Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-07-2012, n. 13226

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Svolgimento del processo
Con sentenza n. 45/2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Biella, in accoglimento del ricorso proposto da F.G. nei confronti della s.p.a. P.I., dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro concluso tra le parti per "esigenze eccezionali" ex art. 8 CCNL 1994 come integrato dall’acc. az. 25-9-97 e succ., per il periodo 10-10-1998/31-12-1998, con conseguente sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato dal 10- 10-1998 e condannava la società al ripristino del rapporto e a corrispondere alla F. le retribuzioni non percepite dalla data del 11-12-2003, oltre accessori.
La società proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con il rigetto della domanda di controparte.
La F. si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello di Torino, con sentenza depositata il 9-1-2007, respingeva l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle spese.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con due motivi.
La F. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale condizionato.
La società, dal canto suo, ha resistito con controricorso al ricorso incidentale di controparte.
Motivi della decisione
Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c..
Con il primo motivo del ricorso principale la società lamenta che la Corte territoriale, violando la L. n. 56 del 1987, art. 23 l’art. 1362 c.c. e segg. in relazione all’accordo 25-9-97 e ai successivi accordi integrativi, erroneamente ha subordinato la legittimità del termine apposto al contratto de quo alla dimostrazione della sussistenza del nesso eziologico tra l’assunzione del singolo lavoratore e le esigenze dedotte in contratto, anche con riferimento allo specifico ufficio di applicazione, dovendo, invece, ritenersi legittimo il termine "anche in assenza della prova del nesso causale tra tali esigenze e la specifica assunzione per cui è causa, non avendo le parti collettive previsto nè voluto tale requisito".
Il motivo non può essere accolto, anche se la motivazione della sentenza merita di essere in parte corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., come più volte affermato da questa Corte in casi analoghi di ricorsi avverso sentenze dello stesso tenore (v. fra le altre Cass. 24-3-2009 n. 7042, Cass. 22-1-2009 n. 1626, Cass. 7-1- 2009 n. 41, Cass. 12-11-2008 n. 27030, Cass. 19-11-2008 n. 27470).
Peraltro la questione, come emerge dalla lettura del ricorso stesso, risulta già ampiamente trattata nel giudizio di merito, avendo la società con l’appello ribadito chiaramente la natura ricognitiva degli accordi attuativi dell’acc. az. 25-9-97.
In specie la decisione impugnata, nella parte in cui ha affermato la illegittimità del termine apposto al contratto de quo, deve ritenersi conforme a diritto anche se la motivazione della sentenza deve ritenersi parzialmente erronea.
In base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al D.Lgs. n. 368 del 2001), sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063,v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8- 2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha più volte affermato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1- 10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In base al detto orientamento, ormai consolidato, deve quindi ritenersi illegittimo il termine apposto al contratto in esame per il solo fatto che lo stesso è stato stipulato dopo il 30 aprile 1998 ed è pertanto privo di presupposto normativo.
Con il secondo motivo la ricorrente principale censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, nonostante il lungo tempo trascorso, senza peraltro indagare in merito alla volontà risolutiva della lavoratrice.
Anche tale motivo non merita accoglimento.
Come questa Corte ha più volte affermato "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonchè da ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, "è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso" (v. da ultimo Cass. 15- 11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre "grava sul datore di lavoro", che eccepisca tale risoluzione, "l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1- 2-2010 n. 2279).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli artt. 1372 e 1321 c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto (contra sulla rilevanza al mero dato oggettivo della "cessazione della funzionalità di fatto del rapporto", valutato "in modo socialmente tipico" cfr. Cass. 23-7-2004 n. 13891 e Cass. 6-7- 2007 n. 15264).
Orbene nella fattispecie la Corte d’Appello, ha affermato che l’eccezione è infondata non potendosi desumere, dal mero trascorrere del tempo, la volontà, sia pur tacita, della lavoratrice di risolvere il rapporto e rinunciare ad un suo diritto, osservando altresì che nel caso di specie "tra la cessazione dell’ultimo rapporto (28-2-2000) e la richiesta di tentativo di conciliazione (dicembre 2003) sono trascorsi circa quattro anni, tempo in ogni caso insufficiente a fondare qualsiasi presunzione".
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.
In tali sensi, quindi, va respinto il ricorso principale, in parte correggendosi, come sopra, la motivazione dell’impugnata sentenza (così risultando assorbito il ricorso incidentale condizionato), non essendo stata, peraltro, avanzata alcuna ulteriore censura, che riguardi in qualche modo le conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine ed il capo relativo al risarcimento del danno.
Al riguardo, osserva il Collegio che nella fattispecie neppure può trovare applicazione lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7.
Infatti, a prescindere da ogni altra considerazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).
Tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Infine, in ragione della soccombenza, la ricorrente va condannata al pagamento delle spese in favore della controricorrente.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale, condanna la società a pagare alla F. le spese, liquidate in Euro 50,00 per esborsi oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2012

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