non muta la natura del sindacato della Corte di cassazione, chiamata ad un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione necessariamente unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo in ogni caso la sua valutazione sconfinare nell’ambito del giudizio di merito (Sez. 6, Sentenza n. 14054 del 24/03/2006 Ud. (dep. 20/04/2006) Rv. 233454).

In altri termini, il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio non può certo valere a far sì che sia la Cassazione a valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emersa nella sede del merito e segnalata dalla difesa, una volta che tale eventuale duplicità sia stata il frutto di un’attenta e completa disamina da parte del giudice dell’appello, il quale abbia operato una scelta, sorreggendola con una motivazione rispettosa dei canoni della logica e della esaustività.

In tal modo infatti la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio deve ritenersi osservata dal giudice del merito e la Corte di cassazione non può che rilevarne il rispetto, a prescindere dalla persistenza dei dubbi della difesa sulla correttezza della ricostruzione prescelta.

Ciò posto, i rilievi della difesa sulla correttezza della motivazione esibita dal giudice del merito risultano manifestamente infondati oltrechè, in parte, trasmodanti nel terreno, inaccessibile alla Corte di cassazione, della valutazione dell’esito della prova.

Invero, la trama della ricostruzione probatoria operata dal giudice del merito con riferimento al giudizio di responsabilità del ricorrente V.E., è quella del rilievo di una chiamata in correità – di M.F. – ritenuta in parte effettuata per scienza diretta di fatti rilevanti e, in altra parte, de relato (per la parte appresa dalla moglie M.F. nonchè da M. A.C. e dallo stesso imputato V. E.), riscontrata da quella della coimputata M.F., sua moglie e concorrente nello stesso reato- anche questa in parte effettuata per scienza diretta in altra parte de relato (per la parte appresa da M. A.C.) e, infine, da quella di T.V. a proposito dello specifico ambiente criminale dal quale proveniva il ricorrente, esecutore del delitto.

Giova ricordare che viene ingiustamente e del tutto infondatamente criticato dalla difesa il ragionamento della Corte territoriale secondo cui le chiamate in correità di M.F. di M.F. – peraltro ampiamente ed esaustivamente esaminate dal giudice del merito sotto il profilo della credibilità soggettiva – hanno attinto il prevenuto con la narrazione di fatti di assoluto rilievo per la decisione del processo, conosciuti per scienza diretta, oltre che con la narrazione di fatti appresi de relato. Ed infatti sia l’uno che l’altra hanno riferito- essendo al riguardo ritenuti motivatamente del tutto attendibili dai giudici del merito- del pieno coinvolgimento del V. E. negli atti di appostamento anche prolungati nel tempo e di sopralluogo relativi ai movimenti di V., cui il V. E. aveva partecipato con altro esponente del clan Birra di Ercolano, in base ad un accordo preso con quel clan per lo scambio di "favori" illeciti. Al riguardo, l’osservazione della difesa circa l’incapacità di tali dichiarazioni di riferirsi alla condotta materiale contestata al ricorrente nei capi a) e b), tenuto conto della assoluzione del ricorrente dal reato di tentato omicidio contestato nel capo j) in riferimento ai detti appostamenti, non coglie nel segno. Non ha, infatti, il difensore neppure sostenuto che la assoluzione sia stata motivata, dal giudice del merito, sulla base della inattendibilità del racconto di M.F., mentre risulta evidente che gli appostamenti e i sopralluoghi realizzati anche da parte del V. E., pur potendo non attingere la soglia di rilevanza penale del tentativo di omicidio, sono stati giustamente valorizzati dal giudice del merito come indicativi, nel racconto di M.F. e di M.F., del chiaro collegamento del chiamato con il fatto di reato contestatogli: e dunque di fatti prodromici e funzionali che lo pongono in diretta relazione con l’omicidio di V., eseguito a brevissima distanza di tempo da quegli appostamenti, essendo stati, quei fatti, conosciuti de visu dai chiamanti in correità.

Va, dunque, escluso che il giudice del merito abbia fondato il giudizio di responsabilità esclusivamente sulla base di una chiamata in correità de relato, solo riscontrata da altra chiamate in correità pure de relato. E ciò, dovendosi anche sottolineare che, comunque, su tale specifico tema che-si ribadisce- non rappresenta la chiave di volta del tessuto argomentativo in esame, anche le Sezioni unite di questa Corte sono di recente intervenute affermando (con sentenza di cui si conosce allo stato solo la massima provvisoria, resa alla udienza del 29 novembre 2012) che anche una chiamata in correità de relato può essere validamente riscontrata esclusivamente da altra chiamata in correità pure de relato, sempre che le due chiamate abbiano autonomia genetica e siano positivamente valutate per attendibilità, specificità e convergenza.

Oltre a ciò deve osservarsi che anche il rilievo della difesa, a proposito della assenza di autonomia delle fonti dei due chiamanti in correità nella parte " de relato" è destituito di qualsiasi fondamento. Infatti, se è vero che la dichiarazione accusatoria, nella parte de relato, formulata da M.F. vede come propria fonte le riportate affermazioni di M.A.C., è vero anche che le affermazioni di M.F., nella parte riportata de relato, hanno visto come fonti non solo la moglie F. e il cugino A. (contattato nella fase di traduzione per la celebrazione di un processo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere) ma anche lo stesso imputato V.E., nel periodo in cui era ristretto, al pari del dichiarante, nel carcere di Poggioreale.

In ordine poi ai rilievi difensivi riguardanti la inattendibilità dell’affermazione di M.F. circa il colloquio, dal contenuto confessorio, avuto in carcere direttamente con il ricorrente, è appena il caso di rilevare che essi si sostanziano nella rappresentazioni della opinabilità della conclusione raggiunta dalla Corte territoriale la quale ha ritenuto riscontrata l’effettività di tale colloquio: una censura del tutto inammissibile nella sede della legittimità.

Ed invero la conclusione raggiunta dalla Corte d’appello è del tutto logica essendo fondata sulla deposizione di un dipendente della polizia penitenziaria, il maresciallo S., il quale, rimanendo nei limiti delle sue capacità dimostrative, ha ricostruito la toponomastica del carcere in termini tali da risultare del tutto compatibili con il racconto del chiamante in correità: e cioè in termini che non potevano essere quelli della prova obiettiva dell’incontro ma che sono stati, utilmente, di asseverazione, sul piano della gravità indiziaria, della credibilità del dichiarante, già acquisita aliunde.

Infine deve escludersi del tutto che sia ravvisabile il denunciato vizio della motivazione, anche nella forma del travisamento della prova, con riferimento alle contrastanti dichiarazioni del coimputato T.G..

Infatti non risponde al vero, in primo luogo, che non siano state valorizzate le sue dichiarazioni dibattimentali, tenuto conto che la Corte territoriale ha preso le mosse esattamente dal rilievo che al T. si deve una ricostruzione della vicenda in termini in parte diversi da quelli riferiti dai due chiamanti accreditati.

In secondo luogo è anche vero che la Corte territoriale ha motivato in modo del tutto esaustivo – con ciò riprendendo l’argomento enunciato in premessa – le ragioni per le quali ha ritenuto che la versione del T. non costituisse elemento probatorio attendibile e capace di contrastare validamente quella operata sulla base delle convergenti dichiarazioni dei coniugi nonchè coimputati M.. E ciò in ragione dell’atteggiamento del tutto reticente tenuto dal dichiarante nella prima fase del suo esame, per giungere poi a dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri presunti autori materiali dell’omicidio che egli stesso aveva attribuito alle parole di M.A.C., nel contempo evidenziando la possibilità che si fosse trattato di una bugia.

Non si versa dunque nella ipotesi, evocata dal difensore, secondo cui si sarebbero fronteggiate, dinanzi al giudice del merito, due opposte ricostruzioni della stessa vicenda ugualmente attendibili e capaci dunque di annullarsi vicendevolmente sul piano della tenuta probatoria, essendosi piuttosto concretizzata la fattispecie della motivata cedevolezza della ricostruzione alternativa, per questo razionalmente abbandonata dalla Corte territoriale.

Ed invero, dalle parole di T. è stata ricavata correttamente la conclusione che le confidenze di M.A.C. – non oggetto di dubbio quanto ad accadimento storico-potessero essere state fatte, nei suoi confronti, a carico di terzi, per depistarlo sul nome dell’esecutore materiale, anche in ragione di un clima di diffidenza che, diversamente da quanto sostenuto dal difensore, il T. – pure coinvolto nella fase preliminare e in quella successiva all’omicidio- ha argomentato con espressioni adeguatamente valutate in sentenza dal giudice dell’appello.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Così deciso in Roma, il 28 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2013
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