Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 29-01-2013) 19-04-2013, n. 18247 Costruzioni abusive Demolizione di costruzioni abusive Reati edilizi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 15/2/2012 il Tribunale di Napoli, sez. dist. di Afragola, ha respinto l’istanza proposta dal ricorrente per la revoca o la sospensione dell’ingiunzione a demolire le opere abusivamente edificate emesso dal Pubblico ministero in esecuzione di quanto disposto con la sentenza del Pretore di Napoli, sez. dist. di Afragola del 17/3/1994, irrevocabile il 31/7/1995.

2. Avverso l’ingiunzione del Pubblico ministero il ricorrente ha proposto incidente di esecuzione sulla base del permesso di costruire in sanatoria rilasciato il 20/10/2010 dall’ente comunale in accoglimento delle tre diverse istanze di condono presentate in data 1/3/1995.

3. Il Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, ha richiesto all’ente comunale di fornire chiarimenti in ordine alle domande di condono e al permesso rilasciato. Sulla base delle informazioni ricevute, il Tribunale ha escluso che si sia in presenza di permesso in sanatoria che possa escludere la rilevanza penale delle violazioni e il permanere dell’antigiuridicità del fatto; in particolare, il Tribunale ha rilevato che la presentazione di tre distinte istanze di condono edilizio per le violazioni commesse sull’unico immobile avevano lo scopo di non rendere evidente che l’abuso superava i limiti volumetrici ammessi dalla disciplina in tema di condono, con conseguente violazione della L. n. 724 del 1994, art. 39 e rigetto dell’istanza. Tuttavia, il Tribunale, considerata la peculiarità dell’ipotesi, ha disposto la sospensione dell’ingiunzione a demolire in attesa della definizione dell’eventuale ricorso.

3. Avverso tale decisione il sig. E. propone ricorso, in sintesi lamentando:

a. Nullità dell’ordinanza per avere il giudice esercitato un potere spettante alle autorità amministrative, dal momento che l’ordine di demolizione emesso dall’autorità giudiziaria non può porsi in conflitto con la decisione dell’ente territoriale sulla condonabilità delle opere; la giurisprudenza ha, infatti, chiarito che situazioni giuridiche sopravvenute si possono opporre alla esecuzione della demolizione in sede penale;

b. Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione alla L. n. 724 del 1994, art. 39. Il Tribunale ha ritenuto che l’edificio abusivo con volumetria di 1.032,83 mc superi il limite di 750,00 mc previsto dalla disposizione citata, ma ha omesso di considerare che si è in presenza di tre diverse unità immobiliari e che detto limite va valutato con riferimento a ciascuna di esse (Sez. 3, n. 9011 del 1997; n. 3585 del 1996; della L. n. 326 del 2003, art. 32), andando di diverso avviso rispetto alla sentenza n. 302 del 1996 della Corte costituzionale;

c. Errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione all’art. 39 citato, e al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 34 e al principio di proporzionalità che giustifica la limitazione della demolizione alle sole volumetrie eccedenti. Ciò comporta che la parte non sanabile deve essere considerata come difformità parziale ai sensi del citato art. 34, con conseguente applicabilità della sola sanzione pecuniaria qualora l’ente territoriale valuti questa soluzione preferibile a fronte della eccessiva onerosità della demolizione.

Motivi della decisione

1. Osserva in via preliminare la Corte che si è in presenza di ordine di demolizione pronunciato dall’autorità giudiziaria nell’anno 1995 e rimasto fino ad oggi non eseguito. A tale risultato ha concorso la decisione con cui il Comune di Afragola nel mese di ottobre 2010 ha accolto l’istanza di sanatoria avente ad oggetto la disciplina introdotta con la L. n. 724 del 1994.

2. Il permesso in sanatoria rilasciato dall’ente territoriale nell’anno 2010 ha ad oggetto con unica deliberazione tre diverse istanze presentate dall’odierno ricorrente con riguardo al medesimo immobile. Come emerge dagli atti, si tratta di istanze proposte dal sig. E. quale unico proprietario dell’unico immobile: l’una a nome proprio, le altre per conto delle figlie che all’epoca dell’istanza avevano 2 e 5 anni di età.

3. Tale situazione di fatto rende infondato, a parere della Corte, sia il richiamo operato col secondo motivo di ricorso alla sentenza della Corte costituzionale n. 302 del 1996 sia i principi giurisprudenziali (sentenza n. 9011 del 1997 e sentenza n. 3585 del 1996) in ordine alla frazionabilità dell’immobile in distinte unità e all’esigenza che il superamento dei limiti volumetrici fissati dalla L. n. 724 del 1994, art. 39.

4. A questo proposito va rilevato, in primo luogo, che la sentenza 18/7/1996, n. 302 della Corte costituzionale ha fissato il principio interpretativo della legge che è stato così massimato:

"Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale, riferita all’art. 9 Cost., della L. n. 724 del 1994, art. 39, comma 1, in quanto la possibilità ivi prevista di presentare domande separate di concessione in sanatoria relative ad un medesimo immobile (con la conseguente applicazione a ciascuna domanda del limite volumetrico dei 750 mc) vale soltanto nei casi in cui vi sono diversi soggetti legittimati, per effetto della suddivisione della costruzione o della limitazione quantitativa del titolo, non potendo, pertanto, uno stesso soggetto legittimato utilizzare separate domande di sanatoria per aggirare il limite di volumetria previsto dalla L. n. 724 del 1994, art. 39, comma 1, dovendosi, in tal caso, necessariamente unificare le richieste, quando si tratti della medesima nuova costruzione da considerarsi in senso unitario".

E’ evidente che la Corte costituzionale colse il pericolo che situazioni artificiosamente create venissero utilizzate per "aggirare il limite volumetrico" fissato dalla legge ed escluse che tali condotte potessero risultare compatibili con il dettato normativo, così non giungendo a dichiarare l’illegittimità della norma ma, come si legge in motivazione, fissandone l’unica lettura compatibile coi valori costituzionali posti a fondamento di una regolata gestione del territorio e della tutela dell’interesse collettivo a questa collegati. L’applicazione di tale principio al caso in esame appare alla Corte incompatibile con la situazione di fatto sottesa al ricorso, indicativa di una artificiosa separazione delle istanze volte ad aggirare il superamento del limite volumetrico dell’unico immobile.

5. Anche la lettura delle sentenze di questa Corte richiamate dal ricorrente non appare giovare alla fondatezza del ricorso. La lettura delle stesse impone di rilevare che la presentazione di separate domande è legittimata dall’esistenza di una pluralità di unità catastalmente e funzionalmente distinte, come avviene in un contesto condominiale o di frazionamento dell’immobile fra più soggetti che vantano titoli autonomi (si veda sul punto la chiara motivazione della sentenza n. 3585 del 13/3/1996, Esposito). Sul punto merita di essere richiamata anche la motivazione della sentenza n. 20161 del 19/4/2005, Merra, che chiarisce come l’applicazione del citato art. 39 debba essere operata evitando la elusione del limite volumetrico legale posta in essere mediante il ricorso ad "espediente operativo" che moltiplichi i soggetti istanti e il numero delle istanze riferite, in realtà, ad unico immobile e a unico titolare.

6. Nel caso in esame difettano in capo alle figlie del ricorrente validi titoli sull’immobile e risulta evidente quell’opera di "aggiramento" della legge che la Corte costituzionale ha ritenuto evitabile mediante una interpretazione della disposizione richiamata in linea coi principi della nostra Carta. La corretta interpretazione della legge impedisce di ritenere il provvedimento rilasciato dal comune impeditivo dell’esecuzione dell’ordine di demolizione e comporta la manifesta infondatezza del ricorso, spettando poi alle autorità preposte all’esecuzione la individuazione delle modalità e dei limiti di attuazione dell’ordine impartito dal giudice.

7. Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nonchè al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2013

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