Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-07-2012, n. 13243

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Massa, I. A., assunta dalla società P.I. s.p.a. con contratto a tempo determinato dal 9/6/1999 al 30/9/1999, per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane", rilevava la illegittimità dell’apposizione del termine al contratto in questione di talchè, essendo stata l’assunzione illegittima, il contratto si era convertito in contratto a tempo indeterminato. Chiedeva, pertanto, che, previa dichiarazione di illegittimità del termine apposto al predetto rapporto di lavoro, fosse dichiarata l’avvenuta trasformazione dello stesso in contratto a tempo indeterminato, con condanna della società al risarcimento del danno.
Il Tribunale adito accoglieva la domanda e, superata l’eccezione di risoluzione per mutuo consenso, dichiarava l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 9/6/1999. Avverso tale sentenza proponeva appello la società datoriale lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo il rigetto delle domande proposte da controparte con il ricorso introduttivo.
La Corte di Appello di Genova, con sentenza in data 7.02/21.02.2007, rigettava l’appello e condannava la società al pagamento delle spese del grado.
La Corte territoriale perveniva a tale decisione dopo aver escluso la fondatezza del motivo di appello concernente l’intervenuta risoluzione del rapporto per mutuo consenso e dopo aver rilevato che il contratto in questione era stato stipulato successivamente al 30/4/1998, ossia in periodo non coperto dalla contrattazione autorizzatoria. Quanto alle conseguenze economi che riteneva che la lavoratrice con la lettera di messa in mora inviata all’azienda avesse manifestato la volontà di riprendere il lavoro e che dalle somme alla medesima spettanti andassero detratti gli importi (peraltro incontestati tra le parti) a titolo di aliunde perceptum.
Per la cassazione di tale sentenza la società propone ricorso affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la lavoratrice.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (L. n. 56 del 1987, art. 23 ed art. 1362 cod. civ. e segg., nonchè art. 8, comma 2, C.C.N.L. 26/11/1994, come integrato dall’accordo 25/9/1997 e dai successivi accordi ad esso correlati), nonchè omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). In particolare osserva che in maniera assolutamente arbitraria la Corte territoriale aveva ritenuto che l’ipotesi prevista dalla L. n. 56 del 1987, art. 23, dovesse essere necessariamente correlata ad una precisa limitazione temporale. Per contro, la corretta applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale avrebbe dovuto portare la Corte di merito a valutare i successivi accordi attuativi nella loro effettiva natura di atti ricognitivi di una determinata situazione di fatto, e cioè di un momento di verifica congiunta della sussistenza e permanenza del suddetto processo di ristrutturazione, senza alcuna volontà negoziale di porre limite alcuno se non quello della intrinseca temporaneità di qualsiasi processo di ristrutturazione, e quindi anche di quello della società P.I. s.p.a.. Rileva, altresì, che la Corte territoriale, dopo aver riconosciuto che il contratto a termine per cui è causa era stato stipulato con riferimento alla previsione dell’art. 8 del C.C.N.L. 1994, integrato dall’accordo collettivo 25/9/1997, aveva ritenuto l’illegittimità del contratto in questione sotto il profilo che la copertura autorizzatoria era esclusa per i contratti stipulati dopo il 30/4/1998; in tal modo incorrendo in un evidente vizio di violazione e falsa applicazione della normativa legale (L. n. 56 del 1987, art. 23), avuto riguardo alla pienezza della delega conferita dalla L. n. 56 del 1987 ed alla autonomia delle parti sociali in ordine alla individuazione di ipotesi ulteriori rispetto a quelle legislativamente previste. Rileva, infine, che erroneamente la Corte territoriale aveva affermato la non incidenza, nel caso di specie, dell’accordo del 18/1/2001, sotto il profilo che questo non poteva valere come una sorta di legittimazione a posteriori dei contratti a termine stipulati successivamente alla suddetta fase autorizzatoria.
Il motivo non è fondato.
Invero, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. 29 luglio 2009 n. 17651; id. 23 giugno 2009 n. 14657; 27 febbraio 2009 n. 4840; 7 marzo 2005 n. 4862; 26 luglio 2004 n. 14011), specificamente riferito ad assunzioni a termine di dipendenti postali previste dall’accordo integrativo 25 settembre 1997, l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato. "Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato" (v., fra le altre, Cass. 4 agosto 2008 n. 21062; id. 23 agosto 2006 n. 18378).
Ove, peraltro, nel quadro sopra delineato, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (e la Corte territoriale ha rilevato che, comunque, le parti sociali avevano convenuto di ritenere il perdurare delle condizioni sottese alla apposizione del termine "fino" al 30/4/1998), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre, Cass. 23 agosto 2006 n. 18383; id. 14 aprile 2005 n. 7745; 14 febbraio 2004 n. 2866). In particolare, quindi, come questa Corte ha più volte affermato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del C.C.N.L. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1 ottobre 2007 n. 20608; id. 27 marzo 2008 n. 7979; 23 agosto 2006 n. 18378). Partendo da detti principi questa Corte, dopo aver ribadito la legittimità della formula adottata nell’accordo integrativo, caratterizzata, in particolare, dalla mancata previsione di un termine finale, ha ritenuto viziate quelle decisioni dei giudici di merito nella parte in cui hanno affermato la natura meramente ricognitiva dei c.d. accordi attuativi e conseguentemente il carattere non vincolante degli stessi quanto alla determinazione della data entro la quale era legittimo ricorrere a contratti a termine, atteso che con tale interpretazione dei suddetti accordi si sono discostate dal chiaro significato letterale delle espressioni usate, ed in particolare di quella secondo cui per far fronte alle predette esigenze si poteva procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30/4/98 (cfr. accordo del 16 gennaio 1998); ciò, fra l’altro, in violazione del principio secondo cui nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. 28 agosto 2003 n. 12245; id.25 agosto 2003 n. 12453).
La stessa giurisprudenza ha ritenuto, inoltre, la sussistenza, nelle suddette sentenze, di una violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello per cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la statuizione secondo cui le parti non avevano inteso introdurre limiti temporali alla previsione di cui all’accordo del 25 settembre 1997 implica la conseguenza che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, sarebbero stati "senza senso" (così testualmente Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866). In base al detto orientamento, ormai consolidato, ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (Cass, 29 luglio 2005 n. 15969; id. 21 marzo 2007 n. 6703), va confermata la nullità della apposizione del termine al contratto de quo, concluso, ex art. 8 C.C.N.L. 1994 e accordo collettivo 25/9/1997, successivamente al 30/4/1998.
La giurisprudenza di questa Corte ha, infine, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18/1/2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25/9/1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (in tal senso, Cass. 27 marzo 2008 n, 7979; id. 12 marzo 2004 n. 5141).
2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 1372 c.c., comma 1, art. 1362 c.c., comma 2, art. 2697 cod. civ., e art. 115 cod. proc. civ.), nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5). In particolare rileva che la sentenza della Corte territoriale è viziata laddove ha escluso che, nella specie, fosse configurabile la risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso ritenendo l’inerzia dell’interessata insufficiente ad affermare la volontà risolutiva in assenza di comportamenti incompatibili con la volontà di mantenere in vita il vincolo contrattuale. Assume, al riguardo, che il rapporto di lavoro a tempo determinato, connotato da illegittimità del termine, poteva, al pari di tutti i contratti, risolversi per mutuo consenso, anche in forza di fatti e comportamenti concludenti; e nel caso di specie la prolungata inerzia della lavoratrice, a fronte della unicità del rapporto contrattuale intercorso ed alla breve durata del medesimo, avevano rilievo determinante al fine di far ritenere tali comportamenti come espressione di un definitivo disinteresse a far valere la presunta nullità del contratto e, quindi, come tacito consenso alla definitiva risoluzione del rapporto.
Neanche tale motivo è fondato.
Invero, la più recente giurisprudenza di questa S.C. – cui va data continuità – è ormai consolidata nello statuire che "Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo dovendosi, peraltro, considerare che l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex art. 1418 cod. civ., e art. 1419 c.c., comma 2, di natura imprescrittibile pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege del rapporto a tempo determinato cui era stato apposto illegittimamente il termine. (Nella specie, relativa ad una pluralità di contratti a tempo determinato conclusi tra un aiuto arredatore e la RAI S.p.a., la S.C., in applicazione dell’anzidetto principio ha ritenuto che correttamente la Corte di merito avesse dichiarato la nullità del termine apposto, restando priva di rilievo la mera inerzia tenuta dal lavoratore per oltre un anno e mezzo, dalla scadenza del termine dell’ultimo dei cinque contratti intervenuti)" (Cass. 15 novembre 2010 n. 23057; id Cass. 1 febbraio 2010 n. 2279). Ancora più di recente, Cass. 29 aprile 2011 n. 9583 ha ribadito che "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo". In senso conforme si vedano, altresì, Cass. 10 novembre 2008 n. 26935; id. 28 settembre 2007 n. 20390; 17 dicembre 2004 n. 23554; 11 dicembre 2001 n. 15621 ed innumerevoli altre. Aggiunge ancora la cit. sentenza n. 9583/2011 che "grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. ancora, in senso conforme, Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070). Ebbene, tutte le sentenze citate hanno, nelle fattispecie rispettivamente esaminate, ritenuto giuridicamente corretta (oltre che immune da vizi logici) l’affermazione dei giudici di merito secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, anche se protratta per due o tre anni o più, non fosse sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per tacito mutuo consenso.
Aggiunge icasticamente Cass. 19 novembre 2010 n. 23501: "D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c., e art. 1419, comma 25 cod. civ.. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15 dicembre 1997 n. 12665;
Cass., 25 marzo 1993 n. 824). Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare una volontà chiara e certa delle parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v, anche Cass., 2 dicembre 2000 n. 15403; id 20 aprile 1998 n. 4003).
E’, inoltre, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. 1 febbraio 2010 n. 2279, id. 12 luglio 2010 n. 16303, 6 luglio 2007 n. 15624)." (v., altresì, Cass. n. 23499/2010 cit. ed altre ancora).
Riepilogando, per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione giudiziale, ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce la risoluzione per un tacito mutuo consenso).
Si aggiunga che, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile 2012 n. 5782, "quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per sè neutro, come sopra chiarito (per un’ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione del rapporto a termine ed esercizio dell’azione da parte del lavoratore v., da ultimo, Cass. n. 16287/2011). In ordine, poi, alla percezione del TFR, questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del TFR nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione dei termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni" (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)." Alla luce delle considerazioni che precedono va, dunque, in sintesi, ritenuto che, nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto), per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo;
la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.
Orbene, nel caso in esame, la Corte di merito ha ritenuto che l’intervallo fra la cessazione del rapporto (30 settembre 1999) e l’invio alla società della lettera di messa in mora (28 gennaio 2004) – poco più di quattro anni – non consentisse di ritenere l’esistenza di una volontà dismissiva del rapporto e ciò anche in considerazione della non univocità della condotta della lavoratrice.
L’inerzia di quest’ultima dopo la scadenza del contratto, in assenza della allegazione di ulteriori condotte concludenti nel senso di una evidente volontà solutoria del rapporto e nella presumibile necessità di un certo tempo occorso alla dipendente, come a qualunque persona che non abbia una specifica competenza giuridica, per avvedersi dei possibili vizi che inficiavano in rapporto di lavoro e per valutare (stante, peraltro, l’incertezza dell’esito di una impugnativa in ragione di una giurisprudenza non unanimemente favorevole ai lavoratori), non era sufficiente a far ritenere la risoluzione del rapporto medesimo per mutuo consenso, non avendo alcun valore sintomatico in tal senso; e tale conclusione, in quanto priva di vizi logici o errori di diritto, le ragioni sopra evidenziate resiste alle censure mosse in ricorso.
3. P.I. s.p.a. con la memoria sopra indicata, preso atto dell’intervento della L. 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. collegato lavoro), ha chiesto alla Corte l’applicazione della disposizione dell’art. 32, comma 5, di detta legge, che fissa i criteri di quantificazione del risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto a tempo determinato.
Non sussistendo, però, un valido motivo di impugnazione in punto di liquidazione del risarcimento, non può incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens rappresentato dalla citata disposizione (sulla quale v. la recente C. Cost. n. 303/2011). Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070). In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4 gennaio 2011 n. 80 cit.).
Tale condizione non sussiste nella fattispecie.
4. Il ricorso va, pertanto, respinto e la società ricorrente va condannata al pagamento, in favore della lavoratrice, delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi e in Euro 3.000,00 per onorario, oltre a spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 5 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *