Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 29-01-2013) 16-12-2013, n. 50674

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo
1. Il 05/02/2011, la Corte di appello di Palermo riformava parzialmente la sentenza emessa dal G.u.p. del Tribunale della stessa città in data 04/12/2009, all’esito di giudizio abbreviato, in forza della quale erano stati – fra gli altri – condannati i seguenti imputati:
B.F., alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione ed Euro 800,00 di multa, per delitti di cui all’art. 416 bis c.p. capo 1) della rubrica e art. 629 c.p., D.L. n. 152 del 1991, art. 7 capo 2);
B.G., alla pena di anni 6 di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa, per delitti di cui all’art. 629 c.p., D.L. n. 152 del 1991, art. 7 capo 10);
– C.F., alla pena di anni 9 e mesi 4 di reclusione ed Euro 20.000,00 di multa, per delitti di cui all’art. 416 bis c.p. capo 1), L. Stup., art. 74 capo 3), L. n. 895 del 1967, artt. 2, 4 e 7 e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 capo 5);
– C.A., alla pena di anni 6 di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa, per delitti di cui all’art. 629 c.p., D.L. n. 152 del 1991, art. 7 capo 7);
– D.G., alla pena di anni 8 e mesi 8 di reclusione, per il delitto di cui alla L. Stup., art. 74 capo 4);
– D.S., alla pena di anni 6 di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa, per delitti di cui all’art. 629 c.p., D.L. n. 152 del 1991, art. 7 capo 7);
– D.M.R., alla pena di anni 8 di reclusione, per il delitto di cui alla L. Stup., art. 74 capo 4);
D.M.G., alla pena di anni 6 di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa, per delitti di cui all’art. 629 c.p., D.L. n. 152 del 1991, art. 7 capo 2);
– L.V.R., alla pena di anni 8 di reclusione, per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. capo 1);
– L.V.G., alla pena di anni 11 e mesi 6 di reclusione, per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. capo 15);
– M.A., alla pena di anni 6 e mesi 4 di reclusione ed Euro 2.400,00 di multa, per delitti di cui all’art. 629 c.p., D.L. n. 152 del 1991, art. 7 capi 7) e 13);
M.S., alla pena di anni 8 di reclusione, per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. capo 1);
M.R., alla pena di mesi 6 di reclusione, per il delitto di cui agli artt. 110 e 378 c.p. capo 11);
– R.L., alla pena di mesi 6 di reclusione, per il delitto di cui agli artt. 110 e 378 c.p. capo 11);
S.D., alla pena di anni 6 di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa, per delitti di cui all’art. 629 c.p., D.L. n. 152 del 1991, art. 7 capo 12);
– S.G., alla pena di anni 5 di reclusione ed Euro 20.000,00 di multa, per delitti di cui alla L. Stup., art. 73 capo 6).
I vari imputati erano altresì condannati, oltre alle pene accessorie di legge, a risarcire i danni subiti dalle parti civili rispettivamente costituite nei loro confronti; veniva quindi disposta, fra gli altri, a carico del B.F., del C.F., del D.G., del L.V.R., del L.V.G. e del M.S. la misura di sicurezza dell’assegnazione ad una casa di lavoro, per la durata di 2 anni, a pena espiata.
La Corte territoriale, nei limiti oggi di interesse, confermava in gran parte la sentenza appellata (anche) dai suddetti imputati, salvo che nei confronti del B.F. e del C. F.. Il primo si vedeva ridurre la pena inflitta ad anni 1 e mesi 4 di reclusione ed Euro 460,00 di multa, con eliminazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici; il secondo veniva assolto quanto al capo 1), per non avere egli commesso il fatto, mentre la condanna relativa al capo 3) era annullata per essere il fatto accertato diverso da quello contestato, con conseguente restituzione degli atti al Pubblico Ministero. La pena per il residuo addebito in tema di porto e detenzione di armi veniva rideterminata per lo stesso C.F. in anni 2 di reclusione ed Euro 300,00 di multa, e ne derivava l’eliminazione delle pene accessorie e della misura di sicurezza applicata a suo carico.
2. Il processo riguardava essenzialmente addebiti ex art. 416 bis c.p., e correlate attività estorsive, oggetto di contestazione ai soggetti di cui sopra quali partecipi dell’associazione mafiosa denominata "Cosa Nostra": ruolo di vertice, all’interno dell’anzidetta organizzazione, era ascritto a Lo.Pi.Sa.
e L.P.S., padre e figlio (separatamente giudicati), nella disponibilità dei quali al momento del loro arresto erano stati rinvenuti numerosi "pizzini" che – secondo l’ipotesi accusatoria – documentavano le direttive impartite o le informazioni ricevute anche a proposito delle condotte estorsive realizzate dal sodalizio.
La sentenza di appello esaminava partitamente i motivi di gravame esposti nell’interesse dei singoli imputati, giungendo alle determinazioni sopra sintetizzate; con riguardo a temi comuni alle doglianze avanzate da più appellanti, per quanto distintamente trattati in ragione delle diverse posizioni, la Corte territoriale si soffermava in particolare sulle dichiarazioni rese dai vari collaboratori di giustizia escussi nel corso delle indagini preliminari, ritenendo quelle delazioni intrinsecamente attendibili – anche in ragione del condiviso giudizio di credibilità soggettiva espresso dal G.u.p. sul conto dei collaboratori medesimi – e adeguatamente riscontrate.
Ad esempio, sulla figura del collaboratore S.M., la Corte di appello ricordava a pag. 273 che questi – contiguo a personaggi di rilievo all’interno della famiglia di San Lorenzo – aveva iniziato la propria collaborazione il 14 novembre 2008, accusandosi anche di fatti per i quali non vi erano ancora indagini a suo carico e rendendo dichiarazioni che "appaiono assistite da un elevatissimo grado di attendibilità, anche perchè traggono origine dal personale coinvolgimento del predetto nei fatti criminosi oggetto delle sue narrazioni. In ogni caso, tutte le dichiarazioni del medesimo – frutto di un patrimonio conoscitivo derivante da conoscenza diretta e (…) dal flusso continuo di informazioni circolanti all’interno dell’organismo associativo – traggono il fondamento della propria attendibilità proprio dalla vicinanza del propalante con soggetti (…) posti in posizione di assoluto rilievo al sodalizio criminoso "Cosa Nostra". Tali dichiarazioni, circostanziate relativamente al loro contenuto, appaiono dotate di non comune precisione, in riferimento ai numerosi e specifici riferimenti a luoghi e tempi dei fatti, alle modalità di svolgimento dei delitti contestati ed ai soggetti coinvolti e, ancora, ampiamente verosimili. Per quanto riguarda la genuinità e la spontaneità delle dichiarazioni – e più in generale della decisione del predetto di collaborare con l’autorità giudiziaria – non può negarsi che egli ha preso la decisione in maniera del tutto autonoma, senza ricevere pressioni nè sollecitazioni da parte di alcuno (…). Le dichiarazioni del predetto, valutate sul piano della loro intrinseca consistenza, alla luce dei criteri che l’esperienza giurisprudenziale ha nel tempo individuato, oltre che spontanee, sono apparse circostanziate, costanti e coerenti, come si desume dal contesto delle ampie risposte date agli inquirenti, con la già detta dovizia di particolari, con precisione, con abbondanza di contenuti descrittivi, non limitati al solo oggetto delle domande formulate".
Per converso, sullo specifico problema della natura de relato di buona parte delle delazioni dei collaboratori medesimi, sostenuta nei motivi di appello, la Corte sottolineava a pag. 30 (come pure a pag.
171) che "le dichiarazioni del collaboratore di giustizia su fatti e circostanze attinenti la vita e le attività di un sodalizio criminoso, appresi come componente, specie se di vertice, del sodalizio, non sono assimilabili a dichiarazioni de relato, ed assumono rilievo probatorio in presenza di validi elementi di verifica circa le modalità di acquisizione dell’informazione resa (….). Nello stesso senso, va sottolineato che in tema di dichiarazioni provenienti da collaboratore di giustizia che abbia militato all’interno di una associazione mafiosa, occorre tenere distinte le informazioni che lo stesso sia in grado di rendere in quanto riconducibili ad un patrimonio cognitivo comune a tutti gli associati di quel determinato sodalizio, dalle ordinarie dichiarazioni de relato, che non sono utilizzabili se non attraverso la particolare procedura prevista dall’art. 195 c.p.p.: alle prime deve attribuirsi efficacia probatoria ben maggiore, ma all’inquadramento nell’una o nell’altra categoria deve provvedersi con estrema cautela, tenendo conto dell’oggetto della notizia diffusa, delle modalità della sua circolazione, della caratura criminale di origine del collaboratore".
In proposito, era pertanto da considerare dirimente la presa d’atto del ruolo apicale assunto da F.F. – che già dal 2007 aveva intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia (v.
pag. 249) – all’interno di "Cosa Nostra", quale reggente della famiglia di Partanna (dato parimenti ribadito a pag. 171 della sentenza impugnata).
In alcuni casi, veniva precisato che i collaboratori di giustizia non si erano limitati a riferire quanto a loro conoscenza su reati-fine dell’associazione mafiosa, od ulteriori delitti appresi in ragione della posizione rivestita all’interno dell’organizzazione, ma si erano invece autoaccusati degli stessi addebiti oggetto delle dichiarazioni de quibus: ciò, ad esempio, a proposito di N. A., con riguardo ai fatti contestati sub 4), dal momento che il collaboratore aveva sempre ammesso "la propria partecipazione alla "società" finalizzata al traffico di stupefacenti, della quale facevano parte sia D.G. che D.M.R., oltre che lo stesso L.P.S." (pag. 167). A proposito di altri episodi, lungi dal narrare accadimenti appresi da altre fonti più o meno identificate, gli stessi collaboratori avevano fatto riferimento a quanto da loro direttamente percepito, trovando riscontri anche in attività di osservazione curate dalla polizia giudiziaria: ancora a titolo esemplificativo, alle pagg. 267 e 269 si sottolineavano i documentati rapporti fra lo stesso N.A. e L.V. R..
3. Avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo propone ricorso il difensore di B.F., Avv. M. G., affidandolo a due motivi.
3.1 Con il primo, la difesa lamenta mancanza di motivazione in ordine all’individuazione della pena pecuniaria assunta a base del computo del trattamento sanzionatorio, avendo la Corte territoriale riconosciuto in favore dell’imputato sia le circostanze attenuanti generiche che l’ulteriore diminuente prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 8 tuttavia indicando una pena base di Euro 1.500,00 di multa, superiore al minimo edittale ed anzi prossima ai massimi previsti dall’art. 629 c.p.. Secondo il ricorrente, i giudici di appello non avrebbero spiegato le ragioni di tale scelta, nè espresso una qualunque esigenza di adattare la pena inflitta alle peculiarità del caso concreto (omettendo così un minimo standard motivazionale per far ritenere adempiuto l’obbligo di esporre le ragioni della decisione e sottrarre la medesima al controllo di legittimità), tanto più che in punto di pena pecuniaria avrebbero dovuto essere seguiti i criteri indicati dall’art. 133 bis c.p. in ragione delle condizioni economiche dell’imputato, quale collaboratore di giustizia inserito nel programma di protezione.
3.2 Con il secondo motivo, la difesa deduce violazione ed erronea applicazione degli artt. 216 e 217 c.p., in ordine all’applicazione della misura di sicurezza della casa di lavoro, nonchè mancanza di motivazione relativamente allo stesso aspetto: la Corte territoriale avrebbe infatti confermato la necessità di irrogare al B. F. anche la misura di sicurezza in parola, sul solo presupposto dell’intervenuta condanna per il reato di associazione di tipo mafioso, stante il disposto dell’art. 417 c.p..
Secondo la difesa, che richiama alcuni precedenti della giurisprudenza di legittimità, è vero che il citato art. 417 stabilisce una presunzione di pericolosità del soggetto, tale da non richiedere in proposito un accertamento in concreto, ma è altresì vero che detta presunzione "può essere superata quando siano acquisiti elementi idonei ad escludere in concreto la sussistenza della pericolosità": elementi che nel caso in esame risultavano senz’altro, stante la scelta del B.F. di collaborare con la giustizia fino dal 2009, cui aveva fatto seguito una serie di dichiarazioni di estrema rilevanza da parte sua, sia etero che auto- accusatorie (come del resto ritenuto dalla stessa Corte nella pronuncia impugnata).
4. Propone altresì ricorso il difensore di B.G., Avv. R. B., a sua volta sviluppando due motivi.
4.1 Il primo riguarda la violazione ed erronea applicazione degli artt. 125, 192 e 195 c.p.p. e art. 629 c.p., nonchè la carenza di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui viene ritenuta la penale responsabilità dell’imputato.
Il ricorrente segnala che la Corte di appello avrebbe omesso di valutare il contenuto della chiamata in reità proveniente dal collaboratore F.F., ritenendo anzi che quella chiamata – pur dovendosi intendere de relato – non abbisognasse di riscontri; avrebbe errato nel ritenere autonome le chiamate in reità dello stesso F.F. e dell’ulteriore collaboratore N.A., quando invece era emerso che quest’ultimo era stato la fonte delle conoscenze del primo sui fatti di cui al processo; avrebbe infine ritenuto che le due chiamate costituissero reciproco riscontro l’una dell’altra, a dispetto delle evidente divergenze di contenuto.
Meriterebbe censura, in particolare, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui quanto riferito dal F.F. circa alcune specifiche vicende estorsive (in danno di un panificio) costituiva patrimonio conoscitivo comune per tutti gli associati, e segnatamente per chi, come appunto il F.F., rivestiva una posizione di vertice all’interno del sodalizio: tale evenienza, che fa superare la necessità di un vaglio ex art. 195 c.p.p., è però di natura eccezionale, e la giurisprudenza di legittimità la confina a situazioni in cui i fatti oggetto di propalazione riguardino eventi di rilevanza centrale nella vita dell’associazione, e non certo la possibilità che un qualunque associato, per quanto di grado elevato, dovesse necessariamente sapere che della riscossione di un "pizzo" presso un panificio fosse stato incaricato un soggetto determinato (il B.G., nella fattispecie) piuttosto che altri.
Avrebbe dovuto pertanto trovare piena applicazione il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, in base al quale "la chiamata in reità fondata su dichiarazioni de relato, per poter assurgere al rango di prova pienamente valida a carico del chiamato ed essere posta a fondamento di una pronuncia di condanna, necessita del positivo apprezzamento in ordine alla intrinseca attendibilità non solo del chiamante, ma anche delle persone che hanno fornito le notizie, oltre che dei riscontri esterni alla chiamata stessa, i quali devono avere carattere individualizzante, cioè riferirsi ad ulteriori, specifiche circostanze, strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere, essendo necessario, per la natura indiretta dell’accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa" (Cass., Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv 226090).
Inoltre, le dichiarazioni del F.F. sarebbero intrinsecamente inattendibili sia perchè egli avrebbe indicato quali responsabili dello stesso fatto anche altri soggetti ( G.A. e B.A., quest’ultimo fratello del ricorrente), mai sottoposti a indagini per assenza di riscontri, sia per non avere precisato gli importi dei versamenti estorsivi.
Non sarebbe poi possibile considerare autonoma la chiamata in reità del N.A., sia perchè il F.F. aveva indicato appunto il N.A. come propria fonte, sia perchè non era stata confermata dal secondo collaboratore la decisiva circostanza secondo cui il N.A., a dire del F. F., aveva personalmente assistito alla consegna del denaro (che il B.G. aveva appena ricevuto dalle vittime dell’estorsione) dallo stesso B.G. al G.A..
Più in particolare, il N.A. aveva invece sostenuto che un altro associato gli aveva riferito di aver saputo dal G. A. che il B.G. aveva richiesto un pagamento estorsivo senza però che la somma fosse stata recapitata al sodalizio, mentre dopo l’arresto del B.G. altri soggetti erano stati inviati presso il panificio per richiedere il "pizzo", con le vittime a ribattere di non dovere nulla perchè già avevano versato il dovuto all’odierno ricorrente.
Mancherebbe dunque anche la possibilità, dato il contrasto su aspetti essenziali, di ritenere che le due chiamate – peraltro, entrambe de relato – vengano a riscontrarsi vicendevolmente. Nè sarebbe corretto riconoscere valenza di riscontro ad uno dei "pizzini" acquisiti dopo l’arresto dei L.P., figure apicali dell’associazione mafiosa, dove si parla sì di un forno, che tuttavia non è quello menzionato dal N.A., nè coincidono i periodi o gli importi delle presunte estorsioni. Va infine tenuto presente che le stesse vittime hanno negato di avere effettuato pagamenti, sostenendo anche di conoscere il B. G. come semplice cliente del panificio.
4.2 Con il secondo motivo, il difensore del B.G. lamenta violazione ed erronea applicazione degli artt. 62 bis e 133 c.p., nonchè mancanza di motivazione in punto di negazione delle attenuanti generiche in favore dell’imputato e di quantificazione del trattamento sanzionatorio a lui inflitto. Rileva la difesa che il mero riferimento alla gravità dell’addebito, in quanto asseritamente commesso in collegamento con una organizzazione mafiosa, appare apodittico, non essendo neppure contestato al B.G. di aver posto in essere atti violenti o minacciosi; inoltre, l’avere comminato una pena così rigorosa ha comportato di fatto la vanificazione del carattere premiale del giudizio abbreviato, tanto più che in sede di rito ordinario alcuni coimputati hanno beneficiato di condanne più miti, con la concessione delle attenuanti negate al ricorrente.
4.3 Con atto depositato il 14/01/2013, il nuovo difensore del B. G., Avv. S. M., ha presentato motivi nuovi di ricorso, ancora deducendo violazione dell’art. 192, comma 3, del codice di rito.
Nell’interesse del ricorrente si segnala la recente sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte del 29/11/2012 (ric. Aquilina) che, pur non essendo al tempo di questa decisione, nota nelle motivazioni, ha affrontato il problema della valutazione di dichiarazioni accusatorie de relato, affermando – per quanto desumibile dalla relativa informazione provvisoria – che una chiamata in reità od in correità de relato possa anche trovare unico riscontro in altra chiamata parimenti de relato, a condizione però che le due chiamate "abbiano autonomia genetica e siano positivamente valutate per attendibilità, specificità e convergenza". Richiamate quindi le dichiarazioni dei collaboratori F.F. e N.A., che – almeno in ordine alla posizione del B.G. – rivestono secondo la difesa natura pacificamente indiretta, nel motivo nuovo si rappresenta che il contenuto di tali dichiarazioni non appare connotato dai requisiti di specificità e convergenza, difettando al contempo la prova di una autonomia genetica dei rispettivi narrati dei due collaboratori (nessuno dei quali ha infatti precisato dove ebbe ad attingere le informazioni avute sulla vicenda dell’estorsione contestata all’imputato, mentre il N.A. ha addirittura riferito di avere parlato di quei fatti con lo stesso F. F., facendo supporre un verosimile rapporto di derivazione delle dichiarazioni dell’altro collaboratore da quanto egli ebbe a confidargli).
Il difensore del B.G. sostiene quindi la non condivisibilità dell’argomento utilizzato nella motivazione della sentenza impugnata, secondo cui le dichiarazioni di un collaboratore su fatti appresi all’interno del sodalizio criminale di appartenenza, specie se il collaboratore in questione vi aveva assunto un ruolo di vertice, non potrebbero intendersi propriamente de relato: si tratta infatti di una tesi da considerare incompatibile con il principio di diritto appena affermato dalle Sezioni Unite, atteso che nella presupposta ordinanza di rimessione si precisava chiaramente come il caso sub judice non potesse trovare soluzione invocando quell’interpretazione giurisprudenziale.
Ad ogni modo, secondo il ricorrente le dichiarazioni da intendere patrimonio di conoscenza comune all’interno di un’associazione mafiosa non potrebbero che essere quelle relative a fatti salienti e di estrema rilevanza per la vita del sodalizio, dovendosi invece escludere le vicende di carattere ordinario, per quanto concementi la realizzazione dei reati-scopo della consorteria criminale. Si sottolinea altresì la mancanza di qualsiasi verifica delle dichiarazioni del N.A. e del F.F. sul piano estrinseco, e l’impossibilità di riconoscere al "pizzino" indicato come F5 (rinvenuto nella disponibilità dei L.P., presunti capi del sodalizio) valenza di riscontro alle dichiarazioni medesime: tale documento, come segnalato anche nei motivi di ricorso presentati nell’interesse degli imputati R.L. e M. R., descrive un fatto di incerta natura estorsiva, per importi diversi da quelli menzionati dai collaboratori e risalente a periodo assai anteriore.
5. Propongono quindi ricorso, articolato parimenti in due motivi, i difensori di C.F., Avv.ti R. B. ed E. S..
5.1 Con il primo motivo, si deduce violazione ed erronea applicazione degli artt. 125 e 192 c.p.p., della L. n. 895 del 1967, artt. 2, 4 e 7 nonchè mancanza di motivazione quanto alla affermata responsabilità penale dell’imputato per il delitto di porto e detenzione di armi, basata sulle dichiarazioni dei già ricordati collaboratori N.A. e F.F..
Secondo la difesa, in particolare, non sarebbe corretto ritenere che questi ultimi abbiano riferito versioni concordi su uno specifico fatto materiale, avendo essi – a proposito di armi di cui il C.F. sarebbe stato in possesso -menzionato circostanze non collimanti (stando al N.A., il F.F. gli aveva chiesto un’arma e lo stesso N.A. gli aveva risposto di sapere che il C.F. ne aveva una, dopo di che il F.F. l’aveva chiesta autonomamente all’odierno ricorrente, il N.A. se l’era fatta dare tramite L. V.R. e l’aveva consegnata allo stesso F. F., che infine l’aveva regalata a L.P.S.;
secondo invece il F.F., la pistola era fin dall’inizio destinata al L.P.S., che anzi ne aveva fatto richiesta diretta al N.A., e comunque era stata consegnata dal C.F. motu proprio al N.A. e non con l’intermediazione del L.V.R.).
5.2 Con il secondo motivo di ricorso, i difensori dell’imputato lamentano violazione ed erronea applicazione degli artt. 125 e 192 c.p.p., e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 nonchè mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di avere il C.F. agito per favorire un’associazione di tipo mafioso, fondata dalla Corte di appello sulla sola presa d’atto della esistenza di rapporti pregressi tra lo stesso imputato e il F.F., ma senza che sia stato dimostrata la consapevolezza in capo al ricorrente del presunto ruolo rivestito dall’altro all’interno del sodalizio criminale.
6. Anche C.A. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza del 05/02/2011, con atto personalmente sottoscritto in cui deduce due motivi.
6.1 Con il primo, l’imputato lamenta violazione ed erronea applicazione dell’art. 62 bis c.p., in punto di negazione delle attenuanti generiche, che egli avrebbe sicuramente meritato in ragione dei contributi alle indagini offerti nel corso dei vari interrogatori da lui resi, già considerati rilevanti al fine della revoca della misura cautelare a suo tempo applicatagli; la motivazione della sentenza impugnata dovrebbe perciò ritenersi contraddittoria, anche in ragione della ribadita significatività delle dichiarazioni etero-accusatorie del ricorrente per affermare la penale responsabilità di alcuni coimputati.
6.2 Con il secondo, il C.A. rappresenta violazione ed erronea applicazione del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 dal momento che "non si comprenderebbe in cosa consisterebbe la agevolazione a "Cosa Nostra" in assenza di ingiusto profitto del soggetto agente già affiliato mafioso", e considerando l’impossibilità di affermare che il fondamento dell’aggravante in esame si esaurisca nella mera appartenenza di un soggetto ad un’associazione mafiosa.
7. Propone ricorso anche il difensore di D.G., Avv. A. T..
Nell’unico motivo di gravame, il ricorrente prospetta violazione ed erronea applicazione dell’art. 530 c.p.p., art. 416 bis c.p. e L. Stup., art. 74 nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione in punto di affermazione della penale responsabilità dell’imputato.
Osserva la difesa che la prova del coinvolgimento del D. G. nel sodalizio criminoso, manifestatosi da un lato attraverso attività di smercio di stupefacenti e dall’altro mediante condotte di tipo intimidatorio o "spedizioni punitive", si ricaverebbe secondo la Corte di appello dalle dichiarazioni dei collaboratori F.F., N.A. e B. A.: nessuno di costoro, tuttavia, aveva indicato il ricorrente come un affiliato, nè descritto comportamenti concreti da lui posti in essere, tali da esprimere un suo status di partecipe dell’associazione. La Corte territoriale non avrebbe poi considerato adeguatamente la circostanza che il Tribunale del riesame aveva a suo tempo annullato per carenza di gravi indizi l’ordinanza restrittiva inizialmente emessa nei confronti del D.G.: in proposito, i giudici di appello segnalano che i contributi di maggior rilievo a carico del prevenuto sarebbero derivati da acquisizioni istruttorie successive, in particolare dall’audizione dei collaboranti nel corso dell’udienza preliminare, ma senza specificare quali sarebbero stati gli elementi di novità che costoro avrebbero apportato.
Nessun rilievo dovrebbe poi assumere, secondo la difesa, la presunta partecipazione del D.G. ad un pranzo al quale sarebbe stato presente un personaggio vicino al noto latitante M. D.M., giacchè il N.A. – nel riferire in merito all’episodio – aveva comunque chiarito che il ricorrente era stato tenuto all’oscuro sia quanto alle conoscenze del commensale sia a proposito del contenuto delle conversazioni intercorse fra gli altri presenti.
Illogica appare altresì, secondo il ricorrente, la riconosciuta significatività delle dichiarazioni del F.F., stando al quale L.P.S. gli aveva rappresentato preoccupazioni sul fatto che qualcuno stesse mettendo gli occhi sul D. G., il che non conferma la fiducia del L.P.S. verso il D.G., ma semmai la circostanza che – se il L. P.S. confidava di poter utilizzare il ricorrente per gli scopi dell’associazione, e temeva che altri l’avrebbero impedito – fino a quel momento il D.G. era estraneo all’organizzazione.
Del tutto neutro dovrebbe poi considerarsi l’episodio, narrato dal N.A., circa l’utilizzo da parte sua di un ciclomotore del D.G., grazie al quale si recava presso il rifugio del F.F., allora latitante: da ciò non emergerebbe la prova di alcun contributo consapevolmente offerto dal ricorrente per favorire la predetta latitanza. Quanto alla partecipazione del D. G. al pestaggio in danno del fratello dell’imprenditore Fe.Ro., la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che la vicenda – parimenti menzionata dal collaboratore N. A. -non aveva nulla a che fare con le dinamiche della criminalità organizzata: era stato invece Salvatore D.M. R., per rivalersi verso il Fe.Ro. giacchè costui gli aveva licenziato il fratello D.M.B. a seguito di un diverbio, ad organizzare il tutto senza implicazioni di sorta per Cosa Nostra, tant’è che lo stesso Fe.Ro. si era lamentato dell’accaduto con il reggente della famiglia di Carini, che aveva chiamato a sè il D.M.R. per raccoglierne le giustificazioni (sentendosi dire appunto che era stata una ragazzata estemporanea). Anche la circostanza che il D.G. non partecipò a quelle occasioni di chiarimento confermerebbe la sua estraneità a qualunque sodalizio mafioso.
Il ricorrente censura poi la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la responsabilità del D.G. in ordine alla partecipazione all’associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74 risulta essere stata desunta solo sulla base della presunta prova dell’essere egli compartecipe del sodalizio mafioso, tanto più che del gruppo interessato al commercio degli stupefacenti non sarebbero state chiarite nè l’epoca di costituzione nè la data a partire dalla quale l’imputato vi avrebbe aderito o quando egli avrebbe cessato di farvi parte (in ipotesi, certamente non oltre l’ottobre 2005, visto che il D.G. fu allora arrestato per altri fatti). Dovrebbe peraltro escludersi che le dichiarazioni dei collaboratori F.F. e B.A. vadano a corroborare quelle del N.A., da cui proviene l’unica chiamata in reità diretta, atteso che il F.F. riferisce episodi appresi dallo stesso N.A. mentre il B.A. rende dichiarazioni che la difesa reputa "del tutto generiche e prive di adeguati riscontri".
8. Nell’interesse di D.S. propone ricorso l’Avv. S. P., sviluppando un unico, articolato motivo con il quale deduce mancanza ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata, nonchè travisamento dei fatti.
La responsabilità dell’imputato sarebbe stata infatti ritenuta sulla base delle dichiarazioni della persona offesa B.M., riscontrate dal socio di costui ( Fa.Gi.) nella gestione della ditta "Sala Trattenimenti Alba": costoro avrebbero effettuato un riconoscimento fotografico del D.S. quale percettore di somme provento di estorsione; dette dichiarazioni sarebbero state riscontrate dal contributo dei collaboratori di giustizia F. F. e N.A., nonchè dalla confessione del coimputato C.A.. In realtà, il B.M. non aveva mai avuto contatti di sorta con il D.S., visto che l’uomo incaricato di ricevere il "pizzo" dopo l’arresto del primo percettore (che era appunto il C.A.) si incontrò soltanto con il Fa.Gi.: perciò, fu solo quest’ultimo a poter riconoscere da una foto apparsa su un giornale, dopo che il D.S. era stato a sua volta arrestato, il soggetto che si era presentato come amico di C.T. a richiedere la prosecuzione dei pagamenti. Il riconoscimento del B. M. fu dunque solo indiretto e de relato, sulla base della descrizione fisica effettuata dal Fa.Gi.: un riconoscimento che la difesa definisce "a dir poco contorto e sicuramente indice di non spontaneità dello stesso", perciò bisognevole di riscontri esterni.
Lo stesso Fa.Gi., inoltre, all’atto della sua escussione da parte degli inquirenti, non risulta secondo la ricostruzione difensiva avere riconosciuto nella foto ritraente l’imputato l’uomo cui aveva corrisposto per un paio di volte i pagamenti estorsivi, ma solo quel D.S. del quale aveva visto la foto sul giornale; più correttamente, egli "riconosceva nella foto mostrata le sembianze del soggetto che all’atto della pubblicazione della foto sui giornali per il suo arresto somigliava al soggetto che una o due volte si era presentato asseritamente in sostituzione del C. A.", risolvendosi il tutto in uno "pseudo riconoscimento fotografico".
Il C.A., secondo la ricostruzione del ricorrente, non aveva comunque menzionato fra i correi D.S., mentre dal F.F. e dal N.A. sarebbe venuto un contributo in antitesi rispetto all’impianto accusatorio, dal momento che essi non risultano avere menzionato il D.S. come percettore di quelle somme, aggiungendo il primo che l’estorsione aveva come destinatala la famiglia di Resuttana e non quella di Partanna (cui, in ipotesi, sarebbe stato affiliato il ricorrente).
Anche i "pizzini" rinvenuti dopo l’arresto dei L.P. smentirebbero le accuse in danno del D.S., visto che se ne trovarono due con annotazioni relative all’estorsione in pregiudizio della Sala Trattenimenti Alba, ma senza alcuna menzione dell’imputato.
In definitiva, la difesa invoca la giurisprudenza di legittimità che in tema di dichiarazioni della persona offesa quale unico elemento di prova a carico dell’imputato impone un vaglio di particolare rigore e la necessità di acquisire elementi esterni di riscontro.
9. Propone quindi ricorso il difensore di D.M.R. Avv. R. B., ancora una volta affidato a due motivi.
9.1 Il primo motivo riguarda la violazione ed erronea applicazione degli artt. 125, 190, 191, 192, 194, 195 e 546 c.p.p. e T.U. Stup., art. 74 nonchè il difetto di motivazione della sentenza impugnata, circa la ritenuta responsabilità penale dell’imputato.
Il ricorrente segnala che il G.u.p. del Tribunale di Palermo aveva ravvisato nelle dichiarazioni dei collaboratori F.F. e B.A. elementi di riscontro alla chiamata in reità proveniente dal N.A., circa la partecipazione del D. M.R. a un sodalizio criminoso in tema di stupefacenti:
malgrado specifici motivi di appello, fondati tra l’altro sul rilievo che non poteva parlarsi di riscontri in presenza di dichiarazioni che, come quelle del F.F. e del B.A., trovavano la propria fonte di conoscenza in quanto riferito a costoro dallo stesso N.A., nonchè sulla circostanza che non si trattava in ogni caso di riscontri individualizzanti sulla posizione del D.M.R., come invece imposto dalla giurisprudenza di legittimità, i giudici di secondo grado risultano aver confermato le valutazioni del G.u.p. sulla base di argomentazioni illogiche.
Anche per la posizione del ricorrente in esame dovrebbe poi censurarsi l’affermazione della Corte territoriale secondo cui quanto riferito dal F.F. sulla presunta associazione D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74 costituiva patrimonio conoscitivo comune per tutti gli associati, e segnatamente per chi, come appunto il F.F., rivestiva una posizione di vertice all’interno del sodalizio: il difensore, come già per il B.G., segnala però che tale evenienza deve essere limitata a situazioni in cui i fatti oggetto di propalazione riguardino eventi di rilevanza centrale nella vita dell’associazione, e non certo la possibilità che un qualunque associato, per quanto di grado elevato, dovesse necessariamente sapere come ed attraverso chi fosse stato organizzato uno dei settori dell’attività del sodalizio. Manifestamente illogica sarebbe poi l’affermazione della Corte di appello secondo cui le informazioni sull’associazione relativa agli stupefacenti erano da ritenere di dominio comune tra i capi dell’organizzazione in quanto sarebbe stato proprio L.P.S. (secondo le asserzioni del N.A.) ad autorizzarne la costituzione: ciò perchè allo stesso L.P.S. non risulta essere mai stato contestato neppure di avervi aderito come partecipe.
Assolutamente generiche sarebbero inoltre le dichiarazioni del F.F. circa presunti rapporti avuti con il N. A. per la vendita di una parte, mai precisata nel quantitativo, di una fornitura di hashish pari a 500 kg. complessivi, in occasione dei quali il N.A. sarebbe stato solo accompagnato dal D.M.R.; analogamente, il B. A. si sarebbe limitato a indicare il D.M.R. come "socio" del N.A., riferendo di episodi di presunte cessioni di cocaina (peraltro il N.A., pure ammettendo di avere realizzato transazioni in tema di droga, non ha mai indicato il B.A. come suo fornitore od acquirente).
9.2 Con il secondo motivo si prospetta violazione ed erronea applicazione degli artt. 62 bis e 133 c.p., nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in punto di negazione delle attenuanti generiche e di quantificazione del trattamento sanzionatorio, fra l’altro in ordine all’individuazione di una pena base sensibilmente superiore al minimo edittale a dispetto del ruolo marginale rivestito dal D.M.R. all’interno dell’associazione. Il ricorrente deduce in particolare che le attenuanti in parola sarebbero state escluse in virtù del collegamento del sodalizio in tema di stupefacenti con l’organizzazione facente capo ai L.P., smentendo così l’affermazione precedente secondo cui la consorteria D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74 aveva agito all’infuori delle dinamiche mafiose.
10. Il difensore di D.M.G., Avv. G. S., propone ricorso per cassazione articolato in tre motivi.
10.1 Con il primo, deduce mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, nonchè erronea applicazione dell’art. 192 c.p.p.; il ricorrente lamenta la mera riproduzione testuale, da parte della Corte di appello, di passi della sentenza del giudice di prime cure con riguardo all’indicazione delle ragioni a sostegno della condanna del D.M.G.: ciò a dispetto di specifiche doglianze avanzate in sede di impugnazione, concernenti soprattutto l’impossibilità di aderire alla ricostruzione offerta dalla persona offesa T.G. circa l’interpretazione di uno dei "pizzini" rinvenuti nella disponibilità dei L.P. (in cui si faceva riferimento alla verosimile estorsione in danno della ditta "Mar", quando invece il T. G. lamentava un’estorsione in danno della società "Iregel", e la "Mar" era soltanto l’affittuaria di un immobile di proprietà della "Iregel") e le divergenze emerse fra la ricostruzione dello stesso T.G. e quella offerta dal coimputato B. F., collaboratore di giustizia.
Inoltre, il contenuto del "pizzino" non potrebbe ritenersi collimante con le dichiarazioni del T.G. e del B. F., con quest’ultimo peraltro a riprodurre il contenuto delle dichiarazioni del T.G. solo dopo averne avuto contezza attraverso la notifica dell’ordinanza di custodia cautelare a suo carico, circa date ed importi delle presunte estorsioni, oltre a doversi considerare che, mentre il B.F. riferisce di aver ricevuto più volte dal T.G. (denominato come "calamaro") denaro destinato al D.M.G., con la partecipazione di tale I., lo stesso T.G. non menziona mai altri intermediari.
10.2 Con il secondo motivo, il difensore dell’imputato lamenta mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, in relazione all’art. 125 c.p.p., essendo stata data per ammessa la riferibilità al D.M.G. del ricordato "pizzino" attraverso una perizia compiuta solo su copie fotostatiche e non su originali, senza reputare poi necessari ulteriori accertamenti grafologici malgrado specifiche osservazioni tecniche su quell’elaborato peritale.
10.3 Con il terzo, si rappresenta infine inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 133 c.p., travisamento di prova e difetto di motivazione circa la ritenuta sussistenza dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 e l’esclusione delle attenuanti generiche. Fra l’altro, la difesa evidenzia che non sarebbe stato acquisito alcun riscontro alla narrazione del T.G. su presunte minacce rivolte dal D.M.G. ad un ignoto imprenditore che stava effettuando scavi per la costruzione di un immobile di proprietà dello stesso T.G., episodio sul quale risulta fondata la ravvisabilità dell’aggravante ricordata.
11. L’Avv. R. B. impugna la sentenza indicata in epigrafe anche quale difensore di L.V.R.. proponendo due motivi di ricorso.
11.1 Nell’interesse del L.V.R. si deduce violazione ed erronea applicazione degli artt. 125, 190, 191, 192, 194, 195 e 546 c.p.p. e art. 416 bis c.p., circa la ritenuta responsabilità penale dell’imputato; la motivazione della sentenza de qua sarebbe innanzi tutto illogica, in quanto una delle condotte in cui si sarebbe concretizzato il contributo del L.V.R. all’associazione mafiosa risulta l’avere egli trasportato e ceduto armi ad altri componenti del sodalizio, ma dall’addebito di detenzione di armi – che si fondava sulle stesse dichiarazioni del collaboratore N. A., ritenute però a quel fine prive di riscontri – l’imputato era stato assolto già in primo grado. Non vi sarebbe poi riscontro alle dichiarazioni del N.A. neppure quanto all’avere il L.V.R. favorito la latitanza dell’altro collaboratore F.F., atteso che quest’ultimo aveva al contrario dichiarato di averlo incontrato nel luogo dove si nascondeva (ma solo perchè il L.V.R. conosceva il proprietario dell’immobile) e di esserne rimasto financo seccato: anche sul punto, la Corte di appello avrebbe fatto ricorso ad argomentazioni illogiche per ravvisare comunque nel narrato del F.F. un riscontro a quello del N.A..
In ordine all’avere il L.V.R. riscosso pagamenti estorsivi per conto della famiglia di Partanna-Mondello, non vi sarebbe parimenti possibilità di ritenere collimanti i contributi del F.F. e del N.A., sì da escludere che le dichiarazioni dell’uno costituiscano riscontro a quelle dell’altro, ed ancor meno che possa qualificarsi detto ipotetico riscontro come individualizzante per la posizione del L.V. R.. Al massimo, potrebbe ritenersi provato che tra il N. A. e il L.V.R. vi erano rapporti di frequentazione, mentre nulla di concreto sarebbe emerso circa vicende estorsive, avendo fra l’altro i due collaboratori ascritto all’imputato la responsabilità per condotte di riscossione del "pizzo" in danno di imprenditori diversi: sull’episodio riferito dal F.F., va registrato che egli aveva indicato fra gli autori dell’estorsione anche il N.A., ma quest’ultimo non aveva mai fatto parola di quella vicenda.
La difesa del L.V.R. esclude infine che possa riconoscersi rilievo al contributo di S.M., che in un interrogatorio del 2008 si era limitato a indicare l’imputato come soggetto che avrebbe coadiuvato C.F. nella gestione del mandamento di San Lorenzo, senza descriverne alcun comportamento specifico.
11.2 Con il secondo motivo si lamenta violazione ed erronea applicazione di legge sostanziale, per essere stato applicato all’imputato un duplice aumento dovuto a distinte circostanze aggravanti ad effetto speciale (quelle di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6), in violazione del meccanismo di computo disegnato dall’art. 63 c.p., comma 4, secondo cui deve essere applicata solo la pena prevista per la più grave tra le circostanze ad effetto speciale, salva la facoltà del giudice di aumentarla.
11.3 Con atto depositato l’ll/01/2013, lo stesso Avv. B. ha presentato motivi nuovi di ricorso, lamentando inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 416 bis c.p., comma 6, nonchè difetto di motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta ravvisabilità dell’aggravante de qua. Il difensore rappresenta che il mero richiamo alla natura oggettiva della circostanza in esame non può intendersi sufficiente a fornire la prova della consapevolezza in capo a tutti gli associati della finalità di reimpiego dei proventi delle condotte illecite in attività d’impresa, come già ritenuto in una recente decisione di questa stessa Sezione.
12. Propone quindi ricorso l’Avv. S. F., nell’interesse di L.V.G.: il gravame è affidato a tre motivi.
12.1 Con il primo, la difesa deduce omesso esame di uno specifico motivo di appello sviluppato in ordine alla ritenuta inutilizzabilità delle intercettazioni tra presenti effettuate nel corso del procedimento, atteso che le conversazioni acquisite sarebbero state registrate con modalità differenti da quelle disposte nel decreto che aveva disposto darvisi esecuzione; peraltro la questione, secondo la prospettazione difensiva, non sarebbe stata colta dalla Corte territoriale nella sua esatta portata.
Il difensore del L.V.G. aveva infatti segnalato la necessità di dichiarare inutilizzabili le intercettazioni di cui ai decreti nn. 1457, 1873 e 2910 del 2008: tuttavia, mentre il profilo di vizio afferente le operazioni di cui agli ultimi due decreti citati riguardava l’esecuzione delle operazioni con impianti diversi da quelli allestiti presso il competente ufficio del P.M. (senza che fosse stata motivata la inidoneità o indisponibilità di quelli esistenti), per le intercettazioni di cui al n. 1457/2008 si era rilevato che il relativo decreto disponeva l’utilizzazione di impianti presi a noleggio, con facoltà di ascolto remotizzato, fermo restando però che la registrazione delle conversazioni, per quanto compiuta con quelle apparecchiature peculiari, avrebbe dovuto compiersi presso la Procura della Repubblica, come imposto dalla giurisprudenza di legittimità richiamata dal ricorrente. In altre parole, l’irregolarità lamentata, tale da dover comportare l’inutilizzabilità dei risultati delle captazioni de quibus, non riguardava il tipo di impianto che era stato usato, ma il luogo dove (a prescindere dalla facoltà di "rimbalzo" connessa all’ascolto remotizzato) erano state materialmente registrate le conversazioni:
doveva perciò intendersi del tutto carente la motivazione della sentenza impugnata, che nel rigettare l’eccezione si era limitata a dare atto di avere esaminato il decreto autorizzativo n. 1457, riscontrandone la conformità ai requisiti di legge.
La difesa del L.V.G. segnala altresì che ai fini delle anzidette intercettazioni non risultava essere stato emesso alcun provvedimento di autorizzazione all’immissione di uno strumento captativo nel luogo di privata dimora dove si svolgevano le conversazioni da monitorare: a riguardo, viene evidenziato che il problema – già esistente nei casi in cui il posizionamento di una microspia avvenga all’esito di atti tipici previsti dal codice di rito (ad esempio, perquisizioni od ispezioni) – assume particolare rilevanza laddove una attività formale manchi, e si deve pertanto presumere sia stata compiuta una attività meramente materiale, della quale l’ordinamento non può che imporre una rigorosa documentazione.
Ritiene il ricorrente che a conforto di tale conclusione "militano non soltanto i principi generali del sistema, che escludono che possa essere conforme al sistema stesso qualsivoglia attività di riflesso processuale della quale non si abbia documentazione, ma le regole stesse poste a presidio della conoscibilità di quanto effettuato proprio in tema di intercettazione, se è vero, come è vero, che l’art. 267 c.p.p. prevede che il decreto del P.M. che dispone l’intercettazione debba indicare le modalità e la durata delle stesse".
In ordine a tale aspetto, la difesa del L.V.G. sollecita la proposizione di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 266, comma 2, del codice di rito, e del D.L. n. 152 del 1991, art. 13 del in relazione all’art. 14 Cost., negli stessi termini già segnalati dalla Sezione Terza di questa Corte (con ordinanza n. 29169 del 10/07/2003), ovvero nella parte in cui dette norme "consentono, fra le modalità operative delle captazioni di conversazioni, la collocazione di microspia all’interno di un luogo di privata dimora con l’uso di mezzi fraudolenti, in assenza di una specifica disciplina legislativa che tassativamente indichi i casi e i modi in cui sia consentita la limitazione della libertà domiciliare". Nel ricorso si ricorda che il giudice delle leggi ritenne inammissibile la questione allora proposta, ma solo per insufficiente motivazione circa la rilevanza della medesima nel caso concreto: nel contempo, venne comunque affermata (con ordinanza n. 251 del 2004) la necessità che le modalità concernenti l’ingresso in luoghi di privata dimora, al fine di collocarvi apparati strumentali ad intercettazioni di comunicazioni fra presenti, fossero determinate dall’autorità giudiziaria, piuttosto che essere rimesse alla p.g. delegata al compimento delle operazioni.
Dovrebbe pertanto intendersi del tutto superato l’orientamento tradizionale secondo cui l’ufficiale di polizia giudiziaria incaricato di curare le intercettazioni si troverebbe ipso facto autorizzato ad entrare in un luogo di privata dimora, anche clandestinamente, essendo quella una "naturale modalità attuativa" dell’ordine ricevuto; ciò anche avuto riguardo alle indicazioni fornite dalla giurisprudenza sovranazionale (di cui il ricorrente offre specifici richiami), avendo la Corte europea dei diritti dell’uomo più volte affermato che, "stante "l’assoluta clandestinità di ogni intercettazione compiuta con l’impiego di strumenti di captazione", l’ingerenza nella vita privata, ovunque si svolga, attraverso l’utilizzazione di tali strumenti deve essere sempre "minuziosamente disciplinata dalla legge, non soltanto in relazione ai casi nei quali essa può essere attuata, ma anche nel modo attraverso il quale i dispositivi di intercettazione sono introdotti ed utilizzati".
12.2 Con il secondo motivo, il difensore del L.V.G. lamenta inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 192 e 526 c.p.p., nonchè vizio di motivazione, per illogicità della stessa, ed omesso esame di dati probatori già segnalati nell’atto di appello.
Il ricorrente rappresenta che il ruolo dell’imputato nell’ambito dell’associazione mafiosa sarebbe desumibile, stando ai giudici di merito, dal contenuto di una conversazione intercettata il 20 giugno 2008, in cui alcuni soggetti (inseriti nel gruppo dei c.d.
"dissidenti") lo avevano indicato come persona designata a ricostituire la struttura provinciale di "Cosa Nostra", con ruolo apicale; tuttavia, altre intercettazioni nel frattempo disposte (e che riguardavano non già i dissidenti, bensì coloro che si incontravano appunto per realizzare quel progetto) dimostrerebbero il contrario, non risultandovi mai nominato il L.V.G..
In ogni caso, ad avviso della difesa, un colloquio avvenuto senza la partecipazione diretta della persona cui i fatti oggetto della conversazione si riferiscano non può assurgere a prova piena dei fatti in argomento, in assenza di "elementi concreti che confermino aliunde, non tanto la certa individuazione del soggetto, quanto la effettiva commissione delle fattispecie ipotizzate". Ciò perchè, "mentre è del tutto agevole trarre logicamente la conclusione circa la verità del fatto dall’uso esplicito dei termini che i dialoganti facciano riferiti ad essi – tanto che la confessione recepita in intercettazione è in sè prova della responsabilità (…) – appare relegata nel rango del mero indizio l’interpretazione di qualsivoglia altro dialogo, con la conseguente necessità che, nel caso in cui esso si svolga inter alios, ricorrano altri elementi idonei a formare e definire il giudizio, secondo il criterio della concordanza indiziaria dettato dall’art. 192 c.p.p.".
Un riscontro non potrebbe rinvenirsi, inoltre, nelle dichiarazioni del collaboratore S.M., il quale aveva sostenuto che il L.V.G., una volta espiata la pena comminatagli a seguito di precedenti reati, si era dedicato ad attività lecite, salvo poi ricordare – in un successivo interrogatorio – che era stato l’imputato a garantire la sua affidabilità nel momento in cui aveva ripreso ad interessarsi del settore delle estorsioni: al di là della contraddizione interna al narrato dello S.M., rimasto comunque isolato, il fatto sul quale egli aveva riferito non aveva nulla a che vedere con quelli desumibili dall’intercettazione del 20 giugno 2008.
12.3 Il terzo motivo di ricorso afferisce alla censura di omessa motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, anche per quanto riguarda l’individuazione del reato più grave tra quelli considerati e l’entità dell’aumento per la ritenuta continuazione.
Ricordato che, nei motivi di appello, la difesa aveva lamentato l’indicazione di una pena base ben al di sopra dei minimi edittali, a dispetto di un contegno dell’imputato che – nell’ambito della fattispecie associativa – avrebbe dovuto considerarsi "evanescente", il ricorrente si duole del riconoscimento di quello ex art. 416 bis c.p. come delitto di maggiore gravità: pure ammettendo che, in ragione del tempus commissi delicti, al L.V.G. fosse applicabile la più gravosa disciplina oggi in vigore, "l’ipotesi di partecipazione ad associazione di tipo mafioso armata è punita nel massimo con pena pari a 15 anni di reclusione; di molto inferiore, quindi, ai 20 anni di reclusione che segnano il massimo della pena per l’estorsione aggravata oggetto del precedente giudicato".
12.4 Anche per il L.V.G. risultano depositati motivi nuovi, con atto a firma dell’Avv. R. V. depositato il 09/01/2013.
Nell’interesse del ricorrente si deduce inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6: le due aggravanti ricordate risultano infatti applicate sulla base di un automatismo che deve ritenersi contra legem, in difetto di elementi probatori o quanto meno indiziari che attestino la disponibilità di armi ed il reinvestimento dei ricavi illeciti, e la relativa partecipazione psicologica dell’imputato.
13. Propone a sua volta ricorso – che si fonda su quattro motivi, in ciascuno dei quali si rappresenta violazione dell’art. 111 Cost. – il difensore di M.A., Avv. A. V..
13.1 Con il primo motivo, la difesa deduce inosservanza dell’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, nonchè carenze motivazionali della sentenza impugnata: in particolare, risulterebbero non essere state rispettate le regole di valutazione della prova in tema di chiamata in reità/correità (nel caso di specie, con riguardo ai collaboratori di giustizia F.F., N.A. e B. A., rimaste prive di riscontri esterni) e di dichiarazioni rese dalle persone offese B.M., Fa.Gi. e Co..
Fra l’altro, il ricorrente evidenzia che l’unica dichiarazione circostanziata resa da uno dei suddetti collaboratori sul conto del M.A. appare da ascrivere al N.A., che aveva affermato di avere assistito personalmente ad un episodio in cui l’imputato aveva ricevuto somme di denaro da una presunta vittima di estorsione: ma gli altri collaboratori non offrono adeguato riscontro, atteso che il F.F. menziona soltanto confidenze che altri (mai escussi a riprova) gli avevano fatto circa le suddette attività del M.A., mentre il B. A. indica come fonte della propria conoscenza lo stesso N. A.. A riguardo, nel ricorso si segnalano precedenti giurisprudenziali di legittimità circa la valutazione di chiamate de relato.
Quanto alle persone offese, manca nella sentenza della Corte di appello di Palermo – secondo il difensore del M.A. – un opportuno vaglio di attendibilità sui vari dichiaranti, vieppiù a seguito della loro costituzione quali parti civili, dunque nella veste di soggetti interessati ad ottenere la condanna dell’imputato:
un siffatto controllo non risulta essere stato esercitato, nè sulle persone offese sul piano soggettivo, nè sulla credibilità delle rispettive propalazioni.
13.2 Con il secondo motivo, si lamenta inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 629 c.p., comma 2, in relazione al disposto dell’art. 628, comma 3, dello stesso codice: l’aggravante ad effetto speciale che deriva, per una condotta di estorsione, dalla presa d’atto che il soggetto attivo risulta appartenere ad un sodalizio mafioso (senza la necessità di provare specificamente il ricorso alla forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo), non avrebbe dovuto essere ravvisata sul conto del M.A., al quale non è stato contestato il delitto ex art. 416 bis c.p., e la cui partecipazione ad associazioni di tal fatta non è stata comunque accertata.
13.3 Con il terzo, la difesa evidenzia erronea applicazione del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 nonchè vizio della motivazione rilevante ai sensi dell’art. 606, lett. e), del codice di rito: l’aggravante de qua appare infatti illogicamente addebitata al M.A. che, con la propria condotta, avrebbe agevolato almeno due famiglie (di Resuttana e Partanna/Mondello), in contrasto con la consolidata concezione mafiosa secondo cui si può essere appartenenti o vicini ad una sola associazione.
Dagli elementi acquisiti era peraltro risultato con certezza che il M.A. aveva ricevuto del denaro senza ricorrere a forme di violenza o minaccia, nè utilizzando in alcun modo pressioni assimilabili al c.d. "metodo mafioso", oggetto di necessaria prova diretta per potersi dire applicabile l’aggravante in argomento;
l’imputato, infine, non aveva neppure adottato quei comportamenti per agevolare questo o quel sodalizio, giacchè gli stessi collaboratori F.F. e N.A. avevano ricordato che il M.A. aveva trattenuto per sè il denaro proveniente da quelle estorsioni a causa di problemi economici personali e contingenti, escludendo così il necessario dolo specifico che avrebbe dovuto animarne l’azione. In ogni caso, non vi era alcuna prova che l’una o l’altra delle famiglie mafiose indicate avessero tratto giovamento da condotte assunte dall’imputato, nè che questi ne avesse consolidato o rafforzato l’organizzazione.
13.4 Il quarto ed ultimo motivo si riferisce alla inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 62 bis c.p.: secondo il difensore, la Corte territoriale avrebbe negato al M.A. la concessione delle circostanze attenuanti generiche in virtù di un precedente in tema di stupefacenti, motivazione da ritenere inadeguata, a fronte di una apodittica indicazione della pena base in termini assai eccedenti i minimi edittali, malgrado la condotta dell’imputato dovesse intendersi marginale rispetto a quella dei mandanti delle suddette estorsioni.
Segnala il ricorrente che secondo la giurisprudenza di legittimità il riconoscimento o la negazione delle attenuanti in parola deve fondarsi su ragioni autonome rispetto alla gravità dell’addebito, sì da consentire di adeguare il trattamento sanzionatorio alle peculiarità del caso concreto.
14. Un ulteriore ricorso, articolato su due motivi, risulta proposto nell’interesse di M.S. dall’Avv. R.B.;
lo stesso difensore ha peraltro segnalato a questa Corte il sopravvenuto decesso del suo assistito.
15. L’Avv. G.O., difensore di fiducia di M.R. e R.L., ricorre per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe deducendo due motivi.
15.1 Il primo profilo di doglianza riguarda la lamentata inosservanza ed erronea applicazione di legge sostanziale (art. 378 c.p.) e processuale (artt. 125, 191, 192, 194, 195, 530 e 546 del codice di rito); ciò perchè la declaratoria di penale responsabilità dei due imputati sarebbe stata conseguente alla lettura di un "pizzino" rinvenuto nella disponibilità dei boss L.P., di tenore non univocamente riferibile all’esercizio commerciale dagli stessi gestito ("800 forno Marinella regalo estate 2005"), e non idoneo ad assurgere ad effettivo riscontro delle dichiarazioni dei collaboratori F.F. e N.A..
In particolare, il R.L. e la M.R. erano sì titolari di un panificio nel quartiere Marinella, ma non risultava essere stata compiuta alcuna attività di indagine circa l’esistenza di altri esercizi commerciali analoghi in quella stessa zona (la difesa aveva peraltro documentato che ve ne erano almeno quattro), nè sulla riferibilità di forni in genere a persone con quel nome di battesimo od aventi Marinella per cognome. D’altro canto, il testo del "pizzino" non risultava coerente con le delazioni dei collaboratori, che avevano parlato di una estorsione prolungata ai danni di un panificio, mentre il documento sembrava attestare un pagamento isolato a titolo di regalia: il N.A. ed il F.F. non erano stati neppure precisi e convergenti nel fare menzione di tali episodi, fornendo elementi in contrasto su chi avrebbe effettuato le dazioni di denaro e collocando i fatti due anni dopo rispetto all’estate 2005.
Nello specifico, il F.F. aveva parlato della estorsione in danno di un forno, della quale si era occupato il sodale B.G., facendosi consegnare il denaro dal titolare dell’esercizio, tale Na. (il collaboratore non aveva indicato da quale fonte avesse appreso di quegli episodi, facendo menzione genericamente di voci correnti all’interno di "Cosa Nostra", ed aveva financo precisato di nutrire risentimento personale verso lo stesso B.G.: peraltro, in una prima occasione non aveva indicato costui come incaricato delle periodiche esazioni, ma il di lui fratello). Il N.A. aveva parimenti parlato di B. G. come autore materiale delle condotte estorsive, comunque ripetute nel tempo, precisando che l’esercizio sottoposto al "pizzo" era il panificio "(OMISSIS)", appartenente ad un certo " Se.
della Marinella", e che costui in una occasione si era rifiutato di corrispondere la somma richiestagli da chi era subentrato al B. G. (affermando di avere già pagato nelle mani di quest’ultimo, prima che venisse arrestato): il collaboratore aveva quindi spiegato di avere avuto modo di parlare di quelle vicende proprio con il F.F., senza far emergere chi dei due ne avesse informato l’altro (ne derivava, secondo la difesa, "una macroscopica circolarità della notizia, di cui i due dichiaranti erano indiscriminatamente diffusori"). Solo in un secondo momento, aveva sostenuto di avere appreso dei fatti in questione da certo Ma.Ni., che tuttavia non risultava avere mai confermato la circostanza.
Nell’interesse dei ricorrenti viene richiamata la giurisprudenza di legittimità secondo cui "la chiamata in reità de relato, affine nella struttura alla testimonianza indiretta, può costituire prova della responsabilità penale solo se sorretta da adeguati riscontri estrinseci obiettivi ed individualizzanti, in relazione alla persona incolpata ed al fatto che forma oggetto dell’accusa, non essendo sufficiente il controllo sulla mera attendibilità intrinseca del collaborante", nè potendosi ammettere che una chiamata in reità de relato possa trovare riscontro in altra chiamata avente analoghe caratteristiche. A fronte di tali obiezioni, già evidenziate nei motivi di appello, nella sentenza impugnata si segnala che nel caso di specie non ci si troverebbe dinanzi a dichiarazioni rese su voci correnti, trattandosi di notizie comunque circoscritte ad una cerchia determinata di persone (gli aderenti al sodalizio criminale), ma la difesa censura l’argomento, rilevando che nel caso di "Cosa Nostra" ci si deve confrontare con una cerchia assai vasta di soggetti non completamente identificati ed operanti in un’area territoriale indefinita.
Evocati ulteriori precedenti giurisprudenziali, anche sulla necessità di sottoporre a controlli ancor più rigorosi una chiamata in reità rispetto ad una in correità, il difensore degli imputati rileva che gli elementi offerti dai ricordati collaboratori non avrebbero potuto attagliarsi alla posizione del R.L., avendo egli riferito agli inquirenti nel 2008 – con dichiarazioni in alcun modo smentite da altre acquisizioni istruttorie di segno contrario – di avere cessato di lavorare nel panificio gestito dalla moglie, e del quale non era mai stato titolare, ormai da 5 anni. Nè avrebbe potuto ritenersi provata la circostanza che della sottoposizione dell’esercizio commerciale a richieste estorsive, pure ammettendo che quello fosse il forno interessato e che il R. L. dovesse identificarsi nel " Na." menzionato dal F.F., fosse stata in qualche modo resa edotta anche la M.R..
Ad avviso della difesa, infine, priva di significato sarebbe l’avvenuta ricognizione fotografica di B.G. da parte dei due coniugi, essendo egli persona conosciuta agli imputati per motivi leciti, ed appare in ogni caso non approfondito il problema della ravvisabilità in capo al R.L. ed alla M.R. dell’elemento soggettivo necessario per ritenere la sussistenza del reato loro addebitato.
15.2 Con il secondo motivo, la difesa dei due imputati lamenta che alcune delle parti civili costituite nell’ambito del presente processo (per lo più, enti territoriali ed associazioni costituite per finalità di contrasto alla criminalità organizzata) risultano avere esteso gli atti di costituzione anche nei confronti del R. L. e della M.R.; altre parti civili, invece, non hanno formalizzato domande risarcitorie di sorta nei confronti di questi ultimi. Nel quadro così descritto, il G.u.p. del Tribunale di Palermo aveva non soltanto ammesso le costituzioni dei primi soggetti, pure in relazione ad un mero addebito di favoreggiamento (conseguentemente, condannando il R.L. e la M. R. al risarcimento dei danni in ipotesi patiti dalle parti civili de quibus), ma anche condannato gli imputati, in solido con tutti gli altri per i quali non era stata pronunciata sentenza di assoluzione, a rifondere le spese di costituzione e difesa della generalità delle parti civili.
A fronte dello specifico motivo di appello proposto (sull’impossibilità di considerare i soggetti costituiti quali persone offese dal reato di favoreggiamento, nonchè sulla illegittimità della condanna alla rifusione delle spese in favore di soggetti neppure costituiti), la Corte territoriale avrebbe non di meno confermato la correttezza:
– della ammissione delle prime parti civili nei confronti del R. L. e della M.R., in quanto il silenzio mantenuto dagli imputati sulle somme loro estorte avrebbe comportato una maggiore esposizione per coloro che avevano invece inteso denunciare le richieste di pagamento del "pizzo"; della condanna dei due prevenuti a rifondere le spese, risultando dagli atti di costituzione di tutte le parti civili considerate che l’azione civile era stata esercitata anche a carico loro.
La decisione adottata deriverebbe, secondo il difensore degli imputati, da inosservanza ed erronea applicazione delle norme processuali in tema di disciplina dell’azione civile nel processo penale, nonchè dell’art. 2043 c.c., artt. 185 e 378 c.p..
Sotto un primo profilo, nell’interesse dei ricorrenti si sostiene che "gli enti e le associazioni sono legittimati all’azione risarcitoria, anche in sede penale mediante costituzione di parte civile, ove dal reato abbiano ricevuto un danno a un interesse proprio, sempre che l’interesse leso coincida con un diritto reale o comunque con un diritto soggettivo del sodalizio, e quindi anche se offeso sia l’interesse perseguito in riferimento a una situazione storicamente circostanziata, da esso sodalizio preso a cuore ed assunto nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto assoluto ed essenziale dell’ente (…). Nessun risarcimento compete loro, invece, quando ricorra un mero collegamento ideologico con il bene che si intende proteggere (…) ovvero se non sia derivato ad essi un danno, ma si tratti solo di difendere gli interessi morali della categoria". Nella ricostruzione difensiva, non sarebbe comunque emerso alcun elemento, per i soggetti in questione, da cui desumere l’esistenza di un pregiudizio risarcibile a seguito della presunta condotta di cui il R. L. e la M.R. si resero in ipotesi responsabili.
In secondo luogo, si ribadisce che alcune parti civili (Comune di Sinisi, Solidaria CSC, ConfCommercio, Associazione Antiracket e Antiusura SOS Impresa Palermo, Centro Studi e Iniziative Culturali "Pio La Torre", Confindustria Palermo) non risultano essersi mai costituite nei confronti del R.L. e della M. R., diversamente da quanto – per effetto di evidente travisamento – affermato nella sentenza impugnata: non avrebbe dovuto pertanto disporsi la condanna degli imputati alla rifusione delle spese sostenute da quei soggetti, condanna che avrebbe presupposto necessariamente l’accoglimento della domanda principale di restituzione o di risarcimento.
16. Propone ricorso anche il difensore di S.D.,, Avv. R. V., lamentando vizi della sentenza impugnata ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione all’art. 192 dello stesso codice di rito e art. 133 c.p..
16.1 La difesa deduce che la Corte territoriale non avrebbe offerto una sufficiente esposizione circa i peculiari rapporti esistenti tra il S.D. e la presunta persona offesa dell’estorsione a lui ascritta (tale P.R., titolare di una ditta operante nel settore dell’edilizia): le emergenze istruttorie dimostravano infatti che costui si era dichiarato disponibile a versare somme al S.D. non già quale vittima di richieste estorsive, bensì perchè mirava ad essere privilegiato in vista della assunzione di commesse da ottenere grazie ai buoni uffici dell’associazione mafiosa, emergendo così un contesto meramente affaristico e niente affatto connotato da intimidazioni (come già desumibile dalle dichiarazioni del collaboratore N.A.).
Inoltre, secondo il difensore dell’imputato la pena irrogata sarebbe sproporzionata, tenendo conto che il giudizio negativo sulla personalità del S.D. viene formulato dalla Corte in ragione dei suoi precedenti, che tuttavia appaiono di modestissimo rilievo.
16.2 L’11/01/2013 risultano presentati motivi nuovi di ricorso, sempre nell’interesse del S.D., da parte dell’Avv. L. C..
Il nuovo difensore dell’imputato deduce innanzi tutto inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 629 c.p., ritenendo che nel caso di specie la condotta da ascrivere al ricorrente, come emersa dagli elementi istruttori acquisiti, non avrebbe dovuto meritare qualificazione giuridica nei termini anzidetti. La presunta vittima – il già ricordato P.R. – aveva infatti dichiarato di avere contattato egli stesso la persona nei cui confronti aveva effettuato il pagamento del "pizzo" ( Bo.Gi., al quale il S.D. sarebbe subentrato in un secondo momento), e non viceversa; assunto, questo, direttamente riscontrato dalle delazioni del collaboratore N.A., che aveva segnalato come in un certo periodo i vari affiliati avevano dirottato verso la ditta del P.R. tutti i soggetti interessati ad acquisti di materiali per l’edilizia, con l’accordo che periodicamente lo stesso P.R. – promotore dell’intesa – avrebbe dovuto spartire i guadagni con i L.P.. Ergo, nella fattispecie concreta non potrebbero dirsi ravvisabili la violenza o la minaccia in danno della presunta persona offesa, la cui volontà non fu in alcun modo coartata: nè sussisterebbero l’ingiusto profitto dell’estorsore con danno del soggetto passivo, dato che era quest’ultimo a perseguire un fine di lucro.
A fronte di tali dati obiettivi, la motivazione adottata dalla Corte territoriale per confermare la sentenza di primo grado non sarebbe condivisibile, avendo posto l’accento su elementi del tutto generici (in particolare, circa la configurabilità di una condotta estorsiva anche in danno di imprese riferibili a soggetti affiliati alla stessa organizzazione criminale da cui provenga la richiesta di pagare il "pizzo"), e senza considerare l’argomento decisivo della posteriorità dei contatti fra il P.R. ed il S. D. rispetto a quelli tra il presunto estorto e il B. G.. Nè potrebbe essere sufficiente invocare canoni puramente astratti relativi alla possibilità che una minaccia sia espressa in forma larvata od implicita, purchè nell’ambito di un contesto connotato dallo spessore criminale dell’ipotizzato autore: a riguardo, la difesa ricorda che l’estraneità al sistema penale di una fattispecie incriminatrice così delineata risulta dimostrata dalla mancata conversione in legge del decreto introduttivo dell’art. 629 bis c.p..
In secondo luogo, nei motivi nuovi di ricorso il difensore del S. D. lamenta violazione dell’art. 68 c.p., relativamente all’applicazione (in concorso) delle aggravanti di cui all’art. 629 c.p., comma 2 e D.L. n. 152 del 1991, art. 7.
La difesa richiama la pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte (n. 10 del 27/04/2001, ric. Cinalli) che ebbe ad affermare la possibilità di detto concorso, ritenendo tuttavia doverosa una revisione di quell’orientamento, che presuppone la necessità "di interpretare l’art. 629 c.p., comma 2 nel senso di ritenere sufficiente alla sua integrazione la pura e semplice circostanza dell’appartenenza all’associazione di cui all’art. 416 bis, in termini generici e non contestualizzabili": in tal modo, però, verrebbe violato il principio di personalità sancito dall’art. 27 Cost., emergendo una sostanziale responsabilità per tipo di autore, senza contare che l’ordinamento già prevede strumenti che consentono di graduare la pena (scegliendo fra il minimo e il massimo edittale, oltre che applicando i criteri di cui all’art. 133 c.p.) in ragione della minore o maggior gravità dell’addebito.
17. Un ultimo ricorso per cassazione, avverso la sentenza indicata in epigrafe, viene proposto personalmente da S.G..
L’imputato prospetta carenza di motivazione e travisamento della prova, nonchè erronea applicazione dell’art. 192 c.p.p., quanto alla affermazione della sua responsabilità penale; in particolare, essendo stata fondata detta affermazione sulle dichiarazioni dei già ricordati collaboratori di giustizia, mancherebbero nella fattispecie i necessari riscontri individualizzanti circa la posizione dello S.G., in relazione ai fatti a lui addebitati, il che assume decisiva rilevanza in un processo nel quale si discute di commercio di sostanze stupefacenti senza che siano state accertate specifiche condotte di detenzione o cessione (tanto che l’indeterminatezza desumibile dal capo d’imputazione, dove si contesta all’imputato di avere acquistato, detenuto e ceduto quattro tipologie di stupefacenti, senza indicarne le quantità, appare "sintomatico della carenza probatoria a carico dello stesso").
Il F.F. ed il N.A., secondo il ricorrente, si limiterebbero infatti a delazioni generiche, entrando anche in reciproco contrasto: il primo avrebbe indicato lo S. G. come un soggetto che aveva interessi comuni con il C.F. in tema di droga, quindi socio di un certo E. o V. nello stesso traffico e nella gestione di una panineria o salumeria, mentre l’altro collaboratore aveva ricordato l’acquisto da parte sua di circa 2 kg. di cocaina unitamente al B. A., con metà di quel quantitativo poi rivenduto allo S. G. ed a C.V. (episodio non ritenuto attendibile dagli stessi inquirenti). Nè potrebbe costituire riscontro a quelle dichiarazioni il narrato dell’ulteriore collaboratore P. G., avendo costui descritto il ricorrente in termini del tutto vaghi come uno spacciatore del quartiere "Zen" di Palermo.
18. Risultano infine depositate memorie nell’interesse delle parti civili ConfCommercio Palermo ed associazione anti-racket "Sos Impresa Palermo", con le quali viene invece sollecitato il rigetto, ovvero la declaratoria di inammissibilità, dei ricorsi presentati dagli imputati.
Motivi della decisione
1. Si impone innanzi tutto lo stralcio della posizione del M. S., vista la circostanza (rappresentata dalla difesa nel corso della discussione orale) dell’intervenuto decesso dell’imputato, in ordine alla quale la Cancelleria dovrà acquisire apposita certificazione anagrafica.
2. In ragione della complessità ed eterogeneità dei motivi di ricorso presentati nell’interesse degli altri imputati, questa Corte ne ritiene necessario un esame per gruppi omogenei, onde evitare ripetizioni di argomenti od iterazioni di richiami che renderebbero disagevole la stesura di una motivazione unitaria. Si analizzeranno pertanto, in primo luogo, i profili di carattere strettamente processuale, ivi compresa la questione su cui è stata prospettata una illegittimità costituzionale di norme del codice di rito; si passerà quindi alla disamina del tema (comune a buona parte dei ricorsi) della valutazione compiuta dalla Corte di appello di Palermo in ordine alle dichiarazioni rese dai vari collaboratori di giustizia escussi; in seguito, si affronteranno le doglianze relative al trattamento sanzionatorio inflitto ai diversi imputati che hanno prospettato censure a riguardo (anche in tema di dedotta concedibilità delle attenuanti ex art. 62 bis c.p., nonchè di misure di sicurezza); verranno poi trattati i motivi di ricorso correlati alle circostanze aggravanti contestate e, infine, le questioni civilistiche.
3. Le questioni in rito.
3.1 Nell’interesse del D.M.G. (motivo secondo di ricorso) sono stati dedotti vizi della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), con riguardo alla ritenuta ritualità di una perizia grafologica compiuta su un "pizzino", malgrado si disponesse solo di una fotocopia e senza tenere conto delle doglianze esposte in un accertamento tecnico di parte. La censura è infondata, atteso che la Corte territoriale ha sì evidenziato "la valenza dell’accertamento tecnico che ha ricondotto il "pizzino" al D. M.G.", sottolineando però al contempo che trattasi di prova superflua "rispetto al complessivo quadro dimostrativo";
inoltre, la difesa si era limitata a censurarne la significatività in quanto non risultavano essere stati rilasciati saggi grafici dall’imputato, assunto cui la sentenza impugnata correttamente obietta che non ne emergeva affatto la indispensabilità, essendo stati acquisiti al procedimento altri scritti riferibili con certezza all’imputato.
Su un piano generale, va altresì ricordato che la perizia grafologica ben può compiersi su una fotocopia piuttosto che sul documento originale, indipendentemente dalla possibilità più o meno agevole di acquisire quest’ultimo (v. in proposito Cass., Sez. 5^, n. 42938 del 20/10/2011, Geat).
3.2 Con riguardo alla questione sollevata dalla difesa del L.V. G. nel primo motivo di ricorso, deve in effetti rilevarsi che non è esatta l’affermazione dei giudici di secondo grado secondo cui avverso il decreto n. 1457/2008 "non risulta formulata alcuna eccezione". Al contrario, con i motivi nuovi di appello depositati il 13 ottobre 2010 si osservava, con riguardo alle intercettazioni in generale, che le operazioni, "lungi dall’essere eseguite, così come disposto dal decreto autorizzativo di urgenza del P.M. presso gli impianti della Procura della Repubblica mediante sistema m.c.r. ed ascolto remotizzato, sono state effettuate in luogo diverso, nonchè con impianti differenti da quelli previsti (ascolto diretto e non remotizzato, con registrazioni in originale in un server diverso da quello indicato, cioè in essere presso la Procura). Peraltro, nei decreti di cui si discute difetta ogni motivazione circa l’insufficienza e l’inidoneità degli impianti installati presso la Procura della Repubblica, unica condizione questa eventualmente legittimante una captazione svolta al di fuori del controllo diretto da parte del P.M.". Subito dopo si aggiungeva: "analogamente, le captazioni assunte in forza del decreto 1457/08, per quanto si ricava dagli atti del giudizio, sono avvenute con le medesime modalità, atteso che si da atto che le conversazioni tra presenti sono state registrate mediante l’utilizzo del sistema denominato "Archimede" noleggiato, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, dalla ditta Multicom s.r.l., con terminali ubicati all’interno della sala intercettazione del comando provinciale dei Carabinieri".
In sostanza, in sede di appello la difesa del L.V.G. argomentava che (anche) le intercettazioni di cui al decreto n. 1457 risultavano avvenute mediante impianti diversi da quelli in dotazione all’autorità giudiziaria procedente, non già – come si rappresenta oggi nei motivi di ricorso – che vi era sì l’autorizzazione ad utilizzare impianti presi a noleggio, con facoltà di ascolto remotizzato, ferma restando la necessità che le registrazioni avvenissero presso la Procura della Repubblica. Per quanto sfuggita all’attenzione della Corte territoriale, l’effettiva doglianza avanzata in ordine alle intercettazioni de quibus risulta pertanto correttamente disattesa nella motivazione della sentenza impugnata, dandosi atto che era stato esaminato il decreto in questione – contenente, a differenza degli altri su cui era intervenuta declaratoria di inutilizzabilità, l’autorizzazione all’uso di impianti peculiari – e che "l’autonoma verifica effettuata dalla Corte ne attesta la assoluta regolarità".
Regolarità che, pur volendo considerare il diverso profilo oggi (e solo oggi) sottolineato dal ricorrente, non poteva che inerire proprio all’attività di registrazione, non essendo altrimenti indispensabile alcuna autorizzazione ex art. 268 c.p.p., comma 3, come oramai sancito dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte (v. sentenza n. 36359 del 26/06/2008, ric. Carli): la legittimità del ricorso ad apparecchiature esterne alla Procura della Repubblica procedente va infatti valutata con riferimento esclusivo alla fase della registrazione, e non anche a quella dell’ascolto (v., ex multis, Cass., Sez. 1^, n. 38160 del 06/10/2010, Palermiti).
3.3 Sempre con riguardo al ricorso presentato nell’interesse del L. V.G., il collegio ritiene di dover ribadire l’orientamento più volte espresso dalla giurisprudenza di legittimità circa la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 266 c.p.p. e D.L. n. 152 del 1991, art. 13 in relazione all’art. 14 Cost., correlata alla mancanza di una espressa disciplina legittimante le modalità di accesso a luoghi di privata dimora onde disporvi strumenti di captazione di comunicazioni fra presenti.
Come la stessa difesa dell’imputato ricorda, detta questione fu già sollevata dalla Sezione Terza di questa Corte nel 2003, e venne ritenuta manifestamente inammissibile dal giudice delle leggi per non esserne stata illustrata la rilevanza ai fini della decisione in quella fattispecie; non è però esatto affermare che la Corte Costituzionale intese precisare, in detta occasione, che anche il quomodo dell’ingresso in luoghi garantiti dall’inviolabilità del domicilio fosse da riservare a determinazioni spettanti all’autorità giudiziaria. Nell’ordinanza n. 251 del 2004, infatti, la Consulta si limitò a rappresentare che era la Corte rimettente a "postulare in modo sufficientemente chiaro che, alla stregua della disciplina vigente, la determinazione delle modalità operative delle c.d.
intercettazioni ambientali domiciliari – anche per quanto attiene, dunque, all’ingresso fraudolento o clandestino nel luogo di privata dimora per la collocazione degli apparati di captazione sonora – non resti affidata alla polizia giudiziaria, ma spetti piuttosto al giudice ed al pubblico ministero "nell’ambito delle rispettive competenze di cui agli artt. 267 e 268 c.p.p.": dolendosi invero essa Corte solo del fatto che la determinazione dell’autorità giudiziaria abbia luogo "indipendentemente da qualsiasi parametro normativo" (in sostanza, sarebbe in materia soddisfatta la riserva di giurisdizione posta dall’art. 14 Cost., comma 2, ma non la riserva di legge) (…).
Al tempo stesso, il giudice a quo dichiara di dissentire dall’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’ingresso nel domicilio invito domino dovrebbe considerarsi ammesso dalla legge in quanto "naturale modalità attuativa" del mezzo investigativo in parola: orientamento il cui logico corollario è che l’autorizzazione a detto ingresso risulterebbe implicita nello stesso decreto autorizzativo dell’intercettazione; e tale dissenso il rimettente motiva anche con il richiamo alle affermazioni contenute nell’ordinanza n. 304 del 2000 di questa Corte, per cui le modalità operative delle intercettazioni ambientali nei luoghi di privata dimora "non richiedono necessariamente una intrusione arbitraria nel domicilio".
Ergo, l’esposizione di quei dati di sintesi non costituiva manifestazione di principi già elaborati in sede di giurisprudenza costituzionale, o da intendersi pacificamente acquisiti, bensì semplice ricostruzione dei termini della questione di legittimità come prospettata dal giudice a quo.
Non è neanche corretto affermare che la giurisprudenza sovranazionale abbia oramai, con le pronunce richiamate nell’interesse del ricorrente, affermato i ridetti principi con valenza tale da determinarne ragioni di vincolo per l’interprete: le sentenze segnalate dalla difesa, infatti, debbono essere distinte in due gruppi.
Da un lato, si atteggiano in termini assolutamente peculiari le decisioni intervenute nei confronti del Regno Unito (oltre a quelle concernenti i casi menzionati nei corpo del ricorso, va segnalata la prima e più significativa, del 12/05/2000, nel caso Khan): ciò in quanto la violazione dei parametri fissati dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non risulta ivi affermata in relazione alla mancanza di provvedimenti dell’autorità giudiziaria volti a disciplinare specificamente le modalità di intromissione della polizia in luoghi tutelati, bensì in relazione al difetto di previsioni di legge tout court in tale materia, discutendosi sempre – in quelle fattispecie – di intercettazioni disposte su iniziativa diretta della polizia giudiziaria. Nel caso Chalkley evocato dalla difesa, peraltro, la violazione dei diritti del ricorrente derivava innanzi tutto dalla circostanza che, al solo fine di sistemare presso la sua abitazione un dispositivo di captazione, egli e la sua convivente erano stati arrestati in relazione ad un addebito del tutto diverso, dove le indagini erano state già definite, ed allontanati dal domicilio unitamente ai loro figli per il tempo necessario ad installare la micro-spia.
La giurisprudenza relativa a casistica francese è invece obiettivamente non significativa: ad esempio, il caso Kruslin riguarda il ben diverso problema dei limiti all’utilizzabilità di intercettazioni (telefoniche) disposte in altro procedimento.
In definitiva, non può che confermarsi l’orientamento più volte manifestato da questa Corte, secondo cui "è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 266 c.p.p., comma 2, in relazione all’art. 14 Cost. che statuisce il principio della inviolabilità del domicilio, perchè la collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora costituisce una delle naturali modalità di attuazione dello strumento intercettativo. Le intercettazioni, infatti, sono un mezzo di ricerca della prova funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti, tutelato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., con il quale pertanto, subendo la necessaria compressione, deve coordinarsi il principio di inviolabilità del domicilio, al pari di quanto l’art. 15 Cost. prevede espressamente in materia di libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, per consentire l’esecuzione di ispezioni, perquisizioni e sequestri" (Cass., Sez. 4^, n. 47331 del 28/09/2005, Cornetto, Rv 232777, nella cui motivazione si spiega più diffusamente che "il diritto all’inviolabilità del domicilio (…) si correla alla possibilità, dalle stesse prevista, che la legge ne regoli casi e modi, adeguatamente garantiti, di compressione. Tale possibilità, consentita espressamente dalla norma costituzionale solo in riferimento ad ispezioni, perquisizioni e sequestri, va ritenuta sussistente anche in riferimento alla intercettazione di comunicazioni, stante il collegamento fra l’art. 14 Cost. e la generale previsione di cui al cpv. dell’art. 15 Cost. che è finalizzata, come gli istituti previsti nel capoverso dell’art. 14, a consentire il concreto soddisfacimento degli interessi pubblici a presidio dei quali è posto il principio di cui all’art. 112 Cost.").
Orientamento confermato nel 2007 dalla Sezione 1^ (sentenza n. 38716 del 02/10/2007, ric. Biondo), con la precisazione che "del tutto superflua sarebbe una indicazione, da parte del giudice, delle modalità da seguire per l’attuazione di una attività materiale e tecnica da parte della polizia giudiziaria, una volta che ne era già stata dal medesimo affermata la legittimità e necessità, col provvedimento autorizzativo; mentre la registrazione delle conversazioni intercettate era la prova delle operazioni compiute nel luogo e nei tempi indicati dal giudice stesso e poi dal P.M.".
Nuovamente ribadito quattro anni dopo (v. Cass., Sez. 6^, n. 14547 del 31/01/2011, D.M.G.) ed ancora una volta nel 2012 dalla stessa Sezione 6^ (sentenza n. 41514 del 25/09/2012, ric. Adamo), dove si spiega altresì che "la finalità di intercettare (conversazioni telefoniche od ambientali), contrariamente all’assunto dei difensori, comporta (…) di necessità, e per ragioni assolutamente funzionali al risultato che si intende conseguire, la violazione, non solo della riservatezza delle relazioni interpersonali, ma anche la materiale intrusione dell’operatore di polizia, per la collocazione dei necessari strumenti di rilevazione, negli ambiti e nei luoghi "privati" oggetto di tali mezzi di ricerca della prova. Nè è compito del magistrato che procede dare alla polizia giudiziaria operante regole di condotta sulle "modalità di intrusione" nel luogo destinato all’attività di captazione. Si tratta invero di una sequela di atti materiali, i quali competono – in quanto attività disposta dalla autorità giudiziaria ex art. 55 c.p.p., comma 2 – alla stessa polizia giudiziaria come organo esecutivo, considerato che essi rientrano nella contingente valutazione dinamica della concreta situazione (della persona e degli ambienti di riferimento), non sempre prevedibile nel suo sviluppo ed implicazioni pratiche".
Argomentazioni ineccepibili, che questa Corte ritiene doveroso fare proprie anche nell’esame della odierna fattispecie.
4. Le questioni relative alla valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
4.1 Su un piano generale, va necessariamente ricordato che gli elementi oggetto di doverosa verifica in tema di chiamate in reità od in correità consistono innanzi tutto nel controllo della credibilità del soggetto che le rende, da svolgere sia in punto di disamina dell’attendibilità soggettiva del dichiarante (anche in ragione del contesto in cui risulta maturata la sua determinazione a collaborare con la giustizia, ovvero della disponibilità a rendere dichiarazioni anche auto-accusatorie su fatti non ancora noti agli inquirenti), sia a proposito delle caratteristiche del narrato. Una volta affrontata, e superata con esito positivo, tale prima problematica, occorre procedere al reperimento dei necessari riscontri esterni, come imposto dalla previsione di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3, dei quali – nell’ambito dei principi elaborati dalla pluriennale e corposa giurisprudenza di legittimità – va ricordata da un lato la necessità che si tratti di riscontri individualizzanti sulla posizione dello specifico soggetto cui si riferisce la chiamata in reità od in correità (anche in relazione all’idoneità dimostrativa sul fatto che gli si addebita), e dall’altro la possibilità che derivino da acquisizioni probatorie della più diversa natura, ivi comprese le dichiarazioni di altri collaboratori, in linea di principio idonee a riscontrarsi reciprocamente purchè i rispettivi contributi di conoscenza di costoro risultino da fonti autonome, senza fenomeni di "circolante della prova".
A riguardo, va ricordato che secondo la giurisprudenza di legittimità "i riscontri esterni alle chiamate in correità possono essere costituiti anche da ulteriori dichiarazioni accusatorie, le quali devono tuttavia caratterizzarsi: a) per la loro convergenza in ordine al fatto materiale oggetto della narrazione; b) per la loro indipendenza – intesa come mancanza di pregresse intese fraudolente – da suggestioni o condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della concordanza; c) per la loro specificità, nel senso che la c.d.
convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la persona dell’incolpato sia le imputazioni a lui ascritte, fermo restando che non può pretendersi una completa sovrapponibilita degli elementi d’accusa forniti dai dichiaranti, ma deve privilegiarsi l’aspetto sostanziale della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere" (Cass., Sez. 2^, n. 13473 del 04/03/2008, Lucchese, Rv 239744). Più di recente, si è affermato che "in tema di chiamata di correo, quando le dichiarazioni accusatorie siano plurime e sussista il dubbio di artificiose consonanze, al giudice è fatto obbligo di verificare non soltanto se la convergenza non sia l’esito di collusione o di concerto calunnioso, ma anche se non sia il frutto di condizionamenti o reciproche influenze, dovendo egli valutare la sussistenza di fenomeni di allineamento delle indicazioni più recenti rispetto a quelle raccolte per prime" (Cass., Sez. 6^, n. 4157 del 09/10/2012, C, Rv 254292).
Nel caso in esame, ancora come considerazioni di carattere generale, va preso atto che i collaboratori di giustizia da cui provengono le dichiarazioni accusatorie più frequentemente contestate dagli imputati erano stati soggetti di assoluto rilievo all’interno della consorteria criminale (in particolare il F.F., che come già ricordato la sentenza impugnata da atto essere stato reggente della famiglia di Partanna/Mondello); notevole e peculiare spessore, sul piano dei riscontri esterni, deve peraltro ascriversi ai "pizzini" già sopra richiamati, taluni dei quali riferibili specificamente alle contestazioni di reato mosse agli imputati del presente processo.
4.2 Tanto premesso, a proposito delle doglianze di cui al primo motivo del ricorso presentato nell’interesse del B.G., non può condividersi l’assunto difensivo secondo il quale la notizia di una estorsione in danno di un panificio della zona avrebbe dovuto intendersi un dato non necessariamente a conoscenza di un soggetto – quale il F.F. – avente ruolo apicale nell’ambito di "Cosa Nostra", considerando la suddivisione del territorio e la chiara necessità di sottoporre alle figure di vertice ogni iniziativa sulle attività imprenditoriali da taglieggiare. A riguardo, è appena il caso di ricordare che (anche) la vicenda dell’estorsione che, secondo l’ipotesi accusatoria, vedeva il B. G. quale protagonista risultava addirittura oggetto di comunicazione e "contabilizzazione" nei riguardi dei L.P., come dimostrato dai "pizzini" già ricordati e rinvenuti in loro possesso.
Non coglie nel segno neppure la censura che vorrebbe le dichiarazioni del F.F. e del N.A. determinate da una reciproca influenza o comunque non derivanti da autonome fonti di conoscenza su quei fatti: come risulta a pag. 31 della sentenza impugnata, infatti, il F.F. ed il N.A. non si limitarono a parlare tra loro di quella vicenda estorsiva, l’uno informandone l’altro, ma il primo aveva incaricato l’altro "di informarsi sull’esito della estorsione al panificio", tanto che in seguito il N.A. aveva appreso che secondo B. G. il "pizzo" sarebbe stato pagato entro la fine del mese. Non vi è dunque alcuna circolante o genericità delle informazioni, trattandosi, al contrario, di dati appresi per effetto della comune militanza nel sodalizio criminale.
Non assume poi rilievo la circostanza che il F.F. avrebbe menzionato altri soggetti ancora come concorrenti nella medesima estorsione ( G.A. e B.A., cui non risulta sia mai stato contestato alcunchè a riguardo): in vero, secondo il F.F. il G.A. era uno dei destinatari delle somme, non il percettore, ed B.A. si sarebbe occupato delle riscossioni in momenti distinti rispetto a quando se ne era interessato il fratello. E’ ben possibile che, con riferimento a queste peculiari posizioni, il racconto del collaboratore non abbia ricevuto riscontri nei ricordi offerti dal N.A. (che comunque indica a sua volta il G.A. come fonte delle informazioni sull’andamento dei pagamenti), senza tuttavia che ciò possa inficiare l’attendibilità del narrato laddove di riscontri ve ne siano.
Incontestabile, infine, è la valenza di riscontro da riconoscere al "pizzino" sub F5, in relazione al quale – come si vedrà esaminando i motivi di ricorso sviluppati nell’interesse della M.R. e del R.L., vittime di quella estorsione e imputati di favoreggiamento – è del tutto irragionevole ipotizzare che il "forno Marinella" ivi menzionato non fosse quello che il N.A. ebbe addirittura a riconoscere de visu in una fotografia esibitagli, rimarcando il particolare, obiettivamente corrispondente al vero, che il B.G. era od era stato titolare di una salumeria adiacente.
Con riguardo alle deduzioni sviluppate nei motivi nuovi di ricorso, sempre nell’interesse del B.G., va oggi precisato che le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato il principio secondo cui "la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova della responsabilità penale dell’accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore, purchè siano rispettate le seguenti condizioni: a) risulti positivamente effettuata la valutazione della credibilità soggettiva di ciascun dichiarante e dell’attendibilità intrinseca di ogni singola dichiarazione, in base ai criteri della specificità, della coerenza, della costanza, della spontaneità; b) siano accertati i rapporti personali fra il dichiarante e la fonte diretta, per inferirne dati sintomatici della corrispondenza al vero di quanto dalla seconda confidato al primo; c) vi sia la convergenza delle varie chiamate, che devono riscontrarsi reciprocamente in maniera individualizzante, in relazione a circostanze rilevanti del thema probandum; d) vi sia l’indipendenza delle chiamate, nel senso che non devono rivelarsi frutto di eventuali intese fraudolente; e) sussista l’autonomia genetica delle chiamate, vale a dire la loro derivazione da fonti di informazione diverse" (Cass., Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, Aquilina, Rv 255143).
Deve perciò registrarsi che il massimo organo di nomofilachia è giunto ad approdi più avanzati – rispetto alla giurisprudenza del 2003 evocata nei primi motivi di ricorso – nell’ammettere la rilevanza delle dichiarazioni accusatorie de relato: ciò, in ogni caso, escludendosi nuovamente la fondatezza della tesi che vorrebbe qualificare le delazioni del F.F. o del N. A. come indirette, o disegnarle come reciprocamente influenzata l’una dall’altra, per le ragioni sopra evidenziate.
4.3 Manifestamente infondato si rivela il primo motivo di ricorso del C.F.: è di palese evidenza che tra il racconto del F.F. e quello del N.A., circa l’arma di cui l’imputato sarebbe stato in possesso e che venne poi fatta avere a L.P.S., le divergenze assumono carattere meno che marginale. Come risulta a pag. 92 della sentenza impugnata, il F.F. disse, nei vari verbali a sua firma, di ricordare di una pistola posseduta dal C.F., finita nelle mani del L.P.S. e della quale gli aveva parlato il N.A.; la ricostruzione del N.A. è che, invece, la pistola in questione (comunque del C.F.) gli venne consegnata dal L.V.R., egli la diede al F.F. e quest’ultimo la fece avere al L.P. S..
A pag. 109 della sentenza impugnata, peraltro, si spiega diffusamente che di accordi con il C.F. in tema di pistole ve ne furono più d’uno, e che in ogni caso la presunta intermediazione del F.F. (non richiamata da costui, ma certamente non essenziale nell’economia di quella transazione) fu motivata solo in ragione della nota "tirchieria" dell’imputato: in altre parole, essendo egli "compare" del F.F., si era reso necessario che la richiesta dell’arma provenisse da quest’ultimo, cui il C.F. avrebbe avuto difficoltà a negare il favore.
Argomenti, questi, che il ricorrente non si perita neppure di riportare, nel tentativo di confutarne la decisività, dovendosi pertanto rilevare che le sue doglianze rimangono aspecifiche.
Il difetto di specificità del motivo – rilevante ai sensi dell’art. 581 c.p.p., lett. c), – va infatti apprezzato non solo in termini di indeterminatezza, ma anche "per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità dell’impugnazione" (Cass., Sez. 2^, n. 29108 del 15/07/2011, Cannavacciuolo).
4.4 Il difensore di D.G. lamenta, nell’unico motivo di ricorso, che i collaboratori di giustizia da cui le dichiarazioni accusatorie a suo carico ( F.F., N.A. e B.A.) non lo avrebbero indicato, neppure implicitamente, come affiliato al sodalizio mafioso, nè avrebbero concretamente rappresentato – nel corso della loro audizione, avvenuta in udienza preliminare – elementi di rilievo tale da superare il giudizio negativo che, in punto di gravità indiziaria, era stato formulato in sede cautelare sulla posizione del ricorrente.
Si tratta di osservazioni che non è possibile condividere, alla luce di quanto congruamente esposto nella motivazione della sentenza impugnata.
Oltre al particolare della partecipazione del D.G. ad un pranzo cui era presente L.F., uomo di fiducia di M.D.M. (per quanto il N.A. abbia riferito che il ricorrente non fu protagonista dei colloqui svoltisi in quella sede, è del tutto ragionevole l’assunto della Corte territoriale secondo cui ad incontri di tal fatta non si è invitati per caso, ma è necessario che l’organizzazione criminale nutra massima fiducia verso chi vi partecipa), i giudici di appello segnalano che la vicenda dell’uso di un ciclomotore del D. G. da parte dello stesso N.A., per recarsi nei luoghi dove si nascondeva il F.F., allora latitante, non è affatto irrilevante, come sostenuto dalla difesa. Infatti, il N.A. non si limita a ricordare di avere ricevuto in prestito il veicolo in questione, ma aggiunge di essersi rivolto al D.G. perchè persona di assoluta fiducia, con l’abitudine di riporre il mezzo all’interno di un magazzino chiuso, adiacente l’abitazione (dunque rendendo impossibile sistemarvi sistemi di rilevazione o micro-spie): inoltre, precisa di avere reso edotto il ricorrente circa le finalità dell’impiego del motorino.
Gli assunti del collaboratore rivestono particolare significato, atteso che il N.A. non si atteggia a mero chiamante in reità, ma indica anche se stesso come autore di condotte di favoreggiamento della latitanza del F.F.: si tratta peraltro di assunti che trovano ampi riscontri, a partire dalla circostanza del rinvenimento del ciclomotore in questione proprio in possesso del N.A. nel momento in cui venne arrestato.
Dell’episodio si mostra a conoscenza anche il B.A., che ricorda di avere financo raccolto le confidenze del D. G. sulla preoccupazione che nutriva proprio in virtù del fatto che il N.A. era stato arrestato mentre guidava un mezzo di sua proprietà (preoccupazione logicamente giustificabile proprio in ragione dell’uso illecito che egli era consapevole veniva fatto di quel veicolo).
Non è poi conforme alle acquisizioni istruttorie la lettura che la difesa del D.G. offre circa i colloqui tra L.P. S. ed il F.F., ricordati da quest’ultimo: il fatto che qualcuno avesse "messo gli occhi" sul D.G. non significa che egli, al di là di una formale affiliazione che forse non c’era stata, fosse ancora estraneo al sodalizio mafioso, dal momento che la ricostruzione del F.F. è nel senso che il L.P.S. gli disse che il D.G. era già vicino alla famiglia di Cardillo, dunque la famiglia di Partanna Mondello non poteva nutrire aspettative su di lui.
La sentenza impugnata chiarisce inoltre che il N.A. parlò di una pistola che il D.G. aveva preso in custodia, ed esclude che l’episodio dell’aggressione a Fe.
R. possa intendersi estraneo alle logiche della mafia, atteso che l’iniziativa venne assunta per rimediare ad un presunto "sgarbo" ricevuto da D.M.S., con successive ripercussioni all’interno dell’associazione criminale perchè non erano state rispettate le regole sulla suddivisione del territorio con la famiglia di Carini.
Quanto all’addebito D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 74, deve innanzi tutto osservarsi che il N.A. ha parimenti inteso rendere dichiarazioni auto-accusatorie, descrivendo anche se stesso come partecipe a sua volta dell’associazione finalizzata al commercio di stupefacenti (tanto da essere stato separatamente giudicato), associazione composta appunto da lui, dal D.G., da D. M.R. e S.N.. Lo stesso N.A. ha anche chiarito i compiti di ciascuno all’interno di quel ristretto sodalizio (egli si occupava di procurarsi la droga, il D. G. la smerciava, il D.M.R. vigilava sugli incassi e custodiva il denaro, S.D. teneva i rapporti con L. P.S. che aveva dato l’autorizzazione a svolgere quell’attività, senza la quale non sarebbe stato possibile gestire affari del genere sul territorio).
Il B.A., dal canto suo, non offre affatto i contributi generici lamentati dalla difesa, riferendo invece di episodi dettagliati: egli ricorda il D.G. in società con le stesse persone sopra indicate, ed aggiunge di avere consegnato stupefacenti proprio a lui sotto casa propria (trovandosi agli arresti domiciliari), una volta che il ricorrente gli era stato inviato a quel fine dal suddetto N.A.. L’individuazione del D.G. risulta assai accurata, visto che della persona in questione egli precisa un particolare inequivoco, emerso anche dalle delazioni degli altri collaboratori: si trattava di un giovane che sarebbe stato arrestato in seguito per una rapina avvenuta al Nord, come infatti occorso al ricorrente il 10/11/2005 nella flagranza di una rapina in banca in provincia di Bologna.
Il F.F. conferma l’esistenza di quel sodalizio, ed il fatto che non sia in grado di confermare i singoli episodi di acquisto o rivendita di droga posti in essere dal gruppo in questione si deve intendere del tutto ragionevole, atteso che egli non ne faceva direttamente parte; la Corte territoriale chiarisce poi che il collaboratore, se non ha dichiarato alcunchè su una presunta consegna di 60 kg. di hashish al D.G., indicata dal N.A. come avvenuta in presenza dello stesso F. F., non ha neppure smentito la circostanza, sulla quale nessuno lo ha invitato a fornire i propri ricordi. Inoltre, se la fonte delle informazioni del F.F., circa l’associazione L. Stup., ex art. 74 era il N.A. (a sua volta divenuto collaboratore di giustizia), non è comunque corretto ravvisare nel caso di specie fenomeni di circolarità della prova, nè di dichiarazione de relato in senso proprio: ciò in quanto, come ricordato, il N.A. non era persona informata a vario titolo sulle attività di quel sodalizio, ma ne era partecipe diretto.
4.5 Manifestamente infondate debbono considerarsi le doglianze mosse nel primo motivo del ricorso presentato nell’interesse di D. S..
Sul conto dei collaboratori di giustizia F.F. e N.A. il ricorrente si limita a far osservare che costoro non lo avrebbero menzionato come soggetto che avrebbe curato la riscossione dei pagamenti estorsivi, o cui sarebbero state comunque destinate le relative somme: argomento del tutto irrilevante, atteso che i suddetti collaboratori confermarono in ogni caso che la "Sala Trattenimenti Alba" ovvero "Villa Alba" era sottoposta al "pizzo", e che gli elementi a carico del D.S. derivano direttamente dalle persone offese.
Peraltro, a proposito delle dichiarazioni dei titolari di quel locale ( B. e Fa.Gi.), il ricorrente travisa totalmente le risultanze istruttorie, atteso che:
– sostiene che il riconoscimento in fotografia dello stesso D. S. da parte del B.M., che mai si era incontrato con lui, sarebbe solo de relato, sulla base della descrizione che del percettore del "pizzo" aveva fatto il Fa.
G., ma la realtà è che il B.M. dichiarò a verbale di aver visto su un quotidiano la foto dell’imputato dopo il di lui arresto, precisando "siamo venuti a conoscenza del suo nome attraverso i giornali". Ergo, l’uso della prima persona plurale vuoi dire che egli vide quella fotografia trovandosi insieme al Fa.
G., menzionato tre righe prima come la persona alla quale il D.S. si era presentato come amico di C.T., e fu evidentemente il Fa.Gi. a riconoscere il ricorrente in quella circostanza: non ci fu dunque alcuna descrizione fisica, ma la presa d’atto da parte del B.M. che il socio gli diceva trattarsi di colui che passava a riscuotere il "pizzo";
– afferma che dal Fa.Gi. sarebbe venuto uno "pseudo riconoscimento fotografico", basato sull’immagine della persona ritratta sul giornale e su una apparente somiglianzà, quando invece il suddetto riconobbe il D.S. con assoluta certezza, e non soltanto quanto alla foto apparsa sul quotidiano.
E’ infine pacificamente innegabile la natura di riscontro che alla effettività della predetta estorsione offrono i "pizzini" rinvenuti all’esito della scoperta del covo dei L.P., essendovene due che si riferiscono proprio alla Sala Ricevimenti Alba: il fatto che in quelle annotazioni non venga menzionato il D.S. non può certo valere ad escludere la sua partecipazione all’attività delittuosa, così come del tutto neutra è la circostanza che il C.T. – reo confesso in ordine all’estorsione de qua, e primo percettore dei pagamenti sul piano cronologico – non abbia inteso accusare gli altri concorrenti (vale a dire il D. S. e il M.T.). Detto riscontro, che neppure sarebbe stato necessario data la linearità e congruenza del narrato delle persone offese, vale a confermare un giudizio di loro attendibilità che nessun elemento contrario consente di porre in dubbio: deve infatti condividersi quanto segnalato a pag. 140 della sentenza impugnata laddove si rappresenta che le dichiarazioni del B. M. e del Fa.Gi., "per la loro assoluta, intrinseca attendibilità, costituirebbero di per sè sole un quadro probatorio più che sufficiente per giungere ad un sicuro giudizio di colpevolezza, ciò anche dove si considera l’assoluta assenza di elementi a discolpa da parte degli imputati".
4.6 Non può trovare accoglimento neppure il primo motivo di ricorso presentato nell’interesse del D.M.R., che contesta l’interpretazione della Corte di appello di Palermo secondo cui le vicende di una associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, per quanto inserita nel più vasto contesto criminale di "Cosa Nostra", dovessero intendersi normale patrimonio conoscitivo per chi, all’interno del sodalizio mafioso, rivestiva ruoli apicali: ad avviso della difesa dell’imputato, invece, non si vede perchè il reggente di una famiglia determinata (quale era il F.F.) dovesse necessariamente sapere chi e con quali modalità aveva costituito gruppi per la gestione di specifiche attività illecite.
A tale riguardo, va innanzi tutto disattesa la osservazione difensiva secondo cui sarebbe illogico affermare che l’esistenza di quella associazione L. Stup., ex art. 74 costituisse fatto certamente noto tra i vertici di "Cosa Nostra", per esserne stata autorizzata l’organizzazione da parte dello stesso L.P.S., visto che a quest’ultimo non risulta essere mai stato formalmente contestato alcun ruolo di promotore o partecipe: il rilievo non è infatti decisivo, atteso che le determinazioni dell’autorità giudiziaria sull’esercizio o meno dell’azione penale a carico di un soggetto che sia da ritenere coinvolto in un fatto-reato non possono intendersi dirimenti sulla ricostruzione storica del fatto medesimo.
Si è peraltro già ricordato che il N.A., a proposito dell’addebito ascritto al capo 4) della rubrica (anche) al D.M. R., risulta in chiamante in correità, avendo reso dichiarazioni univoche sulla propria appartenenza a quell’associazione e precisando – come segnalato nell’esaminare il motivo di ricorso svolto dalla difesa di D.G. – che era stato appunto il L.P.S. a dare il placet per la costituzione di quel sodalizio, con cui teneva rapporti, percependone anche parte dei guadagni, attraverso S.N.. Ciò da un lato conferma l’assoluta plausibilità che dell’esistenza di quel gruppo fosse ben consapevole anche il reggente di una famiglia mafiosa come il F.F., indipendentemente dalle informazioni che egli potè ricevere direttamente in merito dal N.A. o da altri; inoltre, impone di considerare che le dichiarazioni dello stesso N.A. rivestono un peso probatorio affatto peculiare, adeguatamente evidenziato nella motivazione della sentenza impugnata a pag. 167.
Non è neppure corretto affermare, come invece insiste nel rappresentare la difesa del ricorrente, che il F.F. si sia limitato a riferire fatti comunque appresi da terzi, avendo egli ricordato uno specifico episodio (relativo ad una transazione di hashish, per un quantitativo di 500 kg.) cui ebbe ad assistere direttamente ed al quale era presente anche il D.M.R., fornendo così un palese riscontro individualizzante: e la Corte territoriale ha già puntualmente spiegato (a pag. 172) l’insostenibilità della tesi difensiva secondo cui lo stesso D. M.R. sarebbe stato descritto come un mero accompagnatore del N.A., "giacchè non avrebbe senso pensare ad un accompagnamento silente e ininfluente nell’ambito di una vicenda che per il suo carattere illecito, per il calibro dei personaggi, per gli interessi in gioco (i 500 kg.) era certamente tanto "coperta e riservata" da non consentire soggetti "estranei".
4.7 Va qualificato manifestamente infondato, e perciò inammissibile, il primo motivo di ricorso svolto dalla difesa del D.M. G..
Sul tema della mancata coincidenza fra il contenuto del "pizzino" ivi segnalato e l’effettiva denominazione della società facente capo a T.G., vittima dell’estorsione de qua, basta prendere atto che – nella stessa prospettazione offerta dalla difesa – la "Mar" aveva preso in affitto locali di proprietà della "Iregel", dunque non poteva certamente intendersi una società del tutto estranea al contesto descritto dalla persona offesa. Appare soprattutto significativo il particolare, giustamente confermato in entrambe le pronunce di merito, che "Mar" era comunque il marchio presente sull’insegna dell’immobile in questione, insegna che lo stesso T.G. aveva autorizzato ad affiggere: ergo, il richiamo ad una richiesta di pagamento del "pizzo" che era stata avanzata in quel luogo ben poteva essere effettuato menzionando il nome della ditta più facilmente percepibile e ricollegabile al luogo in questione (è fin troppo ovvio che l’autore di un’estorsione non presta certo attenzione alla corretta ragione sociale del soggetto giuridico per cui opera la persona fisica dalla quale proviene il pagamento).
Il biglietto in argomento si riferisce a versamenti riguardanti la "Mar" per 2.500,00 Euro quanto al 2005 e di 9.700,00 Euro per il 2006: somme che, per entrambe le annualità, risultano abbinate alla dicitura "conto chiuso", perciò è evidente che nel 2005 e nel 2006 vi fossero stati altri versamenti. Ne deriva che non vi è alcun contrasto fra le emergenze documentali e le dichiarazioni rese dal T.G. e dal B.F., i quali avevano parlato di pagamenti estorsivi per 10 o 12.000,00 Euro l’anno, senza dimenticare le ulteriori risultanze istruttorie che vedono il D. M.G. materiale estensore dell’annotazione di cui al "pizzino" suddetto (come da accertamenti grafologici) ed il T. G. autore di sicure ricognizioni fotografiche sia del D. M.G. che del suddetto B.F. – reo confesso, e chiamante il ricorrente in correità – quali materiali esattori delle somme a lui estorte.
4.8 Da rigettare è anche il primo motivo di ricorso presentato nell’interesse del L.V.R..
Il tema del difetto di prova quanto agli addebiti mossi all’imputato in punto di detenzione e porto di armi, infatti, non è affatto trascurato dalla Corte di appello di Palermo, precisandosi (a pag.
256) che la figura del ricorrente "era stata già, da parte del Gup, incidentalmente oggetto di esame nell’ambito del capo 5) relativo alla detenzione e porto d’arma da fuoco (…), dai quali, riteneva la sentenza impugnata, che pur nell’ottica di un quadro non idoneo ad integrare la responsabilità penale del medesimo, era comunque emerso un suo diretto ed attivo coinvolgimento nella consorteria mafiosa".
Più tardi, la stessa pronuncia di secondo grado evidenziava apertis verbis che la contestazione relativa alle armi doveva intendersi "del tutto marginale nel quadro probatorio concernente l’imputato".
Abbondantemente trattato è anche il tema dell’appoggio che il L. V.R. avrebbe garantito al N.A., come dichiarato da quest’ultimo, nella copertura degli affiliati latitanti, tra i quali il più volte ricordato F.F.:
vero è che il F.F., piuttosto che riferire di sistematiche condotte di favoreggiamento poste in essere dall’imputato, sostiene di averlo rimproverato per essere andato a trovarlo, ma resta il fatto innegabile che, seccato o meno di trovarsi dinanzi il L.V.R., il collaboratore conferma la circostanza che il ricorrente si era recato nel luogo dove egli si nascondeva durante la latitanza, e non certo perchè capitatovi casualmente. L’episodio dimostra in particolare che il L.V. R. sapeva dove il reggente di una famiglia mafiosa aveva trovato rifugio, dato che di certo non poteva essere a conoscenza di soggetti estranei alla consorteria criminale. La Corte territoriale sottolinea assai efficacemente, fra l’altro, che il F. F. non disse di essersi meravigliato dinanzi alla presa d’atto che il L.V.R. sapesse dove si nascondeva, ma solo di averlo rimproverato per il solo fatto di esservisi recato, evidentemente in ragione dell’estrema cautela che chiunque avrebbe dovuto osservare per evitare controlli da parte delle forze dell’ordine.
E’ poi evidente che il F.F. ed il N.A. descrivono in termini assolutamente concordi il L.V.R. come soggetto grandemente impegnato in attività estorsive (analogo contributo, sia pure se in termini più generici, proviene dallo S.M., che la Corte territoriale precisa non essere stato affatto smentito nei suoi assunti da altri collaboratori): e, seppure dinanzi al ricordo di diverse condotte narrate ora dall’uno ora dall’altro in relazione a distinte vittime della riscossione del "pizzo", ad esempio per avere il F.F. segnalato l’estorsione in danno di una ditta che invece il N.A. non menziona, è assolutamente immune da censure la conclusione dei giudici di appello secondo cui "la mancanza di una dichiarazione di conferma da parte del N.A., in assenza di una specifica domanda, non può (…) leggersi come una smentita, ma come un dato assolutamente neutro dal punto di vista logico".
Che poi le dichiarazioni di più collaboratori presentino divergenze è del tutto normale, dal momento che "il giudizio di attendibilità di plurime dichiarazioni accusatorie convergenti provenienti da soggetti rientranti nelle categorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4, deve fondare sulla contestualità ed autonomia delle dichiarazioni, e sulla reciproca non conoscenza dei soggetti dichiaranti, oltre che su ogni altro elemento in concreto idoneo ad escludere l’ipotesi di una fraudolenta concertazione ed a conferire a ciascuna dichiarazione i connotati della reciproca indipendenza ed originalità; le eventuali discrasie su alcuni punti non inficiano irrimediabilmente l’attendibilità delle predette dichiarazioni, ma possono talora confermarne la reciproca autonomia, perchè fisiologiche in presenza di narrazioni dello stesso fatto provenienti da soggetti diversi" (Cass., Sez. 2^, n. 25795 del 19/06/2012, Bernardo, Rv 253418).
Nè va dimenticato che il N.A., lungi dal limitarsi a riferire notizie apprese de relato, riporta anche episodi di cui fu diretto protagonista, sostenendo di avere ricevuto somme provenienti da condotte estorsive che il L.V.R. recapitava proprio a lui.
4.9 In ordine al secondo motivo di ricorso presentato dalla difesa del L.V.G., deve osservarsi che gli argomenti esposti mirano in concreto solo ad una rivalutazione delle risultanze istruttorie.
Sino alla novella introdotta con la L. n. 46 del 2006, la giurisprudenza di questa Corte affermava pacificamente che al giudice di legittimità deve ritenersi preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendo soltanto controllare se la motivazione della sentenza di merito fosse intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito. Quindi, non potevano avere rilevanza le censure che si limitavano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, e la verifica della correttezza e completezza della motivazione non poteva essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite: la Corte, infatti, "non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento" (v., ex plurimis, Cass., Sez. 4^, n. 4842 del 02/12/2003, Elia).
I parametri di valutazione possono dirsi solo parzialmente mutati per effetto delle modifiche apportate agli artt. 533 e 606 c.p.p. con la ricordata novella: in linea di principio, questa Corte potrebbe infatti ravvisare un vizio rilevante in termini di inosservanza di legge processuale, e per converso in termini di manifesta illogicità della motivazione, laddove si rappresenti che le risultanze processuali avrebbero in effetti consentito una ricostruzione dei fatti alternativa rispetto a quella fatta propria dai giudici di merito, purchè tale diversa ricostruzione abbia appunto maggior spessore sul piano logico (realizzando così il presupposto del "ragionevole dubbio" ostativo ad una pronuncia di condanna).
Si è peraltro più volte ribadito che anche all’esito della suddetta riforma "gli aspetti del giudizio che consistono nella valutazione e nell’apprezzamento del significato degli elementi acquisiti attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità se non quando risulti viziato il discorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa e (…), pertanto, restano inammissibili, in sede di legittimità, le censure che siano nella sostanza rivolte a sollecitare soltanto una rivalutazione del risultato probatorio" (Cass., Sez. 5^, n. 8094 dell’11/01/2007, Ienco, Rv 236540). E, proprio con riguardo al principio dell’"oltre ogni ragionevole dubbio", si è da ultimo precisato che esso non ha comunque inciso sulla natura del sindacato della Corte di Cassazione in punto di motivazione della sentenza e non può, quindi, "essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell’appello" (Cass., Sez. 5^, n. 10411 del 28/01/2013, Viola, Rv 254579).
Nella fattispecie oggi in esame, al contrario, la difesa punta a porre nel dubbio la significatività dell’intercettazione del 20 giugno 2008, ex se di straordinaria rilevanza (come ampiamente argomentato nella sentenza impugnata alle pagg. 290 e segg.), semplicemente obiettando che in altre conversazioni il L.V. G. non sarebbe stato nominato: è dunque di palese evidenza come questa Corte venga sollecitata ad una rivisitazione degli elementi di prova acquisiti, a dispetto della dedotta sussistenza di vizi ex art. 606 c.p.p.. Peraltro, non si vede proprio per quale motivo l’assenza di riferimenti all’imputato in altri colloqui, per quanto intervenuti fra soggetti più direttamente impegnati nella ricostituzione della commissione provinciale di "Cosa Nostra", dovrebbe assumere valenza dirimente, quando – come parimenti evidenziato dai giudici di appello – il contenuto di quell’intercettazione risulta assolutamente in linea con le delazioni di S.M.: quest’ultimo collaboratore aveva indicato il L.V.G. come un soggetto in grado di accreditarlo presso l’organizzazione criminale, garantendone l’affidabilità – in particolare, presso F.T., che aveva chiesto allo stesso imputato notizie sul conto dello S.M. – in vista di incarichi per fargli "avvicinare commercianti" (da sottoporre a richieste estorsive), mentre nel corso della conversazione sopra ricordata è L.P.G. a parlare del L.V.G., nello stesso contesto in cui da atto di avere avuto contatti proprio con il F.T. sulle questioni organizzative oggetto del colloquio.
4.10 Le osservazioni esposte nell’analizzare il primo motivo del ricorso presentato dalla difesa di D.S. valgono anche per il corrispondente primo motivo spiegato nell’interesse del M.A.: dinanzi alla portata chiara ed univoca delle dichiarazioni delle persone offese B.M. e F. G. (il primo dei quali, peraltro, risulta avere a sua volta riconosciuto il M.A., a differenza di quanto rilevato per il D.S. che aveva avuto contatti diretti solo con il Fa.Gi.), è manifestamente insostenibile la tesi secondo cui il narrato dei collaboratori di giustizia che riferirono di un’estorsione in danno della Sala Ricevimenti Alba non avrebbe avuto riscontri esterni.
E’ poi del tutto strumentale rappresentare che l’attendibilità delle stesse persone offese avrebbe dovuto essere sottoposta ad un vaglio penetrante e rigoroso, solo in virtù della loro costituzione quali parti civili, quando la prima e più evidente conferma delle dichiarazioni del B.M. e del Fa.Gi. – che indicarono quali autori della condotta criminosa, secondo la successione cronologica dei soggetti che si presentarono a richiedere il "pizzo", il C.A., il D. ed il M. A. – si rinviene nell’ammissione di responsabilità del suddetto C.A., costituendo dato del tutto neutro la circostanza che egli non intese fare il nome di chi gli era succeduto nella esazione delle somme.
Quanto alla censura difensiva secondo cui le dichiarazioni del N.A. non sarebbero state riscontrate da quelle degli altri collaboratori, va ribadito:
– che, alla luce di quanto appena ricordato, il contributo del N.A. non sarebbe neppure indispensabile per una valutazione di congruenza dell’impianto accusatorio;
che il N.A., come chiaramente segnalato nella motivazione della sentenza impugnata, non riferì soltanto di estorsioni commesse dal M.A., genero di tale Br., in danno di quell’esercizio, ma ricordò di avere conosciuto il titolare della sala "Alba" perchè presentatogli proprio dal M.A.: il B.M. ha appunto riconosciuto il N.A. come persona che aveva visto in compagnia dell’imputato, e conosceva il suocero di quest’ultimo quale titolare di una ditta (la Brancagel) con cui aveva rapporti commerciali;
– che se è vero che il B.A. riferisce dati appresi dallo stesso N.A., non altrettanto è a dirsi per il F.F., al quale – per il suo ruolo di reggente più volte sottolineato – constava comunque che il D. e il M. A. riscuotessero il "pizzo" presso "Villa Alba".
4.11 Le doglianze mosse nell’interesse della M.R. e del R.L. (con il primo motivo di ricorso) riguardano la "circolarità" delle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori, da intendersi de relato, tema già affrontato e superato – dovendosi disattendere quanto lamentato dai ricorrenti, analogamente a quanto già esposto esaminando la posizione del B. G. – al precedente punto 4.2, con osservazioni cui occorre fare rinvio.
Come parimenti già segnalato in quella sede, il "pizzino" rinvenuto presso i L.P. e da riferire alla vicenda estorsiva in questione recava la dicitura "800 forno Marinella regalo estate 2005": dicitura, secondo la difesa, non univocamente riferibile all’esercizio commerciale gestito dagli imputati e menzionato dai collaboratori di giustizia, atteso che:
– nel quartiere Marinella vi erano anche altri forni, almeno quattro;
– nulla autorizzerebbe la conclusione che attraverso l’indicazione "Marinella" ci si riferisse al rione, piuttosto che al nome od al cognome della persona titolare del negozio;
– i collaboratori avevano parlato di una serie prolungata di riscossioni del "pizzo" fra il 2007 e il 2008, mentre nel documento si dava contezza di una dazione di denaro isolata ed anteriore di circa due anni.
Tuttavia, in ordine alla individuazione dell’esercizio commerciale, deve ricordarsi che il N.A. aveva parlato del panificio "(OMISSIS)", indicandone come titolare tale " Se. della Marinella"; secondo il F.F., il panificio in questione apparteneva ad un certo " Na.". Pur dovendosi rimarcare in linea di principio che trattasi di questioni di merito, non si vede proprio quali vizi possano inficiare la tenuta logica della sentenza impugnata, ove si tenga conto che nello stesso ricorso si rappresenta che un nipote della M.R., occupato in quel negozio, si chiama proprio S.A., e che i giudici di appello evidenziano come " Na." fosse appunto il diminutivo con cui era normalmente chiamato il R.L., per stessa ammissione di quest’ultimo (v. pag. 34).
Quanto all’elemento psicologico del delitto di favoreggiamento contestato al R.L. ed alla M.R., la difesa trascura le considerazioni svolte nella sentenza oggetto di ricorso a proposito dell’avvenuta ricognizione fotografica di B.G. (presunto autore materiale delle richieste estorsive) da parte degli imputati: quella ricognizione non assume infatti rilievo ai fini accusatori quale mera conferma dell’attendibilità dei collaboratori di giustizia, bensì come indice della volontà del R.L. e della M.R. di negare le risultanze processuali, dal momento che essi dichiararono di conoscere il B.G. – e il di lui fratello – solo come clienti occasionali del negozio, quando invece si trattava di persone che avevano addirittura gestito un esercizio commerciale adiacente.
4.12 Il ricorso presentato nell’interesse di S.D., con riguardo al tema della non configurabilità dell’estorsione lamentata dal P.R. (mirando costui a perseguire un lucro con l’aumento di clientela che l’organizzazione criminale avrebbe potuto garantirgli), si limita a formulare censure assolutamente generiche:
vi si legge infatti che "la motivazione della Corte di appello, omettendo di affrontare tale punto della questione, risulta meramente apparente e poco convincente, e pertanto la sentenza merita di essere annullata".
Altrettanto aspecifico si rivela il contenuto dei motivi nuovi di ricorso, dove si lamenta che l’erronea applicazione dell’art. 629 c.p. deriverebbe dalla impossibilità di ravvisare nel caso concreto condotte di violenza o minaccia nei confronti della persona offesa, nè ipotesi di profitto ingiusto in capo ai soggetti attivi, e si sottolinea che il S.D. avrebbe avuto contatti con il P.R. in epoca posteriore a quelli di altri presunti emissari dell’associazione mafiosa; infatti, nella sentenza impugnata è evidenziato chiaramente che la volontà del P.R. – la cui veste di affiliato alla mafia non era comunque emersa – di ricavare un utile dalla vendita di materiali ad acquirenti inviatigli dalla consorteria criminale fu manifestata successivamente alla imposizione del "pizzo" e dopo l’intervento dell’imputato, il che nulla toglie alla natura estorsiva delle richieste a monte di quella finale scelta di convenienza operata dall’imprenditore.
La riproduzione testuale delle dichiarazioni della persona offesa, che si legge nella motivazione della Corte territoriale alle pagg.
312 e segg., fa comprendere che tra il 2001 e il 2004 il P. R. aveva subito intimidazioni, danneggiamenti e furti, disponendosi così a pagare con l’intermediazione di Bo.
G.: in seguito si era a lui presentato il S.D., dicendogli che da quel momento il denaro avrebbe dovuto essere versato a mani sue (cosa che il Bo.Gi. aveva poi confermato al denunciante, dicendogli di essere ormai estraneo alla vicenda e che non avrebbe più potuto incidere neppure sul quantum da versare). Solo in seguito, quando dunque il ruolo centrale ed esclusivo del S.D. si era così affermato, il P. R. – secondo il narrato del più volte ricordato collaboratore N.A., non a caso menzionato anche dalla persona offesa come occasionale accompagnatore dello stesso ricorrente – avrebbe avanzato la richiesta di far convogliare verso la sua ditta più clienti, peraltro proponendo una ripartizione degli utili. A pag. 318 della sentenza della Corte di appello si precisa infatti che "il P.R., dopo avere constatato la impossibilità di sottrarsi o comunque di ridurre l’importo della somma da pagare dopo l’arrivo del S.D., manifestò il proposito, autonomo rispetto a quanto subiva, di ottenere dei vantaggi economici dalla consorteria mafiosa".
La difesa, in concreto, non prova neppure a confutare la ricostruzione cronologica appena delineata, salvo ricordare che il S.D. era succeduto al Bo.Gi..
Manifestamente infondato appare poi l’argomento che il ricorrente utilizza – richiamando il dato formale della mancata conversione in legge della norma che aveva introdotto l’art. 629 bis c.p. – per escludere che l’ordinamento contempli ipotesi estorsive in cui la minaccia sia connotata da un mero contesto ambientale o dalla percepita caratura criminale del soggetto da cui proviene la richiesta di denaro: nel caso in esame il problema è affatto diverso, atteso che di intimidazioni esplicite il P.R. ne aveva comunque subite in concreto, e solo dopo essersi trovato costretto ad atti di disposizione patrimoniale per impedirne il ripetersi aveva cercato di perseguire fini di lucro.
4.13 Il ricorso presentato dallo S.G., nella parte in cui lamenta erronea applicazione dell’art. 192 del codice di rito, si risolve in una inammissibile riproposizione di tesi già confutate dalla Corte di appello: a pag. 326 della sentenza impugnata risulta abbondantemente chiarito che "la indicazione nel capo di imputazione di varie tipologie di sostanza (…) non è correlata ad una tecnica di formulazione della contestazione "confusa", ma si rileva invero correlata alla variegata attività delittuosa dell’imputato, avente ad oggetto ciascuna delle sostanze indicate"; inoltre, risulta parimenti già esclusa la rilevanza della mancata indicazione dei dati quantitativi o del principio attivo delle sostanze de quibus, non essendone stato possibile un accertamento in concreto, realizzandosi altrimenti "l’assurdo interpretativo di non consentire la punibilità di coloro i quali, con maggiore capacità criminale, siano in grado di eludere i controlli, ove comunque la condotta risulti dimostrata aliunde".
Nessun contrasto, inoltre, si rileva tra le dichiarazioni del F.F. e del N.A. (queste ultime, ancora una volta, di particolare spessore in quanto anche auto-accusatorie):
a tacer d’altro, entrambi parlano dei rapporti di affari dello S. G. con tale V., di cui il N.A. fornisce anche il cognome, e la mancanza di una espressa contestazione di reato non può essere ex se sufficiente per inferirne che un episodio di rilievo penale narrato dall’uno o dall’altro sia stato ritenuto non verosimile dagli inquirenti. Senza dimenticare che, anche nel caso dello S.G., vi sono riscontri ulteriori anche sulla base del contenuto di annotazioni rinvenute in possesso dei L. P. (uno dei quali da interpretare nel senso che tali " C. F." e " S.G." stessero invadendo proprio il mercato della droga).
5. I motivi di ricorso afferenti la determinazione delle pene inflitte.
5.1 La difesa del B.F. lamenta, con il primo motivo, carenza di motivazione in ordine alla scelta dei giudici di merito di muovere da una pena base (quanto alla sanzione pecuniaria) sensibilmente superiore al minimo edittale. Si tratta di doglianza che non può trovare accoglimento: vero è che la sentenza impugnata non spende parole di sorta sui criteri adottati per l’individuazione di una pena base di 1.500,00 Euro (tenendo conto di previsioni edittali, per la multa, da 516,00 a 2.065,00 Euro), ma va considerato che dal raffronto con la pronuncia di primo grado risulta implicitamente come i giudici di appello abbiano manifestato l’esigenza di un temperamento rispetto alla sanzione già inflitta, mantenendo gli stessi criteri di proporzionalità rispetto ai limiti di legge. La pena base da cui era partito il G.u.p., sempre muovendo dall’estorsione, era stata infatti pari ad anni 6 di reclusione ed Euro 2.000,00 (su limiti edittali che, tenendo conto dell’aggravante ivi considerata, erano da anni 4, mesi 6 ed Euro 1.032,00 fino a un massimo di anni 20 ed Euro 3.098,00).
5.2 Appaiono inammissibili i vari motivi di ricorso in cui si deduce genericamente violazione ed erronea applicazione degli artt. 62 bis e 133 c.p.: l’osservazione riguarda il secondo motivo presentato nell’interesse del B.G., il primo concernente il C.A., il secondo di cui al ricorso del D.M. R., il terzo (quanto all’aspetto relativo alla contestata esclusione delle attenuanti generiche) del D.M.G., il quarto relativo al M.A. e l’unico (in parte qua) sviluppato dalla difesa del S.D..
Va infatti segnalato che "la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 c.p.., sicchè è inammissibile la censura che, nel giudizio di Cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena" (Cass., Sez. 3^, n. 1182 17/10/2007, Cilia); a riguardo, nell’interesse del D.M.R. si rappresenta ad esempio che egli avrebbe meritato una sanzione più modesta giacchè avrebbe partecipato al sodalizio criminoso contestatogli sub 4 "per un ristretto arco temporale" (che però nello stesso corpo del ricorso si individua tra il marzo 2005 e la fine del 2006, obiettivamente non tanto "ristretto"), con il marginale compito di tenuta della cassa per gli acquisti e le cessioni di droga (ed è questione di merito valutare se tale incombenza sia o no rilevante).
Anche in punto di concedibilità delle attenuanti generiche, il M.A. ed il S.D. si dolgono della significatività riconosciuta ai rispettivi precedenti, ma già il riferimento alla particolare gravità degli addebiti deve considerarsi – per costante giurisprudenza – sufficiente per fondare un giudizio negativo in sede di merito, atteso che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62 bis c.p. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (v.
Cass., Sez. 6^, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi). Peraltro, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchè anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole od all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso (v. Cass., Sez. 2^, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone).
Ancora a titolo esemplificativo, si rileva che la difesa del C.A. evidenzia una presunta contraddittorietà della motivazione della sentenza della Corte territoriale, nel punto in cui nega all’imputato le attenuanti ex art. 62 bis c.p. ma conferisce rilievo alle sue dichiarazioni perchè fondanti l’accusa a carico di altri imputati: osservazione fuorviante, in quanto i giudici di appello sottolineano semmai le ammissioni di responsabilità del prevenuto solo quale dato di riscontro (non indispensabile) alle già chiare emergenze istruttorie che deponevano per la piena attendibilità del B.M. e del Fa.Gi., non invece come elemento di natura etero-accusatoria, avendo il C. A. comunque taciuto i nomi degli altri autori dell’estorsione addebitatagli. A pag. 145 della sentenza impugnata quella confessione viene financo definita "scaltra" ed "insignificante", quale espressione di una scelta di mera convenienza, realizzata con una particolare attenzione a non rivelare "qualche ulteriore particolare che potesse incidere direttamente sulla responsabilità di altri".
5.3 Il terzo motivo del ricorso presentato dalla difesa del L.V. G. è a sua volta inammissibile, perchè manifestamente infondato e financo per difetto di interesse dell’imputato a muovere la doglianza de qua: ribaditi gli argomenti di cui al punto precedente in punto di pertinenza del trattamento sanzionatorio alla sede di merito, va altresì considerato che ai fini dell’individuazione del reato più grave tra l’addebito sub judice e quelli già giudicati la Corte territoriale non ha affatto assunto determinazioni contra legem.
In vero, una volta verificata l’identità di disegno criminoso fra un reato ancora da giudicare ed un altro per cui è stata pronunciata condanna, la gravità delle due fattispecie deve essere necessariamente valutata in concreto, anche in ragione della pena inflitta per l’addebito su cui vi è già sentenza irrevocabile e indipendentemente da quella prevista in astratto; inoltre, ipotizzare la maggiore gravità di un reato di estorsione aggravata rispetto ad un delitto ex art. 416 bis c.p. comporterebbe comunque il ricorso ad un computo che tenga conto anche della pena pecuniaria, contemplata soltanto dalla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 629 c.p..
5.4 E’ invece fondato il secondo motivo di ricorso presentato dalla difesa del B.F., in tema di misura di sicurezza.
La Corte territoriale non risulta infatti avere offerto alcuna motivazione in ordine alla pericolosità sociale dell’imputato, necessario presupposto per l’applicazione della casa di lavoro nei suoi confronti. I giudici di appello si limitano a valutare infondato il relativo motivo di impugnazione, osservando che l’irrogazione della misura di sicurezza "consegue (…), in maniera indefettibile, per il disposto dell’art. 417 c.p., in conseguenza della condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.. La durata, in vero non lontana dal minimo edittale, appare del tutto commisurata alla gravità dei delitti in contestazione, pur tenendo conto della scelta collaborativa che certamente ne contiene la durata medesima, fissata equamente dal primo giudice".
Deve considerarsi erronea la valutazione di indefettibilità dell’applicazione della misura, in ordine alla quale la giurisprudenza di questa Corte è ormai orientata nel senso che – se non vi è l’obbligo di un accertamento in concreto della pericolosità – non è comunque possibile affermare una "pericolosità sociale presunta ex lege (istituto espunto dall’ordinamento in forza della L. 10 ottobre 1986, art. 31, n. 663), dovendosi invece ritenere l’operatività di una presunzione semplice (desunta dalle caratteristiche del sodalizio criminoso e dalla connaturata persistenza nel tempo del vincolo malavitoso), la quale è pertanto superabile quando siano acquisiti elementi idonei ad escludere la concreta sussistenza della pericolosità" (Cass. Sez. 1^, n. 6847 del 29/10/2007, Abbate, Rv 238651; in senso conforme, v.
anche Cass., Sez. 1^, n. 7196 del 12/01/2011, Inzerillo, Rv 249224).
Appare dunque evidente come i giudici di secondo grado, nel valutare la posizione del B.F., abbiano tenuto conto della sua qualità di collaboratore di giustizia solo in ordine alla durata della misura inflitta, senza nulla segnalare a proposito della necessità di formulare un giudizio di attuale e perdurante pericolosità sociale a dispetto di tale scelta collaborativa (nonchè della sensibile riduzione della stessa pena principale): sul punto, si impone l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.
6. Le questioni in tema di circostanze aggravanti.
6.1 Debbono intendersi manifestamente infondate tutte le doglianze avanzate dai ricorrenti che hanno contestato la configurabilita della circostanza aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.
Il C.F. lamenta, sul punto, carenza di motivazione, rilevando che l’aggravante de qua sarebbe stata ritenuta solo sulla base dell’accertato rapporto dell’imputato con il F. F.: è tuttavia evidente che già quel collegamento – visto che il F.F. era notoriamente latitante, e che fra i due occorsero intese anche a proposito della consegna di un’arma al L.P.S. – rende manifesta la consapevolezza dell’imputato di agire in un contesto strumentale ai fini dell’organizzazione criminale.
Per il C.A., ad onta del presunto automatismo fra appartenenza ad un’associazione mafiosa e ravvisabilità dell’aggravante ex art. 7, ancora a pag. 145 della sentenza di appello si segnala come egli fosse stato espressamente sostituito da altri – che ne avevano apertis verbis richiamato il nome, presentandosi come suoi "amici" – nelle esazioni del pizzo, dimostrandosi così una "linea di continuità tra i vari correi della estorsione, del tutto intranea alle unitarie logiche della consorteria mafiosa".
Quanto al D.M.G., non è corretto affermare che l’aggravante in parola sia stata riconosciuta solo in virtù delle presunte minacce rivolte dall’imputato a chi stava realizzando lavori di scavo per il T.G. (aspetto in ordine al quale, del resto, non sarebbe stato comunque necessario acquisire riscontri, provenendo in via diretta dalla ricostruzione offerta da una persona offesa pacificamente meritevole di attendibilità): i giudici di secondo grado ricordano anche e soprattutto "il contesto mafioso nel quale si muove la condotta, volta ad ottenere il raggiungimento dell’illecito profitto attraverso la minaccia della necessità della "messa a posto".
Relativamente alle doglianze del M.A. (di cui al terzo motivo del suo ricorso), del tutto irrilevante ai fini della configurabilita dell’aggravante in esame è l’assunto secondo il quale egli sarebbe stato illogicamente accostato a due famiglie distinte, dovendosi piuttosto ricavare da tale elemento la conferma della sua sicura intraneità a "Cosa Nostra"; nè appare condivisibile la ricostruzione difensiva che vorrebbe la condotta del ricorrente, nella prospettazione descritta dal F.F. e dal N.A., non già ispirata dall’intento di agevolare il sodalizio di appartenenza bensì da quello di procurarsi un lucro, anche in frode della consorteria. E’ infatti evidente che i collaboratori rappresentano il M.A., nel momento della riscossione delle somme provento delle attività estorsive, quale emanazione dell’organizzazione criminale, in piena conformità al quadro offerto dalla sentenza impugnata, a pag. 153: solo in seguito, dinanzi a problemi finanziari contingenti, egli avrebbe intascato per sè parte di quel denaro.
6.2 Deve essere rigettato il secondo motivo di ricorso spiegato nell’interesse del L.V.R., relativo all’erronea applicazione dell’art. 63 c.p., comma 4, in presenza del contestuale riconoscimento delle aggravanti ex art. 416 bis, commi 4 e 6. E’ stato già ribadito più volte da questa Corte che "nell’ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dall’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6 ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non si applica la regola generale prevista dall’art. 63 c.p., comma 4, bensì l’autonoma disciplina derogatoria di cui all’art. 416 bis, citato comma 6 che prevede l’aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata" (v. Cass., Sez. 6^, n. 7916 del 13/12/2011, La Franca, Rv 252069). Il computo della pena operato dai giudici di merito risulta effettuato proprio applicando correttamente i principi appena richiamati.
6.3 Non può trovare accoglimento neppure il secondo motivo del ricorso del M.A., quanto alla presunta erronea applicazione dell’art. 629 c.p., comma 2: a smentire l’osservazione della difesa secondo cui all’imputato non risulta contestato alcun addebito ex art. 416 bis c.p., nè sarebbe comunque stata accertata la sua partecipazione a sodalizi mafiosi, soccorre infatti lo stesso corpo del ricorso, laddove – nel motivo successivo, come sopra ricordato – si fa presente che secondo l’ipotesi accusatoria l’imputato avrebbe financo agevolato più famiglie, in una delle quali il reggente sarebbe stato "dapprima F.F., a cui successe D. ed in seguito M.A.".
6.4 Si impone poi la valutazione di inammissibilità dei motivi nuovi di ricorso presentati per il S.D. (quanto al contestato concorso delle aggravanti ex art. 629 c.p., comma 2 e D.L. n. 152 del 1991, art. 7), nonchè per il L.V.R. ed il L.V. G. (sulla ravvisabilità delle circostanze di cui all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6).
Si tratta infatti di motivi del tutto eterogenei rispetto a quelli sviluppati nei ricorsi originari, mentre le Sezioni Unite di questa Corte insegnano che "i "motivi nuovi" a sostegno dell’impugnazione, previsti tanto nella disposizione di ordine generale contenuta nell’art. 585 c.p.p., comma 4, quanto nelle norme concernenti il ricorso per cassazione in materia cautelare (art. 311 c.p.p., comma 4) ed il procedimento in camera di consiglio nel giudizio di legittimità (art. 611 c.p.p., comma 1), devono avere ad oggetto i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di gravame ai sensi dell’art. 581 c.p.p., lett. a)" (sent n. 4683 del 25/02/1998, Bono, Rv 210259). In applicazione del principio ora richiamato, pronunce successive vi hanno espresso costante adesione, giungendo recentemente ad affermare che "in tema di ricorso per cassazione, la presentazione di motivi nuovi è consentita entro i limiti in cui essi investano capi o punti della decisione già enunciati nell’atto originario di gravame, poichè la "novità" è riferita ai "motivi", e quindi alle ragioni che illustrano ed argomentano il gravame su singoli capi o punti della sentenza impugnata, già censurati con il ricorso" (Cass., Sez. 1^, n. 40932 del 26/05/2011, Califano, Rv 251482).
Esemplificando in relazione a questioni di carattere peculiare, si è fra l’altro ritenuto che "costituiscono punti distinti della decisione, come tali suscettibili di autonoma considerazione, la questione relativa all’adeguatezza del giudizio di bilanciamento tra le circostanze, investita dall’appello originario, e quella inerente alla configurabilità dell’aggravante dell’ingente quantità di sostanza stupefacente D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 80, comma 2, oggetto del motivo aggiunto proposto in sede di gravame" (Cass., Sez. 6^, n. 73 del 21/09/2011, Aguì, Rv 251780); e che "al ricorrente in cassazione non è consentito, con i motivi nuovi di cui all’art. 611 c.p.p., dedurre una violazione di legge se era stato originariamente censurato solo il vizio di motivazione" (Cass., Sez. 5^, n. 14991 del 12/01/2012, Strisciuglio, Rv 252320).
7. Le questioni civilistiche.
E’ in parte fondato il secondo motivo del ricorso riguardante il R.L. e la M.R..
Esaminando gli atti del carteggio processuale, si rileva in effetti che alcuni soggetti (Comune di Sinisi, Solidaria CSC, Confcommercio, Associazione Antiracket e Antiusura SOS Impresa Palermo, Centro Studi e Iniziative Culturali "Pio La Torre", Confindustria Palermo) non risultano essersi costituiti parti civili nei confronti dei due imputati: la condanna alle spese pronunciata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo nei confronti del R.L. e della M. R., anche in favore delle parti civili anzidette, non trovava pertanto titolo alcuno, ed analogamente è a dirsi per le conformi statuizioni adottate dai giudici di secondo grado. Si impone pertanto l’annullamento senza rinvio – in parte qua – di entrambe le sentenze di merito, nei termini di cui al dispositivo.
Il motivo di ricorso in argomento deve invece essere rigettato quanto alla lamentata carenza di legittimazione a costituirsi da parte degli enti territoriali e delle associazioni che formalizzarono effettive domande risarcitorie: è certamente da escludere che tali soggetti possano considerarsi persone offese dal reato ascritto ai due imputati, ma la costituzione di parte civile ben può intervenire anche ad opera di chi sia semplicemente danneggiato dal reato, vuoi per effetto di una immediata diminuzione patrimoniale vuoi per la lesione di situazioni giuridiche immanenti alla stessa ragion d’essere di quel soggetto. In tale prospettiva, appare corretta l’argomentazione adottata dai giudici di appello, incentrata sulla presa d’atto che una condotta omertosa di favoreggiamento implica una immediata, maggiore esposizione di chi operi nel medesimo tessuto sociale e si disponga invece a denunciare (od a stimolare che vengano denunciate) le vessazioni subite: la mancanza di una prova del conseguente danno, ove non riguardi l’an ma – come nel caso di specie – soltanto una possibilità di effettiva quantificazione, non comporta alcuna irritualità della costituzione, salvo dover determinare il giudicante a decidere secondo criteri di equità.
8. In conclusione, oltre allo stralcio della posizione del M. S. ed agli annullamenti evidenziati in precedenza, debbono essere dichiarati inammissibili i ricorsi degli imputati C. F., C.A., D.S., D.M.G., S.D. e S.G., con la condanna di ciascuno dei suddetti ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, nonchè al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, così equitativamente stabilita alla luce della giurisprudenza costituzionale (v. Corte Cost., sent.
n. 186 del 13/06/2000).
I ricorsi degli imputati B.G., D.G., D.M. R., L.V.R., L.V.G. e M. A. debbono invece essere integralmente rigettati, con la conseguente condanna dei predetti al pagamento delle spese processuali.
Dalla declaratoria di inammissibilità o dal rigetto integrale dei ricorsi deriva altresì la condanna degli imputati sopra indicati alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili da intendersi validamente costituite nei loro rispettivi riguardi, e che hanno formalizzato conclusioni. I relativi importi debbono liquidarsi come da dispositivo, in ragione dell’impegno professionale richiesto ai rispettivi patrocinatori ed avuto riguardo al numero delle parti assistite, con distrazione ex art. 93 c.p.c. laddove ve ne sia istanza.
P.Q.M.
Dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 266 c.p.p., comma 2, e D.L. n. 152 del 1991, art. 13 in relazione all’art. 14 Cost.;
annulla senza rinvio le statuizioni della sentenza impugnata e quelle della sentenza emessa dal G.u.p. del Tribunale di Palermo in data 04/12/2009, in punto di governo delle spese fra gli imputati R. L. e M.R. e le parti civili Comune di Cinisi, Solidaria C.S.C., Confcommercio, Associazione Antiracket e Antiusura "S.o.s. Palermo", Centro studi e iniziative culturali "Pio La Torre" e Confindustria Palermo;
annulla le statuizioni della sentenza impugnata nei confronti di B.F., limitatamente alla condanna dell’imputato alla misura di sicurezza della casa di lavoro, e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo per nuovo esame sul punto;
rigetta nel resto i ricorsi presentati nell’interesse del B. F., del R.L. e della M.R.;
rigetta i ricorsi presentati nell’interesse di B.G., D.S., D.M.R., L.V.R., L. V.G., e M.A., e condanna ciascuno di detti imputati al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità;
dichiara inammissibili i ricorsi presentati nell’interesse di C.F., C.A., D.S., D. M.G., S.D. e S.G., e condanna ciascuno di detti imputati al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, nonchè della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende;
condanna altresì:
– B.G., D.G., L.V.R., L.V. G., M.A., C.A., D. S., D.M.G., S.D., R.L. e M.R., in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio di cassazione dalle parti civili Confindustria Sicilia, FAI – Federazione Associata Italiana Antiracket e Antiusura, Comitato "Addio Pizzo", spese che liquida in Euro 2.700,00, oltre accessori come per legge, per la parte civile Confindustria Sicilia, con attribuzione all’Avv. V. . ex art. 93 c.p.c., e complessivamente in Euro 3.500,00, oltre accessori come per legge, per le parti civili FAI – Federazione Associata Italiana Antiracket e Antiusura e Comitato "Addio Pizzo", con attribuzione all’Avv. E. B. ex art. 93 c.p.c.;
– B.G., C.A., D.G., D. S., D.M.G., L.V.R., L.V. G., M.A., S.D., in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio di cassazione dalle parti civili S.O.S. Impresa Palermo, Solidaria S.C.S. Onlus, ConfCommercio Palermo, Centro studi e iniziative culturali "Pio La Torre" e Confindustria Palermo, spese che liquida complessivamente in Euro 3.500,00, oltre accessori come per legge, per le parti civili S.O.S. Impresa Palermo e Solidaria S.C.S. Onlus, con attribuzione all’Avv. F. M.A. ex art. 93 c.p.c., in Euro 2.700,00, oltre accessori come per legge, per la parte civile ConfCommercio Palermo, con attribuzione all’Avv. G. F. L. ex art. 93 c.p.c., e complessivamente in Euro 3.500,00, oltre accessori come per legge, per le parti civili Centro studi e iniziative culturali "Pio La Torre" e Confindustria Palermo, con attribuzione all’Avv. E. B. ex art. 93 c.p.c.;
D.M.G., alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio di cassazione dalla parte civile T.G., spese che liquida in Euro 2.700,00, oltre accessori come per legge, con attribuzione all’Avv. E.B. ex art. 93 c.p.c.;
– D.S., C.A. e M.A., in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio di cassazione dalla parte civile B.M., spese che liquida in Euro 2.700,00, oltre accessori come per legge, con attribuzione all’Avv. E.B. ex art. 93 c.p.c.;
dispone infine lo stralcio del procedimento relativo a M. S., per consentire alla Cancelleria di acquisire certezza della sua avvenuta morte, dichiarata nel corso della discussione dall’avvocato difensore; provvederà in tal senso la Cancelleria a richiedere apposita certificazione anagrafica.
Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2013

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