Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 29-01-2013) 30-05-2013, n. 23542

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Il Tribunale del riesame di Milano, con l’ordinanza indicata in epigrafe, rigettava l’appello presentato ex art. 310 c.p.p., nell’interesse di B.G. avverso un provvedimento dello stesso Tribunale (7^ sezione penale) adottato il 10/07/2012 e reiettivo di una precedente istanza del B. per la sostituzione della custodia in carcere in atto gravante nei suoi confronti con la diversa misura degli arresti domiciliari.

L’originaria richiesta risultava motivata ai sensi dell’art. 275, comma 4 bis, ma il giudice procedente aveva ritenuto che le condizioni di salute dell’imputato fossero comunque compatibili con il regime carcerario, anche tenendo conto degli esiti di un accertamento medico-legale effettuato di recente, cui non aveva fatto seguito – stando alla documentazione acquisita presso il centro clinico della struttura penitenziaria ove il B. si trovava ristretto – alcun peggioramento.

Il Tribunale del riesame, conformemente alla sollecitazione della difesa, disponeva nuova perizia medico-legale, con elaborato che veniva depositato il 21/08/2012: nel dare atto delle deduzioni successivamente intervenute, il collegio segnalava che secondo il difensore dell’imputato "il perito, pur concludendo nel senso dell’insussistenza di una condizione di incompatibilità assoluta delle condizioni di salute di B.G. con il regime carcerario, aveva evidenziato l’impossibilità di effettuare all’interno del centro clinico di Opera le terapie riabilitative necessarie in relazione alla patologia artrosica che di fatto aveva immobilizzato l’appellante", con la conseguente necessità di ravvisare comunque una situazione di incompatibilità rilevante ai sensi del citato art. 275, comma 4 bis. Rappresentava altresì che il B. aveva personalmente dichiarato di avere perso circa 20 kg.

di peso ponderale durante un anno di detenzione, pur avendo proseguito ad alimentarsi secondo un regime di normalità.

Il rigetto dell’appello era motivato sulle seguenti argomentazioni:

– doveva ritenersi in via generale che "il divieto di custodia cautelare in carcere per le condizioni di salute dell’imputato è connesso non a qualunque problematica di salute o difficoltà (individuale) di adattamento alla vita carceraria, ma è circoscritto (…) a due distinte situazioni tra loro autonome, ovvero quella della vera e propria incompatibilità delle gravi condizioni di salute dell’imputato con lo stato di detenzione e quella della impossibilità di prestare adeguate cure al detenuto malato all’interno dei centri clinici carcerar, tenuto altresì conto anche della possibilità (ai sensi della L. n. 354 del 1975, art. 11) di ricoveri in luoghi di cura esterni";

– il B., sulla base della perizia da ultimo disposta e di una lettera di dimissione dall’ospedale (OMISSIS) dopo un recente ricovero, presentava importante perdita di peso, cardiopatia con pregresso infarto e fibrillazione atriale cronica, poliposi del colon, depressione reattiva ed artrosi;

– la patologia cardiaca presentava un quadro stabile, con adeguatezza della terapia farmacologica praticata;

– sulla poliposi, vi era accertamento diagnostico in atto, con risultato non ancora disponibile;

– la depressione era da intendere fattore incidente sul calo ponderale, ed era stata apprestata una nuova terapia anche favorente l’appetito;

– il severo quadro poli-artrosico suggeriva la necessità di ricorrere a terapie riabilitative;

– il perito aveva rappresentato l’impossibilità di praticare quelle terapie, quanto alla patologia ortopedica, presso il carcere di (OMISSIS), difettando personale ed apparecchiature adatte al caso, ma si trattava di osservazione limitata a quella specifica casa di reclusione, esistendo invece altre strutture dell’amministrazione penitenziaria adeguatamente attrezzate e potendo comunque farsi ricorso a nuovi ricoveri presso luoghi di cura esterni;

– il quadro complessivo poteva essere oggetto di rimeditazione all’esito di ulteriori evoluzioni negative, ma ciò avrebbe senz’altro consentito la presentazione di nuove istanze ex art. 299 c.p.p..

2. Propone ricorso per cassazione il B., deducendo che il Tribunale avrebbe erroneamente riportato le conclusioni rassegnate dal perito, giungendo così ad una violazione dell’art. 275 c.p.p., comma 4 bis, in quanto nel caso di specie avrebbero dovuto ravvisarsi i presupposti per la sostituzione della misura intramuraria.

Allegando copia dell’elaborato peritale, l’imputato segnala che lo specialista non aveva limitato le proprie osservazioni – quanto all’impossibilità di praticare le terapie riabilitative inerenti la patologia ortopedica – alla specifica adeguatezza della casa di reclusione di (OMISSIS), peraltro dotata di un centro clinico, bensì a qualunque "carcere", da intendersi genericamente come luogo di restrizione. Così correttamente interpretate, le conclusioni del perito attestavano una situazione di effettiva impossibilità che il B. ricevesse i presidi terapeutici a lui necessari, indipendentemente da una condizione di incompatibilità tout court del suo stato di salute rispetto al permanere della misura di maggior rigore.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

Come correttamente precisato nell’ordinanza impugnata, la previsione di cui all’art. 275, comma 4 bis, fa divieto di disporre o mantenere la custodia in carcere:

a) nei casi di malattia avente gravità tale da rendere ex se lo stato di salute del soggetto in vinculis incompatibile con la restrizione intramuraria;

b) quando le condizioni del soggetto non gli consentano di ricevere cure adeguate in costanza di detenzione.

La norma trova senz’altro applicazione anche quando la misura custodiale sia stata disposta in relazione ad addebiti ex art. 416 bis c.p., come nel caso di specie: la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di precisare che "la prevalenza del divieto di custodia in carcere per i soggetti portatori di gravi malattie, quale previsto dall’art. 275 c.p.p., comma 4 bis, rispetto alla presunzione d’adeguatezza esclusiva della custodia in carcere, nel casi di cui al precedente comma 3 dello stesso articolo, opera solo a condizione che risulti accertato il presupposto costituito dall’incompatibilità delle condizioni di salute del soggetto con lo stato di detenzione, intendendosi per tale anche quello attuabile presso taluna delle "idonee strutture sanitarie penitenziarie" di cui è menzione nel citato art. 275 c.p.p., comma 4 ter" (Cass., Sez. 5, n. 22977 del 13/05/2008, Buononato, Rv 240488).

In ogni caso, non ricorre obbligo di sostituzione della misura di maggior rigore quando al detenuto possano essere praticate le terapie necessarie presso strutture sanitarie esterne: il Tribunale di Milano, a conferma di tale doverosa interpretazione, richiama una pronuncia di questa stessa Sezione (n. 16008 del 10/03/2009, Lo Cricchio, Rv 243338), secondo cui "in tema di misure cautelari personali, il riconoscimento – in sede peritale – della necessità di periodici controlli, clinici e strumentali preordinati alla valutazione nel tempo delle condizioni patologiche riscontrate ed alla pianificazione della terapia farmacologica più congrua, anche a mezzo di brevi ricoveri presso ambiente specialistico esterno al circuito carcerario non determinano di per sè uno stato di incompatibilità rilevante, ex art. 275 c.p.p., comma 4, ai fini dell’operatività del divieto di custodia in carcere – che richiede lo stato morboso in atto – potendo essere salvaguardate ex L. n. 354 del 1975, art. 11 (…), in virtù del provvedimento del magistrato di sorveglianza atto a disporre il trasferimento del detenuto in idonei centri clinici dell’amministrazione penitenziaria o in altri luoghi di cura esterni, con il conseguente diritto ad ottenere, in tal caso, detti trasferimenti".

Anche la pronuncia invocata dalla difesa nel corso della discussione (Cass., Sez. 2, n. 10963 del 16/03/2012, Ippolito) offre spunti di assoluta coerenza con i principi appena ricordati, laddove segnala che "la valutazione della gravità delle condizioni di salute del detenuto e della conseguente incompatibilità col regime carcerario deve essere effettuata sia in astratto, con riferimento ai parametri stabiliti dalla legge, sia in concreto, con riferimento alla possibilità di effettiva somministrazione nel circuito penitenziario delle terapie di cui egli necessita. Ne consegue che, da un lato, la permanenza nel sistema penitenziario può essere deliberata se il giudice accerta che esistano istituti in relazione ai quali possa formularsi un giudizio di compatibilità, dall’altro, che tale accertamento deve rappresentare un prius rispetto alla decisione e non una mera modalità esecutiva della stessa, rimessa all’autorità amministrativa" (già in tal senso, v. Cass., Sez. 6, n. 34433 del 15/07/2010, Forastefano). La stessa sentenza ribadisce che ®le condizioni di salute particolarmente gravi, che – di norma – precludono la custodia in carcere, non devono identificarsi con quelle patologie che, ancorchè marcate, sono, per così dire, connaturali alla privazione della libertà personale, quali la sindrome ansioso-depressiva, bensì con quelle patologie che, a prescindere dalla posizione in vinculis del paziente, si oggettivizzano da sole, assumono una propria autonomia e sono connotate, oltre che dalla gravità, dalla insuscettibilità di essere risolte o di essere curate in costanza di detenzione, per non essere praticabili i normali interventi diagnostici e terapeutici in ambiente carcerario, intendendosi per tale anche quello costituito dai centri clinici dell’amministrazione penitenziaria" (v. anche Cass., Sez. 6, n. 296 del 18/01/2000, Basile).

Tuttavia, l’ordinanza impugnata non sembra avere correttamente registrato le conclusioni del perito, determinando pertanto un vizio di motivazione rilevabile in questa sede.

Nella relazione a firma del Dott. S.M. si legge infatti, con riguardo alla patologia di cui al quadro poli-artrosico: "dovendo valutare se le necessità cliniche del soggetto siano soddisfagli permanendo lo stesso in carcere, tale ultimo aspetto è certamente quello più critico e di esecuzione più complessa. La esecuzione di terapie riabilitative è un presidio che ben difficilmente può essere attuato permanendo il soggetto all’interno di un carcere, non avendo quest’ultimo, proprio per le finalità per le quali è costruito, personale ed apparecchiature che possano essere adatti al caso: si tenga presente che per il B. tale rinforzo muscolare prevederebbe che per un certo periodo la terapia sia eseguita due/tre volte a settimana. Ed accertata l’impossibilità ad eseguire la stessa in carcere, bisognerebbe pensare a frequentissimi trasferimenti del soggetto in struttura esterna (ambulatorio ASL? Centri convenzionati?)".

L’elaborato prosegue sottolineando la ridottissima autonomia personale del B., limitato nella deambulazione e gravemente deperito, comunque in condizioni tali da non potersi "obiettivamente parlare di incompatibilità tra stato di salute e prosecuzione della detenzione in carcere": in ogni caso, se con quest’ultima affermazione il Dott. S. esclude la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 275 c.p.p., comma 4 bis, con riguardo all’ipotesi già evidenziata sub a), è perimenti evidente che il perito sembra ritenere configurabile l’ipotesi sub b).

In vero, nella relazione non si rileva che è la casa di reclusione di Opera ad apparire inadeguato alle esigenze del B., quanto alla possibilità di ricevere le prestazioni terapeutiche di cui ha bisogno, bensì il carcere come istituzione generica: secondo il perito, come emerge dalle espressioni in corsivo sopra evidenziate, è qualunque carcere a non disporre di personale ed apparecchiature confacenti, ed è da qualunque carcere che sarebbe improponibile organizzare frequentissimi trasferimenti presso luoghi di cura esterni.

Si tratta di osservazioni che potrebbero revocarsi in dubbio (in linea di principio, è ben possibile che un detenuto venga trasportato anche più volte alla settimana presso strutture esterne, o che esistano case di reclusione con centri clinici più attrezzati rispetto a quello di Opera), ma tale incombenza non può spettare al giudice di legittimità: in questa sede si deve prendere atto del travisamento in cui è incorso il Tribunale avendo fondato le proprie argomentazioni su una erronea lettura della relazione peritale, con conseguente rinvio al giudice a quo per nuovo esame ex art. 627 c.p.p..

Dal momento che dalla presente decisione non deriva la rimessione in libertà del ricorrente, dovranno curarsi gli adempimenti previsti dalla norma indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale di Milano per nuovo esame.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2013
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