Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-07-2012, n. 13227

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Svolgimento del processo
Con sentenza n. 4144 del 2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma respingeva la domanda, proposta da D.D.G. nei confronti della s.p.a. P.I., intesa ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso tra le parti per "necessità di espletamento del servizio di recapito in concomitanza di assenze per ferie", per i periodo 1-6- 1998/30-9-1998, con il conseguente accertamento della sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato e con la condanna della società al pagamento delle retribuzioni maturate.
Il D.D. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.
La società si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 30-1-2007, in parziale accoglimento dell’appello dichiarava la nullità del termine apposto al contratto de quo e l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 1-6-1998 e condannava la società al pagamento, a titolo risarcitorio, delle retribuzioni dalla data di notifica del ricorso di primo grado alla data della sentenza, oltre accessori e spese.
Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. P.I. ha proposto ricorso con sei motivi.
Il D.D. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale con un unico motivo.
Motivi della decisione
Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c..
Con il primo motivo del ricorso principale la società censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante la prolungata ed ininterrotta inerzia del lavoratore tra la scadenza del contratto (30-9-98) e la notifica del ricorso di primo grado (settembre 2004), in mancanza di qualsiasi manifestazione di interesse alla instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato.
La società, peraltro, aggiunge che il D.D. con lettera del 2-2- 2007 è stato richiamato in servizio in esecuzione della sentenza di appello e, non essendosi presentato, è stato licenziato con lettera in data 24-5-2007 (licenziamento non impugnato dal lavoratore).
Con il secondo motivo la società lamenta altresì vizio di motivazione in ordine al rigetto dell’eccezione di risoluzione per mutuo consenso tacito, con riguardo anche alle richieste istruttorie avanzate e non accolte (di esibizione delle dichiarazioni dei redditi e di informazioni presso l’UPLMO e l’INPS).
Entrambi i motivi non meritano accoglimento.
Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonchè da ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, "è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso" (v. da ultimo Cass. 15- 11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre "grava sul datore di lavoro", che eccepisca tale risoluzione, "l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1- 2-2010 n. 2279).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321 C.C., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della "cessazione della funzionalità di fatto del rapporto", valutato "in modo socialmente tipico" cfr. Cass. 23-7-2004 n. 13891 e Cass. 6-7- 2007 n. 15264).
Orbene la Corte d’Appello, dopo aver affermato che per aversi risoluzione per mutuo consenso tacito occorrono comportamenti dai quali chiaramente emerga la volontà risolutoria e che tali condotte devono costituire oggetto delle allegazioni e della prova da parte di chi prospetti lo scioglimento del rapporto, ha osservato che, null’altro essendo stato allegato dalla società e risultando la mera inerzia del D.D. protrattasi per "pochi anni" (per un tempo cioè "non veramente eclatante in rapporto alle condizioni soggettive delle parti"), nella fattispecie non ricorrono le condizioni necessarie.
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.
D’altra parte nella fattispecie non può assumere rilevanza contraria il licenziamento del D.D. avvenuto nel 2007, evento successivo, estraneo all’oggetto del presente giudizio e peraltro anche incompatibile con l’asserita precedente risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito.
Infine neppure può accogliersi la censura, invero del tutto generica, concernente il mancato accoglimento delle richieste istruttorie avanzate davanti ai giudici di merito, considerato che comunque "l’esibizione di documenti non può essere chiesta a fini meramente esplorativi, allorquando neppure la parte istante deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento e sul suo contenuto per verificarne la rilevanza in giudizio" (v. fra le altre Cass. 20- 12-2007 n. 26943) ed atteso che "la richiesta di informazioni alla P.A. costituisce una facoltà rimessa alla non sindacabile discrezionalità del giudice di merito, il cui mancato esercizio (pur in presenza di una specifica istanza in tal senso formulata dalla parte) non è in alcun modo censurabile in sede di legittimità" (cfr.. Cass. 11-6-1998 n. 5794, Cass. 12-4-1999 n. 3573, Cass. 2-9- 2003 n. 12789).
Con il terzo motivo la ricorrente principale, denunciando vizio di motivazione, lamenta che la Corte d’Appello ha omesso di motivare sulla ultrattività del CCNL del 1994 che, secondo essa ricorrente sarebbe "espressamente prevista all’art. 87 del citato contratto".
Il motivo risulta inammissibile, in quanto trattasi in sostanza di una questione nuova che involge un accertamento in fatto (la asserita previsione di ultrattività del CCNL 1994 che sarebbe contenuta nell’art. 87 dello stesso), sulla quale nulla è detto nell’impugnata sentenza mentre nel ricorso manca qualsiasi indicazione specifica in ordine all’avvenuta deduzione davanti ai giudici di merito.
Al riguardo questa Corte ha ripetutamente affermato che "nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello" (v. Cass. 16-8-2004 n. 15950, Cass. 27-8-2003 n. 12571, Cass. 5-7-2002 n. 9812, Cass. 9-12-1999 n. 13819). Nel contempo è stato anche precisato che "nel caso in cui una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, indicando altresì in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, così da permettere alla Corte di Cassazione di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa" (v.
Cass. 15-2-2003 n. 2331, Cass. 12-7-2005 n. 14590, 12-7-2005 n. 14599, Cass. 28-7-2008 n. 20518).
Nulla avendo indicato al riguardo la ricorrente principale, il motivo non può che ritenersi inammissibile, a prescindere da ogni altra considerazione riguardante l’esatta interpretazione dell’art. 87 citato, in mancanza, peraltro, di una censura di violazione (diretta) della detta norma collettiva ex art. 360 c.p.c., n. 3.
Con il quarto motivo la società in sostanza deduce che erroneamente la Corte di merito ha ritenuto nullo il termine apposto al contratto de quo in quanto stipulato oltre il termine fissato negli accordi attuativi dell’accordo 25-9-97, laddove, invece, il contratto de quo era stato stipulato non per le "esigenze eccezionali" previste da quest’ultimo accordo, bensì per "necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie" ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, fattispecie per la quale non era stata prevista alcuna limitazione temporale.
Con il quinto motivo la società lamenta contraddittorietà della motivazione sul punto, avendo la sentenza impugnata in sostanza confuso le due fattispecie collettive, diverse fra loro.
Tali motivi (quarto e quinto) risultano inammissibili.
Osserva il Collegio che la Corte di merito ha fondato la propria decisione su due distinte e autonome rationes decidendi.
La Corte territoriale, infatti, in primo luogo, ha ritenuto nullo il termine apposto al contratto de quo in quanto stipulato dopo la scadenza del ccnl del 1994 contenente la clausola autorizzatoria L. n. 56 del 1987, ex art. 23. Al riguardo, in particolare, dopo aver richiamato l’indirizzo circa la inapplicabilità dell’art. 2074 c.c. ai contratti collettivi post-corporativi e dopo aver riconosciuto che comunque "la volontà delle parti in ordine alla perdurante vigenza di un contratto collettivo oltre la scadenza può anche essere manifestata per facta concludentia, la Corte d’Appello ha escluso che tale ipotesi – invocata dalla società appellata – ricorresse nella fattispecie, osservando che, non avendo la società "indicato alcun altro elemento da cui desumere la esistenza dell’invocata volontà, la previsione sic et simpliciter della stessa ipotesi in un nuovo CCNL stipulato alcuni anni dopo la scadenza del primo è manifestazione di una nuova volontà negoziale senza alcun riferimento alla regolamentazione pregressa ed alla sua perdurante vigenza nel periodo di vacanza contrattuale".
La Corte di merito, poi, ha altresì affermato ("Aggiungasi che… ") la nullità del termine apposto al contratto de quo, in quanto stipulato oltre il termine del 30-4-1998 fissato dalle parti collettive ex acc. az. del 25-9-97 e succ..
Orbene osserva il Collegio che la società con il ricorso non censura affatto la prima ratio decidendi ed in specie non muove alcuna doglianza avverso l’affermazione della mancanza, nella fattispecie, di una manifestazione di volontà per facta concludentia in ordine al perdurare del vigore del ccnl del 1994, limitandosi, in effetti, da un lato, con il terzo motivo, a lamentare la omessa motivazione in ordine ad una nuova e inammissibile tesi basata sull’interpretazione dell’art. 87 dello stesso ccnl, e dall’altro, con il quarto e quinto motivo, a censurare esclusivamente la seconda ratio decidendi.
Tanto rilevato, va qui riaffermato il principio consolidato secondo cui "posto che il ricorso per cassazione non introduce una terza istanza di giudizio con la quale si può far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi invece come un rimedio impugnatorio a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o vizi dedotti" (v. Cass. 5-6-2007 n. 13070), "qualora la sentenza di merito si fondi su più ragioni autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione secondo l’iter logico- giuridico seguito sul punto in questione nella sentenza impugnata, l’omessa impugnazione, con ricorso per cassazione, anche di una soltanto di tali ragioni determina l’inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposto avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulla ratio decidendi non censurata, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe pur sempre fondata su di essa" (Cass. 27-1-2005 n. 1658, Cass. 4-5-2005 n. 9279, Cass. 23-2-2006 n. 3989, Cass. 18-9-2006 n. 20118, Cass. 11-1-2007 n. 389, Cass. 5-3-2007 n. 5051).
Infine parimenti inammissibile risulta il sesto motivo del ricorso principale, con il quale la società, denunciando violazione degli artt. 1217 e 1233 c.c., lamenta che la Corte di merito non avrebbe svolto alcuna verifica in ordine alla effettiva messa in mora del datore di lavoro e non avrebbe tenuto "conto della possibilità che il lavoratore abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente", disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore.
La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. cod. civ.".
Tale quesito non riguarda il tema dell’aliunde perceptum (pure svolto nel motivo) e comunque, anche in ordine all’argomento della mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).
Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza, in quanto la ricorrente principale si limita a lamentare genericamente una mancata effettiva verifica della messa in mora, come ravvisata dalla Corte di merito nella notifica del ricorso introduttivo di primo grado, senza riportarne minimamente il contenuto.
Del pari, per quanto concerne l’aliunde perceptum (in relazione al quale manca del tutto il quesito) alcunchè di specifico viene poi indicato dalla ricorrente, laddove al riguardo era pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova (pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr.. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2- 1998 n. 1099).
Così risultato inammissibile il sesto motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
In tali sensi va, quindi, respinto il ricorso principale.
Parimenti, poi, non merita accoglimento il ricorso incidentale, con il quale il D.D. deduce che erroneamente la Corte d’Appello non ha riconosciuto "validità di sostanziale offerta della prestazione lavorativa e contestuale messa in mora della società da parte del lavoratore" "alla graduatoria interna stilata per l’assunzione dei c.d. lavoratori trimestrali, dovendosi ritenere che l’inserimento del nominativo nella stessa equivale a permanente offerta della disponibilità al proficuo lavoro fino ad una manifestazione di volontà di segno contrario il cui onere probatorio incombeva alla parte datoriale – ovvero nella comunicazione raccomandata a.r. del 7- 1-1999".
La censura involge, infatti una questione nuova, che postula nuovi accertamenti di fatto, sulla quale manca in ricorso qualsiasi indicazione specifica in ordine all’avvenuta deduzione davanti ai giudici di merito (v. Cass. 15-2-2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336), non essendo all’uopo sufficiente la menzione del mero deposito del documento "fin dal primo grado". Peraltro il ricorrente incidentale non riporta il contenuto della citata raccomandata in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso e, a ben vedere, neppure spiega su quali elementi specifici e concreti fonda il proprio assunto circa la equiparazione dell’inserimento nella citata graduatoria ad una "permanente offerta" della prestazione lavorativa.
Così respinti entrambi i ricorsi, infine le spese vanno compensate tra le parti in ragione della soccombenza reciproca.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, li rigetta e compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2012

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