Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 29-01-2013) 26-06-2013, n. 28068

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/



Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Il Tribunale di Reggio Calabria, su richiesta di riesame proposta nell’interesse di P.B.V. avverso un’ordinanza del G.i.p. dello stesso Tribunale emessa il 16/03/2012, rigettava il gravame con provvedimento adottato il 16/04/2012 all’esito dell’udienza camerale dell’11/04/2012; la relativa motivazione veniva depositata il successivo 16/07/2012.

1.1 Il collegio dava atto che il procedimento penale in relazione al quale era intervenuta l’ordinanza restrittiva della libertà (anche) del P., sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere, riguardava una complessa attività di indagine concernente l’individuazione delle dinamiche criminali della c.d. "cosca Condello", emersa all’esito di tali investigazioni come una articolazione della associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta: la suddetta cosca – che secondo l’impianto accusatorio disponeva di armi e materie esplodenti – risultava avere operato soprattutto nel territorio di Archi di Reggio Calabria, e vedeva quale figura di vertice C.D., latitante da circa ventanni. Fra i soggetti che godevano della massima fiducia da parte di costui doveva intendersi titolare di ruolo di spicco B. T.A., fratello di T.M. (compagna del latitante), il quale aveva promosso ed organizzato, unitamente alla sorella, una distinta associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti contro l’amministrazione della giustizia, in particolare volti a favorire il perdurare della latitanza del C. e l’impossibilità di eseguire a suo carico una pluralità di provvedimenti restrittivi della libertà personale, anche conseguenti a sentenze di condanna passate in giudicato. Ad avviso del Tribunale, non si era comunque trattato di una semplice attività di assistenza nei confronti del ricercato (astrattamente rilevante ai sensi dell’art. 418 cod. pen.), bensì di un vero e proprio supporto operativo, rivelatosi il migliore strumento nella disponibilità di C.D. per mantenere la compattezza originaria del sodalizio mafioso da lui ancora comandato e diretto.

Perciò, dinanzi alle possibili difficoltà di inquadrare nella condotta di un favoreggiatore – tenendo anche conto delle cause personali di esclusione della punibilità in favore dei soggetti attivi che risultino prossimi congiunti del favorito doveva sì ritenersi di difficile dimostrazione … il contributo concreto, specifico, volontario e consapevole alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione di tipo mafioso, derivante dalla condotta favoreggiatrice del familiare del latitante, soprattutto nel momento in cui in capo all’extraneus difetta la prova del perseguimento, anche parziale, del programma criminoso di un’ampia organizzazione di tipo mafioso di cui non fa parte. La stabile destinazione di un gruppo di persone, tuttavia, per come ricostruita, dotate di una rudimentale organizzazione, di ruoli ben individuati che si accordano tra loro, predispongono mezzi e strumenti, agiscono in esecuzione di un condiviso programma criminoso, diviene condotta penalmente rilevante in relazione al delitto a concorso necessario di cui all’art. 416 cod. pen.: ove il soggetto favorito da tale struttura è collocato al vertice dell’associazione di tipo mafioso trova pacifica applicazione l’aggravante, speciale e ad effetto speciale, di cui alla L. 12 luglio 1991, n. 203, art. 7.

In proposito, il Tribunale richiamava specifici precedenti giurisprudenziali di legittimità.

1.2 Ad illustrare il contributo dei vari associati ed i risultati delle acquisizioni istruttorie, il collegio segnalava che:

– l’associazione richiamata, da intendersi aggravata D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 in quanto strumentale ad agevolare le attività della cosca presupposta garantendo che C.D. rimanesse in stato di libertà e veicolasse – tramite gli associati – le direttive di indirizzo ed organizzazione di quelle attività, risultava disporre di più beni immobili, veicoli e strumenti di comunicazione (fra cui apparecchi telefonici cellulari da impiegare una sola volta, per essere poi spenti e immediatamente dismessi), onde consentire al latitante di avere più rifugi e di essere raggiunto o comunque contattato eludendo le investigazioni promosse per la sua ricerca sul territorio;

– erano emersi gravi indizi di colpevolezza nei confronti dei vari, presunti partecipi grazie all’ascolto di una notevole mole di conversazioni intercettate (telefoniche e fra presenti), indicative della costante volontà degli associati di escogitare ed attuare sistemi di tutela dai controlli delle forze dell’ordine, specialmente in occasione delle visite da rendere al latitante, tanto che si erano verificati episodi in cui alcuni membri del sodalizio avevano individuato e disattivato delle microspie installate su autovetture da loro utilizzate;

– tutti i soggetti coinvolti per compiere condotte di ausilio ai fini dell’associazione, ivi compresi coloro a cui veniva richiesto di fornire autovetture "pulite", dovevano offrire garanzie di assoluta affidabilità, e pertanto dovevano necessariamente ricevere indicazioni (da parte di T.B.A.) sulle linee tattiche previamente individuate, in maniera da scongiurare l’eventuale ricorso a comunicazioni telefoniche e poter agire sempre in perfetto sincronismo e piena sinergia;

– in proposito, il ricorso a luoghi e sistemi consolidati per organizzare gli spostamenti doveva intendersi espressione non solo di un piano fattuale collaudato e prodotto di concordata e preventiva programmazione tra i sodali, ma anche di riferibilità a posti e persone di sicura affidabilità, posto che i soggetti che con i principali protagonisti sopra individuati collaborano devono essere personaggi idonei a rilevare eventuali interessamenti delle forze dell’ordine all’anomala presenza (magari durata per giorni o ore) delle vetture in uso ai prossimi congiunti del latitante in zone non riferibili direttamente alla loro residenza o dimora di fatto il collaboratore di giustizia F.A. aveva già da tempo precisato che il T. aveva svolto ruolo attivo per favorire la latitanza anche di C.P., capo della cosca fino a quando non era stato arrestato, ed al quale era subentrato D.;

fra gli episodi direttamente monitorati dalla polizia giudiziaria (grazie alle intercettazioni e ad attività di osservazione in loco, anche avvalendosi di sistemi di video-sorveglianza allestiti presso edifici privati od esercizi commerciali) si erano registrate più assenze prolungate della T. dal panificio dove prestava attività lavorativa, in occasioni nelle quali si era avvalsa, vuoi per gli spostamenti vuoi per poter contare su manovre di copertura quali lo scambio di autovetture, dell’opera del fratello e di altri sodali, tra i quali in particolare G.F., D. R., M. e R.R., B.V. P.; il suddetto G. doveva considerarsi un vero e proprio alter ego di T.B.A., curando egli stesso l’individuazione dei medesimi luoghi di incontro per la gestione degli spostamenti, la messa a disposizione dei sodali di autovetture idonee a fungere da staffetta, l’organizzazione di preordinate attività di "spedinamento"; R.M. risultava avere svolto un ruolo attivo già in occasione dei fatti storici presupposti alla presente vicenda, quando si era trattato di prestare ausilio alla cosca garantendo il permanere della latitanza di C.P., ed era stato protagonista di almeno due delle occasioni in cui era stato necessario organizzare gli spostamenti del T., procurandogli mezzi ricevuti in prestito da altri (un’auto da M.C., ed uno scooter da Gu.Ca.), fino ad ammettere tranquillamente, nel corso di conversazioni intercettate, di avere incontrato C.D. una decina di volte senza mai correre rischi, criticando al contempo coloro che non avevano dimostrato la stessa cautela;

P.B.V. era stato protagonista di una delle ricordate attività di "spedinamento", in occasione della quale era stato verosimilmente consentito al C. di incontrarsi con il figlio V., salito unitamente al T. nell’auto condotta dallo stesso P., che poi era sfuggita ai controlli della polizia giudiziaria (più tardi, l’auto in questione era stata nuovamente monitorata, ma con il solo conducente a bordo, mentre alcune ore più tardi il T. e C.V. erano stati rivisti in compagnia del G.);

nel corso delle indagini era stato individuato uno degli immobili utilizzati da C.D. come "covo" per mantenersi latitante, sito in (OMISSIS), fornito di contatore elettrico non attivo: le precedenti fatturazioni, per quanto intestate a tale Ba.Ti., risultavano essere state indirizzate presso l’abitazione di A.M. (ed anche chi aveva sottoscritto il relativo contratto aveva indicato come recapito telefonico un’utenza fissa pertinente all’azienda di cui era titolare il marito della Am., D.C.P.), persona notata alle 20:05 dell’11/01/2011, nel corso delle attività di osservazione, alla guida di una vettura che precedeva immediatamente un motociclo condotto dal già ricordato T.B.A., in uscita da uno dei cancelli di Via (OMISSIS), dopo che nel pomeriggio lo stesso T. aveva posto in essere ripetute manovre di "spedinamento", compreso imboccare strade contromano, sino ad immettersi in quella via, sterrata e priva di illuminazione; il perdurare della fornitura di energia elettrica nell’appartamento in questione era garantito da un sistema di cavi interrati che collegava l’impianto ad una idropulitrice di proprietà dell’azienda di trasporti Amato/Barbaro/De Carlo, idropulitrice a sua volta collegata all’abitazione in uso al nucleo familiare della Am., sita in Via (OMISSIS); all’interno dell’indicato immobile erano stati rinvenuti appunti manoscritti, poi risultati all’esito di accertamenti tecnici grafologici da riferire alla stessa mano che aveva vergato altre annotazioni già acquisite agli atti e ritenute ascrivibili al latitante, nonchè dei medicinali che risultavano essere stati prescritti alla madre della T.;

nello stesso appartamento, risultato di proprietà di R. P. ma senza che costui ne avesse mai segnalato l’abusiva occupazione da parte di terzi, venivano repertati un mozzicone di sigaretta, un bicchiere di plastica ed uno stick di burro-cacao: i successivi accertamenti biologici consentivano di appurare tracce di un DNA maschile che, posto a confronto con elementi acquisiti all’esito di una perquisizione domiciliare nei confronti di F. e C.P. (padre e fratello del latitante), rivelavano l’impossibilità che si trattasse del suddetto P., al contempo evidenziando la necessità di ricondurlo ad un figlio naturale di F. (con la conseguenza di doverlo identificare in D., essendo l’altro fratello P. ininterrottamente detenuto dal 1993);

– R.P. era risultato da pregresse investigazioni in frequente contatto con B.G.F., soggetto già sottoposto a misure restrittive della libertà personale in quanto organico alla cosca Condello, e dalle intercettazioni era emersa una chiamata di T.M. (rimasta però senza risposta) su un’utenza fissa intestata al R.;

all’esito della individuazione del suddetto covo, da ulteriori intercettazioni in atto era emerso che N.R. (fratello di N.F.B., coniugata con C.P., fratello del latitante), la cui abitazione era a breve distanza, aveva rappresentato proprio alla sorella l’opportunità di munire l’edificio di sistemi di video-sorveglianza, e ne era derivata una perquisizione presso il domicilio della famiglia N., che aveva portato al sequestro di un apparato utile al fine indicato, nonchè di un manoscritto del seguente contenuto: "Cara commare, io me ne sto andando. Mi diceva l’amico qui che ogni tanto per un paio di giorni posso venire, e io lo ringraziato. Lascio qui tutto quello che mi avete mandato perchè se torno mi può servire. Vi ringrazio di tutto. Se avete bisogno mi fate sapere. Salutate tantissimo B..

Vi abbraccio e se Dio vuole ci rivedremo. Ciao. Compare M.";

– lo scritto veniva riferito con ragionevole certezza al latitante, vuoi all’esito di comparazioni grafiche con altri documenti acquisiti al procedimento e ritenuti ascrivibili al C., vuoi per il tono della comunicazione (indicativa dell’atteggiamento di un soggetto che dispone di domicili precari ed abbisogna di assistenza) e della stessa firma, atteso che C.D. risultava comunemente noto con il soprannome di "Mico u pacciu";

– la destinataria doveva identificarsi con altrettanta sicurezza in Co.Gi., madre di B. e N.R., tanto più che dalle dichiarazioni del collaboratore I.P. risultava come la Co. avesse già favorito in passato la latitanza di altri soggetti, tra cui lo stesso I., P. C. ed Im.An.: anche un ulteriore collaboratore di giustizia, Bu.Ro., aveva parlato già nel 1995 della normale possibilità per gli affiliati alla cosca di utilizzare come nascondiglio l’abitazione della Co., presso le cui pertinenze (con particolare riferimento ad un garage) erano stati nascosti anche veicoli da utilizzare in vista di omicidi programmati dal clan. 1.3 Il collegio richiamava poi ulteriori arresti giurisprudenziali sulla configurabilità, in fattispecie analoghe a quella sub judice, del delitto di cui all’art. 390 cod. pen., dovendosi invece escludere l’addebito ex art. 378 cod. pen. sia con riguardo alle persone da intendersi prossimi congiunti del latitante, ai sensi dell’art. 384 cod. pen., sia perchè l’ordinanza di custodia cautelare indicata nell’imputazione provvisoria quale provvedimento rimasto eluso aveva data posteriore rispetto alle condotte come analiticamente contestate.

1.4 Analizzando infine la specifica posizione del P., il Tribunale di Reggio Calabria poneva in evidenza la sicura condotta di ausilio che egli aveva prestato in favore del latitante D. C., consentendogli di incontrarsi con il figlio e con il T. l’11/12/2010 (quando si era verosimilmente occupato di accompagnare questi ultimi per almeno una parte del tragitto di andata, mentre l’incombenza del ritorno era stata curata dal G.): nell’occasione, il prevenuto si era dimostrato perfettamente inserito nel sistema dei controlli che l’associazione aveva predisposto onde verificare che il percorso non fosse monitorato dalle forze dell’ordine, ricorrendo appunto anche a mezzi di soggetti fidati, quale il P..

Inoltre, a dimostrazione della chiara consapevolezza delle finalità di quel "passaggio" prestato al T. ed a C.V., assumeva particolare rilievo una conversazione telefonica intercettata sul cellulare in uso allo stesso indagato, durante quel pomeriggio; egli, chiamato più volte dalla moglie senza che le avesse risposto, l’aveva finalmente richiamata, e subito la donna si era lamentata dell’assenza di sue notizie: il P. aveva ribattuto "Ma possibile che non capisci mai niente, sto arrivando, ciao", e l’altra si era limitata a replicare "Sì-., ora ho capito, ciao". La difesa aveva rappresentato trattarsi di una telefonata priva di significato in chiave accusatoria, indicativa soltanto di una qualche tensione fra i due coniugi per presunte avventure dell’uomo, ma secondo i giudici del riesame quel colloquio rendeva evidente l’intenzione del P. di non veicolare telefonicamente alcuna informazione relativa agli impegni ed ai conseguenti spostamenti, onde poter sempre operare in una efficace cornice di sicurezza e clandestinità: inoltre, se davvero la moglie del prevenuto avesse inteso contestargli le ragioni della propria gelosia, non avrebbe interrotto immediatamente la conversazione solo dopo le poche e brevi frasi di richiamo pronunciate dal P..

Era pertanto evidente, ad avviso del Tribunale, che l’indagato avesse realizzato un’attività strumentale agli scopi del sodalizio criminoso, senza essersi trovato casualmente a dare un passaggio a due persone che conosceva da tempo: sia il T. che V. C., infatti, avevano compiuto tragitti volti a depistare gli investigatori prima di incontrare il P.. Perciò, secondo la ricostruzione di cui all’ordinanza oggi impugnata, il fatto che tutto avvenga in modo diretto e veloce e senza alcun minimo tentennamento da parte di tutti gli attori della complessiva vicenda, tra cui l’odierno ricorrente, dimostra che il P. è pienamente inserito nel circuito dei fiancheggiatori della latitanza del boss C.D., permettendo al sodalizio di cui fa parte di assicurare non solo le visite dei congiunti …, ma il passaggio di direttive al T. per la gestione e quindi per l’operatività della cosca mafiosa, di cui il latitante costituisce il vertice assoluto ed indiscusso.

Ad ulteriore riscontro della partecipazione del ricorrente alla consorteria criminale, il collegio sottolineava sia il contributo di un collaboratore di giustizia (tale Mo., in base al cui narrato C.D. aveva da anni consolidati rapporti di vicinanza con i fratelli P.), sia la circostanza che il percorso seguito dal P. l’11/12/2010 – pur essendo stata quella l’unica occasione accertata nella quale egli era risultato parte attiva per consentire al capo-cosca di ricevere la visita dei suoi congiunti e/o sodali – era avvenuto secondo la stessa metodica verificata dalle forze dell’ordine in altre date, quando gli autisti erano stati soggetti diversi: elementi che rivelavano un’assillante ripetitività nei meccanismi usuali di dispersione delle tracce del "trasferito" presso il latitante, che mai può essere ritenuta frutto di un’estemporaneità, di volta in volta, rimessa all’iniziativa spontanea e non programmata del singolo o dei due o tre protagonisti dell’azione, ma in forza della sistematicità del comportamento adottato se ne può inferire un’ulteriore conferma al piano programmato d’accusa.

In punto di esigenze cautelari, il Tribunale dava atto che nel caso di specie doveva intendersi operante il regime di presunzione ex lege di sussistenza di esigenze cautelari (in ragione della contestata aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7), essendo peraltro esclusa la possibilità di ritenere, al contrario, del tutto non ravvisabili dette esigenze; nell’ordinanza si segnalava in particolare l’estrema gravità delle condotte e la concreta prospettiva di una reiterazione delle condotte criminose in atto, dal momento che gli associati non avevano mai smesso negli anni di prestare ausilio ai capi latitanti del clan mafioso imperante nella zona di riferimento, nonostante gli arresti …, le perquisizioni, le pronunce subite, i mezzi tecnici di intercettazione disvelati.

2. Propone ricorso per cassazione il difensore del P., deducendo inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 416 e 390 cod. pen., in relazione all’art. 273 c.p., nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato.

Ribadendo la constatazione empirica che al prevenuto risulta addebitata in concreto la sola condotta posta in essere l’11/12/2010, la difesa rappresenta che, al di là di quell’episodio, non sarebbe possibile scorgere traccia di una partecipazione del P. all’associazione per delinquere, in forma di accettazione di un indeterminato programma di commissione di delitti, dovendosi pertanto ritenere che nella fattispecie avrebbe dovuto essere contestato al ricorrente il solo concorso nel reato di cui all’art. 390 cod. pen.;

ricostruita la dinamica dei fatti occorsi in quella data, il difensore segnala che, a tutto voler concedere, il P. si limitò ad accompagnare due persone per un centinaio di metri, disinteressandosi poi di quel che costoro fecero, senza che quel comportamento sia mai stato preceduto o seguito da altri suscettibili di identica interpretazione (malgrado peraltro i sistemi di controllo, intercettazioni comprese, che gli inquirenti predisposero anche nei riguardi dell’indagato per svariati mesi).

Fra l’altro, contestando comunque la rilevanza penale del comportamento tenuto l’11/12/2010 ed insistendo nella tesi che il ricorrente diede solo un passaggio al T. ed al figlio del latitante, casualmente incontrati, il difensore segnala che se davvero il P. intese tagliare corto con la moglie – in occasione della telefonata richiamata nell’ordinanza del Tribunale del riesame – sarebbe più verosimile ritenere che ciò fece per motivi di personale disappunto e non perchè mirasse a sfuggire ad eventuali controlli: ove infatti avesse sospettato eventuali intercettazioni in atto, si sarebbe ben guardato dal richiamare la donna per fare commenti di quel tipo.

La difesa lamenta infine la estrema genericità della delazione del collaboratore di giustizia Mo., limitatosi a rappresentare che la famiglia C. avrebbe rapporti risalenti con i fratelli P., gestori di un radicato laboratorio artigianale di officina meccanica, e perciò ragionevolmente in contatto con una pluralità di persone per ragioni afferenti l’attività d’impresa (peraltro, nel ricorso si obietta che l’indagato avrebbe rapporti di amicizia non già con il C.D. menzionato dal collaboratore, altra persona rispetto al latitante perchè noto con un diverso soprannome, bensì con C.G., soggetto che comunque non si identifica con il presunto boss).

CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è in parte fondato, con riguardo alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in capo al P. quale partecipe di un’associazione per delinquere.

1.1 Con riguardo al reato di cui all’art. 390 cod. pen., infatti, le censure mosse dal ricorrente non possono condividersi: la ricostruzione operata dai giudici di merito circa gli spostamenti del T. e di C.V. nel pomeriggio dell’11/12/2010 è infatti plausibile e lineare, e sarebbe al contrario illogico pensare che, dopo una serie di loro spostamenti evidentemente mirati ad eludere i possibili controlli degli investigatori, fino a trovarsi poi nello stesso luogo in cui era il P., gli stessi avessero confidato in un incontro casuale con qualcuno che si fosse reso disponibile ad accompagnarli per un tratto di strada, approfittando così di un passaggio del primo conoscente. Ergo, deve ragionevolmente ritenersi che quel giorno l’indagato si fosse accordato con i sodali del latitante per rendere possibile allo stesso C.D. di incontrare il figlio ed il cognato, a prescindere dal rilievo – niente affatto decisivo che di quelle intese non rimase traccia nelle intercettazioni dei giorni precedenti.

Del resto, il colloquio tra il P. e la moglie, registrato proprio quel pomeriggio, impone una lettura coerente con le considerazioni logiche appena esposte: al di là del rilievo che il ricorrente si limita a prospettare (in questa sede, inammissibilmente) una possibile lettura alternativa, allegando ipotesi di relazioni extra-coniugali, ci si può limitare a prendere atto che in base a una sola battuta del marito la donna capì che non era il caso di insistere con la richiesta di particolari su dove egli fosse e cosa stesse facendo, atteggiamento che non avrebbe di certo assunto qualora si fosse trattato di contestargli sospetti di infedeltà.

Nè potrebbe seriamente sostenersi che il P., prendendo in auto il T. ed il figlio di C.D., non sapesse con chi aveva a che fare, visto quanto evidenziato nell’ordinanza impugnata circa la chiara fama del boss ed il fatto notorio che egli rimanesse nell’ombra ormai da anni. La giurisprudenza di questa Corte ha infatti già avuto modo di affermare che in tema di procurata inosservanza di pena, la prova circa la consapevolezza dell’imputato di agevolare l’autore di un reato a sottrarsi all’esecuzione della pena può fondarsi sulla notorietà della caratura criminale del soggetto favorito, nonchè del fatto che egli sia stato condannato per tale reato e che si sia reso latitante (Cass., Sez. 6, n. 2533 del 26/11/2009, Gariffo, Rv 245702). Anche in punto di ricorrenza dell’aggravante della finalità di agevolazione di un’associazione qualificabile ex art. 416-bis cod. pen., ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e sempre in tema di procurata inosservanza di pena, è stata rilevata la necessità di dimostrare che la piattaforma indiziaria riguardi non solo la consapevolezza da parte dell’indagato in ordine alla identità e agli specifici connotati del boss favorito, ma anche che quest’ultimo nel periodo dell’ottenuto favoreggiamento sia rimasto titolare, in base ad una fondata ipotesi ricostruttiva, della capacità di continuare a dirigere l’associazione di riferimento (v., a proposito di clan camorristici, Cass., Sez. 5, n. 19079 del 19/04/2010, Perna, Rv 247253).

Favoreggiamento che, come correttamente segnalato nell’ordinanza impugnata, può realizzarsi anche quando il soggetto si adoperi per favorire i contatti tra il ricercato e i suoi congiunti, attraverso la concreta predisposizione di autoveicoli idonei ad eludere le ricerche delle forze di polizia, pur dovendosi distinguere – ai fini della ravvisabilità della circostanza aggravante ricordata – l’aiuto prestato alla persona da quello prestato all’associazione, e potendosi ravvisare l’aggravante soltanto nel secondo caso, quando cioè si accerti la oggettiva funzionalità della condotta all’agevolazione dell’attività posta in essere dall’organizzazione criminale (Cass., Sez. 6, n. 19300 dell’11/02/2008, Caliendo, Rv 239556; v. anche Sez. 6, n. 13457 del 28/02/2008, Sirignano, relativa proprio ad un caso in cui si assumeva agevolata la latitanza di un capo camorrista, per averne reso possibile un incontro con il figlio, accompagnato dal padre a bordo di un’autovettura. Secondo Cass., Sez. 2, n. 26589 del 26/05/2011, Laudicina, Rv 251000, in caso di procurata inosservanza di pena per un boss mafioso non sarebbe invece necessario operare distinzioni di sorta, avendo detta pronuncia espresso il principio secondo cui ricorre la circostanza aggravante speciale dell’aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso se la condotta di favoreggiamento della latitanza abbia quale beneficiario un soggetto che riveste un ruolo apicale all’interno della struttura associativa, dal momento che la condotta diretta alla preservazione finisce col favorire l’intera associazione).

Nel caso oggi in esame, è appena il caso di segnalare che il P. non si limitava a consentire al C. di mantenere occasioni di rapporto affettivo con il figlio, ma gli rendeva possibile incontrarsi con colui che risultava essere -durante la sua latitanza – il reggente designato per la cosca, vale a dire il T..

1.2 Ferma restando, pertanto, la sussistenza della gravità indiziaria in ordine al delitto sub C), epurato dal riferimento alla fattispecie di cui all’art. 378 cod. pen. in base alle conclusioni raggiunte dal Tribunale di Reggio Calabria, non è tuttavia altrettanto a dirsi quanto al reato associativo.

Non vi è dubbio che l'(OMISSIS) il P. si rese responsabile di una condotta di rilievo penale, financo aggravata D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 ma quell’unico comportamento non sembra sufficiente – almeno sulla base della motivazione adottata dai giudici del riesame – ad imporre la conclusione che egli fosse al contempo un partecipe dell’associazione (non di tipo mafioso) descritta al capo precedente. Come opportunamente rilevato dal difensore dell’indagato, le dichiarazioni di un collaboratore sull’esistenza di rapporti di familiarità tra i C. e i P. non descrivono alcun concreto apporto che il ricorrente avrebbe arrecato al sodalizio organizzato per consentire al capo- cosca di restare latitante, rimanendo del tutto generiche: e non appare decisivo prendere atto – come fa invece il Tribunale, in chiave accusatoria – che il prevenuto, accompagnando per un non ben quantificato tratto di strada i due soggetti sopra ricordati, seguì un itinerario che altri sodali avevano già usato in occasioni precedenti od avrebbero percorso nei giorni a venire, visto che quella scelta potè logicamente conseguire sia alle invariabili condizioni del traffico che a indicazioni ricevute dal T. nell’immediatezza.

In altri termini, è pacifico che chi decise di rivolgersi al P. perchè si occupasse di quel viaggio di andata sapeva che avrebbe trovato un soggetto disponibile a prestarvisi, ma si tratta di un argomento ancora insufficiente a far ritenere che il ricorrente fosse stabilmente inserito nell’organizzazione criminale, stante peraltro l’assoluta occasionalità in cui detta disponibilità ebbe a manifestarsi (e l’assenza di qualsiasi ulteriore contatto significativo tra i membri dell’associazione e l’indagato).

2. Si impone pertanto l’annullamento dell’ordinanza impugnata nei limiti di cui al dispositivo, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Reggio Calabria affinchè rivaluti gli elementi in base ai quali possa dirsi sussistente la compartecipazione del P. al reato associativo.

Dal momento che alla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, dovranno curarsi gli adempimenti previsti dall’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata, limitatamente alla statuizione relativa all’addebito di cui all’art. 416 cod. pen., e rinvia per nuovo esame sul punto al Tribunale di Reggio Calabria.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2013


Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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