Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-07-2012, n. 13241

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Roma, N.M. S., assunta dalla società P.I. s.p.a. con più contratti a tempo determinato (23/12/1998 – 30/1/1999, 3/5/1999 – 31/5/1999, 2/11/1999 – 31/1/2000, 26/4/2000 – 25/6/2000, 10/11/2000 – 9/1/2001), per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane", nonchè con contratti stipulati in virtù dell’art. 25 C.C.N.L. 2001 e del D.Lgs. n. 368 del 2001 (11/10/2001 – 31/1/2002, 2/5/2002 – 30/6/2002, 3/10/2002 – 31/12/2002), sulla base di molteplici deduzioni chiedeva accertarsi la illegittimità dell’apposizione del termine ai contratti in questione, con conversione dei rapporti di lavoro in un unico rapporto a tempo indeterminato e condanna della società al pagamento delle retribuzioni non percepite.
Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale adito respingeva il ricorso.
Avverso tale sentenza proponeva appello la lavoratrice, lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande proposte in primo grado.
La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 22 febbraio 2007 accoglieva il gravame e, per quanto rileva in questa sede, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto intercorso fra la P.I. s.p.a. e l’appellante per il periodo dal 3/12/1998 al 30/1/1999, dichiarando che tra le parti si era instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dal 3/12/1998 e che la società era tenuta a riammettere la lavoratrice in servizio, e condannando la società a risarcire il danno nella misura pari alle retribuzioni spettanti dalla messa a disposizione delle energie lavorative del 30/12/2002 sino all’attualità.
La Corte territoriale perveniva a tale decisione ritenendo che il contratto predetto fosse stato stipulato ed avesse avuto scadenza dopo lo spirare del termine massimo di vigenza della contrattazione che autorizzava le ipotesi "ulteriori" di legittima apposizione del termine ai contratti di lavoro con la società P.I. (e cioè dopo il 30/4/1998) e che tale soluzione non potesse essere posta in dubbio dall’accordo del 18/1/2001 che aveva avuto la sola valenza di fronteggiare per il "futuro" i processi di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale, senza alcuna efficacia sanante degli individuali contratti a termine illegittimi.
La società P.I. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolandolo su tre motivi.
Resiste con controricorso la lavoratrice.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso la società lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (L. n. 56 del 1987, art. 23 art. 8 C.C.N.L. 26/11/1994, accordo sindacale 25/9/1997 e successivi 16/1/1998, 2/4/1998, 2/7/1998, 24/5/1999 e 18/1/2001 ad esso correlati in connessione con l’art. 1362 c.c. e segg.) – art. 360 c.p.c., n. 3 -. Assume, in particolare che l’accordo del 25/9/1997, integrativo dell’art. 8 del C.C.N.L. del 1994, non conterrebbe alcuna limitazione temporale; che gli accordi ed i verbali intervenuti tra le parti successivamente al 25/9/1997 e sino al 18/1/2001, non avevano natura negoziale ma meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e della necessità di stipulare ulteriori contratti a termine; che i termini individuati negli accordi successivi a quello del 25/9/1997 non si riferivano alla scadenza dell’autorizzazione a stipulare contratti a termine ma alla durata delle assunzioni, una volta accertata la persistenza delle esigenze riorganizzative di cui all’accordo; che la posizione giuridica azionata nel giudizio potrebbe definirsi quale diritto quesito e quindi indisponibile da parte degli agenti contrattuali anche prima dell’accertamento giudiziale della sua esistenza.
2. Con il secondo motivo lamenta omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio – art. 360 c.p.c., n. 5. Deduce che non è dato comprendere dalla sentenza della Corte territoriale in forza di quale ragionamento logico e giuridico o di quale percorso argomentativo sia stata individuata la volontà delle parti collettive di fissare al 30/4/1998 il termine finale di efficacia dell’accordo integrativo del 25/9/1997 nè è dato comprendere quali siano gli "accordi collettivi" ovvero le altre "fonti" da cui la Corte avrebbe tratto tale convincimento. Deduce, inoltre, che il dato letterale ricavabile dall’accordo del 25/9/1997, integrativo del C.C.N.L., rende immotivata la decisione visto che i successivi "accordi attuativi" – che danno solo atto della sussistenza, fino ad una certa data, di una delle ragioni (e cioè solo della prima) previste dal predetto accordo integrativo (e non delle altre due, che, quindi, non hanno alcun limite temporale) -non possono incidere sul C.C.N.L. così come integrato.
3. Con il terzo motivo lamenta che è stato disposto il pagamento delle retribuzioni a decorrere dalla data della messa in mora anzichè dell’effettiva ripresa della attività lavorativa.
4. I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente riguardando entrambi la possibilità di stipulare contratti di lavoro a termine dopo il 30/4/1998.
Essi sono infondati.
Osserva il Collegio che la Corte di merito ha, tra l’altro, attribuito rilievo decisivo alla considerazione che l’assunzione a termine de quo, essendo avvenuta oltre la delimitazione temporale effettuata dalle parti sociali con gli accordi integrativi di quello in data 25/9/1997, introduttivo della nuova ipotesi di contratto a termine di cui si discute, non è da ritenere legittima per la scadenza temporale dell’accordo 25/9/1997 (31/1/1998 prorogato al 30/4/1998). Tale considerazione, idonea a sostenere da sola la impugnata decisione, relativamente alla illegittimità del contratto de quo (3/1/1998 – 31/1/1999), resiste alla censura della società ricorrente (di violazione dell’art. 1362 cod. civ. e segg., in relazione agli accordi collettivi intercorsi), rivolta, in sostanza, alla affermazione della natura meramente ricognitiva degli accordi attuativi citati.
Va, in proposito, ricordato che, sulla scia di Cass. S.U. 2 marzo 2006 n. 4588 è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex L. n. 56 del 1987, art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contralti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4 agosto 2008 n. 21063;
cfr, altresì, Cass. 20 aprile 2006 n. 9245; id. 7 marzo 2005 n. 4862; 26 luglio 2004 n. 14011).
Ove però – come accaduto nel caso di specie – un limite temporale (quello del 30/4/98) sia stato, in concreto, previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine.
Con numerose sentenze questa Corte Suprema (cfr. ex plurimis, Cass. 23 agosto 2006 n. 18378), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha confermato le sentenze dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto a contratti stipulati, in base alla previsione dell’accordo integrativo del 25/9/1997 sopra richiamato (esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione), dopo il 30 aprile 1998 (cfr. anche Cass. 21 luglio 2001 n. 16020, ìd. 10 gennaio 2011 n. 316; 14 aprile 2005 n. 7745; 14 febbraio 2004 n. 2866). Richiamato quanto già affermato circa la configurabilità, in relazione alla L. n. 56 del 1987, art. 23, di una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati nell’individuazione di nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, e premesso altresì che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza di questa Corte ha giudicato corretta l’interpretazione dei giudici di merito che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto a tempo determinato; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine stipulati dopo il 30/4/1998 in quanto privi di presupposto normativo. Questa Corte ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti; infatti nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n. 28 agosto 2003 n. 12245, Cass. 25 agosto 2003 n. 12453). Inoltre è stato rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attribuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25/9/1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano "senza senso" (così testualmente Cass. n. 14 febbraio 2004 n. 2866). Infine, questa Corte ha ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n. 5141). In base a tale orientamento ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr. Cass. 29 luglio 2005 n. 15969, Cass. 21 marzo 2007 n. 6703), non merita, quindi, censura la statuita la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo (successivo al 30 aprile 1998), il che assorbe ogni ulteriore argomentazione a riguardo svolta nei motivi in esame.
5. Il terzo motivo è inammissibile per l’inidoneità del quesito di diritto proposto ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ. La ricorrente formula, infatti, il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 c.c. e segg.". Tale quesito non riguarda il tema dell’aliunde perceptum e comunque, anche in ordine all’argomento della mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4 gennaio 2001 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30 ottobre 2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7 aprile 2009 n. 8463).
Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15 febbraio 2003 n. 2331, id 10 luglio 2001 n. 9336). Del pari, per quanto concerne l’aliunde perceptum (in relazione al quale manca del tutto il quesito) alcunchè di specifico viene poi indicato dalla ricorrente, laddove al riguardo era pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova (pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr., Cass. 16 maggio 2005 n. 10155, id. 20 giugno 2006 n. 14131, 10 agosto 2007 n. 17606, S.U. 3 febbraio 998 n. 1099).
6. Poste Italia s.p.a. con la memoria sopra indicata, preso atto dell’intervento della legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. collegato lavoro), ha chiesto alla Corte l’applicazione della disposizione dell’art. 32, comma 5, di detta legge, che fissa i criteri di quantificazione del risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto a tempo determinato.
Risultato, però, inammissibile il terzo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, non può incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens rappresentato dalla citata disposizione (sulla quale v. la recente C. Cost. n. 303/2011). Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio 2004 n. 4070). In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4 gennaio 2011 n. 80 cit.).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
7. Il ricorso va, pertanto, respinto e la società ricorrente va condannata al pagamento, in favore della lavoratrice, delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della resistente, delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 50,00 per esborsi e in Euro 3.000,00 per onorari, oltre a spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 5 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2012

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