T.A.R. Campania Napoli Sez. II, Sent., 19-01-2011, n. 306

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con il presente ricorso il dr. M.M. agisce in ottemperanza per sentire dichiarare che nel giudicato da eseguire è compreso anche il diritto a procedere al riscatto degli anni di laurea a fini pensionistici, secondo le aliquote stipendiali vigenti al momento dell’instaurazione del rapporto, e non a quelle – maggiori – del periodo successivo in cui è stato messo in condizione di farla.

Va infatti premesso che il ricorrente ha intrattenuto con l’Università degli Studi di Napoli "Federico II" e con l’Azienda Policlinico della predetta università, un rapporto che l’amministrazione ha sempre univocamente voluto qualificare come rapporto di collaborazione libero professionale esterna, senza alcun vincolo, né alcuna convenzione, peraltro contrastando sempre, ed in ogni sede, anche di natura sindacale, la possibilità di una diversa qualificazione giuridica.

Visto che la normativa all’epoca vigente (legge 25 ottobre 1977, n. 808, a.18; legge 19 febbraio 1979, n. 54; DPR 11 luglio 1980, n. 382) poneva a carico delle università un chiaro divieto ad assumere personale in pianta stabile ed in violazione della procedura di reclutamento (concorso), il C.d.A. dell’Università "Federico II" si vedeva costretto, al fine di porre rimedio allo stato di necessità senza tuttavia infrangere la normativa appena citata, a predisporre un’apposita convenzione regolativa delle modalità di svolgimento di una nuova forma di collaborazione liberoprofessionale.

Egli ha pertanto agito nel giudizio di cognizione, assieme ad altri colleghi, per sentir accertare la natura di pubblico impiego di fatto dell’attività medico assistenziale svolta nonché il diritto al pagamento, ai sensi dell’articolo 2126 c.c., di tutte le differenze retributive maturate, ed al trattamento assicurativo, assistenziale e previdenziale, con la conseguente condanna delle amministrazioni resistenti, ciascuna per i periodi di competenza, al pagamento di tutti i relativi contributi, anche in favore degli enti di competenza.

Per quanto d’interesse nel presente giudizio, con la sentenza di cui è chiesta l’esecuzione la domanda è stata accolta limitatamente alla regolarizzazione della posizione previdenziale, assicurativa e assistenziale degli istanti, con conseguente condanna delle amministrazioni, ciascuna per il proprio periodo di competenza, a richiedere in favore dei ricorrenti l’iscrizione ad un ente previdenziale per il periodo, relativo a ciascun ricorrente, indicato.

Con il presente ricorso per ottemperanza il ricorrente lamenta che la ricostruzione della posizione previdenziale non sia stata integralmente soddisfatta, in quanto si è visto precludere la domanda di riscatto del periodo di studi universitari, secondo i parametri di retribuzione erogata alla data di instaurazione del rapporto.

L’intimata amministrazione universitaria si è costituita in resistenza con il patrocinio dell’Avvocatura distrettuale dello Stato, che ha concluso con richiesta di rigetto del ricorso.

Alla pubblica udienza del 25 novembre 2010 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

Motivi della decisione

1. Va preliminarmente esaminata l’eccezione con la quale l’Università degli Studi di Napoli Federico II rileva che la pretesa azionata in ottemperanza non rientrerebbe nell’ambito del giudicato da eseguire, facendosi valere non un diritto previdenziale riconosciuto in sentenza ma un quid novi, richiesto per la prima volta con la presente domanda giudiziale, con conseguente inammissibilità del ricorso, non potendo trovare ingresso in questa sede questioni nuove rispetto a quelle oggetto del decisum.

Al riguardo il Collegio ritiene di dover premettere alcune considerazioni sulla natura e sull’ambito del giudizio di esecuzione del giudicato amministrativo.

Posto che in sede di giurisdizione esclusiva il giudicato si forma anche in relazione all’intero rapporto dedotto in giudizio, pare alla Sezione potersi affermare che risponde ad un criterio di economia dei mezzi processuali e che sia rispettoso del precetto di cui al comma II del novellato art. 111 della Costituzione, prescrittivo della necessità che i processi abbiano una durata ragionevole, consentire il ricorso al Giudice dell’ottemperanza al fine di determinare le condizioni affinché l’amministrazione ottemperi ai precetti contenuti nelle decisioni rese in materie rientranti nella giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo (si veda, in particolare, Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 dicembre 1999, n. 1901 in ordine alla finalità del giudizio di ottemperanza, laddove si è avuto modo di precisare che "nel giudizio di ottemperanza, il giudice amministrativo può adottare una statuizione analoga a quella che potrebbe emettere in un nuovo giudizio di cognizione, risolvendo eventuali problemi interpretativi, che sarebbero comunque devoluti alla propria giurisdizione, ma non può esercitare analoghi poteri di integrazione allorché la sentenza da eseguire sia stata adottata da un giudice appartenente ad un diverso ordine giurisdizionale e la questione rientri nella giurisdizione di quest’ultimo").

Secondo la prevalente giurisprudenza, il giudizio di ottemperanza ha natura mista, di esecuzione e di cognizione: ciò perché spesso la regola posta dal giudicato amministrativo è una regola implicita o incompleta, che spetta al giudice dell’ottemperanza esplicitare o completare. Non a caso si è efficacemente parlato del giudizio di ottemperanza come prosecuzione del giudizio di merito, ovvero di giudicato a formazione progressiva, diretto ad arricchire, pur rimanendone condizionato, il contenuto vincolante della sentenza amministrativa.

Rientra, quindi, a pieno titolo tra i compiti del Giudice dell’ottemperanza dare un contenuto concreto all’obbligo conformativo che discende dalla sentenza, risolvendo i problemi possibili al riguardo.

Il giudice amministrativo, cioè, in sede di giudizio di ottemperanza, può esercitare cumulativamente, ove ne ricorrano i presupposti, sia poteri sostitutivi che poteri ordinatori e cassatori e può, conseguentemente, integrare l’originario disposto della sentenza con statuizioni che ne costituiscono non mera "esecuzione", ma "attuazione" in senso stretto, dando luogo al cosiddetto giudicato a formazione progressiva (cf. Consiglio di Stato, Sezione VI, 3 marzo 2008 n.796 e 16 ottobre 2007, n.5409).

Tanto consente conclusivamente di respingere l’eccezione di inammissibilità della domanda, formulata sotto il profilo che si tratterebbe non di dare corso alle statuizioni contenute nel giudicato, ma della proposizione di una domanda nuova, che non ha formato oggetto del giudizio di cognizione.

2. A tal proposito deve poi rilevarsi che, oltre alle suesposte considerazioni, è determinante il fatto che la pronuncia da eseguire, nel respingere la domanda diretta all’accertamento della costituzione tra i medici cd. gettonati e l’Azienda universitaria di un rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato, ha riconosciuto sussistere gli estremi del rapporto di lavoro di fatto nullo, in quanto costituito in violazione di legge, con applicazione della disciplina di cui all’art 2126 c.c.

La sentenza ha quindi riconosciuto:

a) che l’incarico attribuito ai medici "gettonati", a prescindere dal nomen iuris contenuto nell’atto costitutivo del rapporto, si sia realizzato in effetti come un rapporto con tutti gli indici rilevatori propri del rapporto di pubblico impiego; b) che il rapporto in questione, essendosi espletato in contrasto con norme imperative, sia affetto da nullità; c) che al rapporto predetto, soggetto alla cognizione del giudice amministrativo quanto alle retribuzioni spettanti e agli obblighi previdenziali e assicurativi dovuti dall’Amministrazione, si applichi l’art. 2126 c.c., anche nel rispetto dei principi costituzionali (in particolare, degli artt. 36 e 38 Cost.).

Il legislatore, dunque, per limitare gli effetti (certamente pregiudizievoli per l’erario) è intervenuto con la normativa (più rigida), impedendo con ciò la trasformazione in rapporti di pubblico impiego con le Università di numerosi contratti ed incarichi a tempo indeterminato, che erano il mezzo più diffuso per assumere nuovo personale necessario a soddisfare le crescenti esigenze organizzative e istituzionali delle stesse Università.

E’ stato osservato dal Consiglio di Stato in fattispecie analoga (sentenza n. 4134/2001) che: "l’improduttività di effetti a carico dell’amministrazione stessa, di cui al menzionato art. 18, ha rilevanza sotto il profilo della valida costituzione e della stabilità del rapporto di pubblico impiego (effetti questi impediti dalla nullità per violazione di norme imperative) ferma comunque restando l’applicabilità dell’art. 2126 c.c. ai fini retributivo – previdenziali. L’art. 18 appena richiamato, unitamente alle altre disposizioni sopra citate, si inserisce in effetti nell’ambito di quei precetti che esprimono un netto orientamento del legislatore, volto allo scopo evidente di contenere la spesa pubblica e di garantire nello stesso tempo l’imparzialità amministrativa, a reprimere in modo più specifico ed incisivo le frequenti illegalità nel campo delle assunzioni, in particolare, di personale presso le Università; e ciò attraverso una tecnica normativa consistente, in genere – come evidenziato nella sentenza dell’Adunanza plenaria 29.2.1992 n. 2 – nello stabilire la sanzione di nullità dell’assunzione illegittima, la quale viene formalmente ed espressamente dichiarata improduttiva di alcun effetto a carico dell’Amministrazione, e nel prevedere la responsabilità degli impiegati (o degli amministratori) che hanno provveduto all’assunzione stessa; criterio rigoroso questo recepito per gli Amministratori statali ai fini delle assunzioni di ruolo, dall’art. 3, VI comma del T.U. 10 gennaio 1957 n. 3 e, per le assunzioni non di ruolo, dagli artt. 12 D.L.C.P.S. 4 aprile 1947 n. 207 e 4 DPR 31 marzo 1971 n. 276 e anche, con un modello legale poi generalizzatosi, per enti pubblici, tra i quali, appunto, anche le Università."

Da ciò discende una serie di conseguenze (cfr. Ad. Plen. 29.2.1992 n. 1), tra le quali la prima è che il rapporto di lavoro instaurato in contrasto con le disposizioni che lo disciplinano, ove sia espressamente prevista una sanzione di "nullità" del tipo sopra menzionato, sia esso rapporto a termine o a tempo indeterminato, nasce e vive come rapporto di fatto, rispetto al quale gli indici rilevatori del pubblico impiego assumono solo funzione di astratta qualificazione al fine della determinazione della giurisdizione e della disciplina economica e previdenziale cui debbono essere sottoposte le prestazioni lavorative.

In definitiva, il Consiglio di Stato, nelle sentenze dell’Ad. Plen. 29.2.1992, nn. 1. e 2 e 5.3.1992 nn. 5 e 6, pur sancendo la nullità del rapporto avente le caratteristiche del pubblico impiego, ma sorto in violazione di norme imperative che disponevano la sanzione della nullità, ha statuito anche l’applicabilità, in tale caso, dell’art. 2126 c.c., affermando che sulla base di tale norma spettano comunque al dipendente di mero fatto della P.A. le prestazioni retributivo – previdenziali.

La pronuncia della quale è chiesta l’esecuzione conclude che nel caso dei "gettonati" di cui si discute – una volta superato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui le prestazioni in contrasto con il divieto legale di assunzione sono affette da nullità assoluta con conseguente improduttività di ogni effetto giuridico ed esclusione anche della tutela ex art. 2126 c.c. per le pretese retributive, essendo esperibile solo l’azione ex art. 2041 c.c. – il rapporto di lavoro di fatto è comunque esistito, sia pure in violazione di un divieto assoluto, con collegamento ad esigenze reali, sicché da esso non possono che scaturire tutte le conseguenze retributive e previdenziali connesse derivanti dall’applicabilità dell’art. 2126 c.c..

Anche la Cassazione ha ribadito il principio che il rapporto di lavoro di fatto costituito con un ente pubblico non economico per i fini istituzionali dello stesso, ancorché vietato da norma imperativa, rientra nella nozione di impiego pubblico e non impedisce l’applicazione dell’art. 2126 c.c. con conseguente diritto alla retribuzione ed alla contribuzione previdenziale propria di un rapporto di impiego pubblico "regolare" (cfr. Cass. Sez. Lavoro 14.6.1999 n. 5895; 3.7.2003 n. 10551). Inoltre, il principio per cui la prestazione di lavoro subordinato svolta alle dipendenze di un ente pubblico non economico in violazione di norme imperative deve essere qualificata come pubblico impiego, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2126 cod. civ., con conseguente diritto del dipendente ai relativi compensi e alla regolarizzazione della posizione contributiva previdenziale, secondo le regole previste per gli impiegati pubblici, si applica anche ai dipendenti delle Università, per le quali, anche a seguito dell’autonomia loro riconosciuta, non è stata introdotta alcuna norma di modifica del regime pensionistico dei dipendenti, che rimane omogeneo a quello dei dipendenti delle altre amministrazioni statali (cfr. Cass. Sez. Lavoro, 20 maggio 2008 n. 12749).

3. Tanto premesso, e rilevato che dal rapporto di fatto nella specie riconosciuto devono discendere tutte le conseguenze di un vero e proprio rapporto di lavoro regolare, eccezion fatta per la sola costituzione di un rapporto di impiego a tempo indeterminato, occorre scrutinare se nel concetto di prestazione assicurativo- previdenziale rientri anche la possibilità di riscatto degli anni di laurea, possibilità che indubbiamente deve ritenersi inclusa nel novero delle prestazioni erogate ed erogabili ai fini previdenziali, e soprattutto con quale contributo a carico del lavoratore.

Al quesito deve darsi risposta positiva.

Invero, non si fa questione della possibilità che a seguito del riconoscimento dei diritti previdenziali, il ricorrente possa proporre il riscatto del periodo di laurea, tanto più che si tratta di una prestazione cd. onerosa, a carico dello stesso interessato, ma a quali condizioni sia subordinato detto riscatto. In particolare, nel sistema di computo del contributo dovuto ai fini del riscatto del corso legale di laurea viene in rilievo, tra i parametri di riferimento, la retribuzione pensionabile spettante alla data della domanda. Orbene, a detta dell’amministrazione resistente, tale coefficiente dovrebbe essere individuato nel momento effettivo in cui è stata presentata l’istanza, che ovviamente è successivo al passaggio in giudicato della sentenza che ha riconosciuto la costituzione del cd. rapporto di impiego di fatto.

Lamenta in contrario il ricorrente che una completa reintegrazione della sua posizione deve comportare la fictio juris di costituzione del rapporto, con conseguente retrodatazione del momento cui fare riferimento ai fini della presentazione della domanda. In altri termini, ove il comportamento contra legem dell’amministrazione non si fosse verificato, egli avrebbe avuto titolo alla presentazione della domanda sin dal momento della immissione in servizio, con conseguente possibilità di fare quindi riferimento alla retribuzione ora per allora.

3.1. La tesi attorea merita favorevole considerazione, entro i limiti di seguito precisati.

Una interpretazione letterale delle disposizioni citate, che indicano come voce parametrica la retribuzione alla data della presentazione della domanda, è possibile nelle ipotesi fisiologiche in cui il rapporto di lavoro sia nato e vissuto quale rapporto di diritto, atteso che fin dall’inizio il dipendente ha la certezza della costituzione e configurazione del regolare rapporto di pubblico impiego, ed è posto in grado di esercitare tempestivamente tutti i connessi diritti, ed oneri relativi. Sicché ove abbia presentato la domanda in un momento distante dalla costituzione del rapporto, con conseguente maggiore onerosità del riscatto, imputet sibi gli effetti della mancata tempestiva proposizione della istanza.

Quando però il rapporto si svolga, in base alla configurazione formale che ad esso hanno dato le parti, sulla base di schemi diversi da quelli del lavoro subordinato, tanto da portare a seguito del riconoscimento di un rapporto subordinato di fatto alla condanna dell’ente alla costituzione della posizione previdenziale, come non appare corretto parlare di morosità, in senso proprio, da parte dell’ente datore di lavoro (il quale ovviamente verserà i relativi contributi non mese per mese, ma a posteriori, in unica soluzione), così non può ritenersi intempestivamente esercitata la facoltà di riscatto del periodo legale del corso di laurea, ove la si faccia valere al momento in cui si è avuta la certezza giuridica della configurazione del rapporto stesso.

Sia pure con efficacia retroattiva, la natura del rapporto, e la sussistenza di obblighi o diritti diversi da quelli pattuiti, vengono accertati solo con la sentenza del giudice amministrativo che riconduce la fattispecie nell’ambito del pubblico impiego. Sicché non vi è ragione, una volta che l’obbligo contributivo sia stato per la prima volta affermato, di applicare alla lettera il riferimento alla retribuzione in godimento alla data di presentazione della domanda, anziché predicare la diversa possibilità, scaturente dalla fictio juris di costituzione del rapporto ora per allora, di fare riferimento alla retribuzione in godimento alla data in cui è stato rinnovato il primo contratto di lavoro, id est la prima delle reiterate convenzioni con l’Università.

Affrontando il problema (sostanzialmente affine) della ripartizione dell’obbligo contributivo nell’ipotesi in cui venga in giudizio riconosciuto il diritto di un dipendente alla qualifica superiore, la Corte di Cassazione (sezione lavoro, 7 febbraio 1986 n. 785) ha affermato che il datore di lavoro può legittimamente operare le trattenute previdenziali nell’atto di corrispondere le differenze retributive, poiché il nuovo inquadramento, accertato con la sentenza, è fonte dell’obbligo contributivo, sicché "il termine utile per il pagamento dei contributi e per la rivalsa nei confronti del lavoratore non può identificarsi con le normali scadenze dei periodi di paga".

Anche nel caso sottoposto all’esame del Collegio, dunque, il momento utile cui fare riferimento per la retribuzione in godimento ai fini del riscatto della laurea non può identificarsi in quello di materiale presentazione della domanda, ma in quello antecedente in cui i ricorrenti avrebbero potuto presentare la relativa istanza ove fossero stati posti in condizione di farlo, se non si fosse interposta la convenzione posta in essere dall’Università.

3.2. Viceversa non merita adesione la richiesta di riscatto alle medesime condizioni degli anni di specializzazione (cfr. in termini, per tutte, T.A.R. Campania, Sezione II, 23.7.2010 n.16963).

Al riguardo deve essere condivisa l’eccezione formulata dall’Università, secondo la quale il ricorrente, che nel frattempo è stato assunto a tempo indeterminato, non avrebbe titolo a riscattare i diplomi della scuola di specializzazione in chirurgia generale e medicina dello sport, conseguiti rispettivamente nell’anno 1987 e nell’anno 2006, ossia mentre percepiva il cd. gettone (dal 1983), in quanto condizione necessaria per poter riscattare tale periodo di studio è che questo non coincida con l’attività lavorativa.

In altri termini, sebbene il decreto legislativo n. 184/1997 consenta di riscattare ogni titolo di laurea o di specializzazione non utilizzato per l’accesso in carriera, tuttavia non è prevista la possibilità di riscattare un periodo di studi, come quello del corso di specializzazione, che si sia svolto contemporaneamente alla normale attività lavorativa.

La suesposta eccezione non è stata smentita dal ricorrente, che ha chiesto genericamente di poter riscattare anche i periodi della scuola di specializzazione.

4. Ne deriva l’accoglimento parziale della domanda, con declaratoria del diritto del ricorrente a porre in essere tutti gli adempimenti per il riscatto del solo periodo del corso legale di laurea, prendendo come parametro di riferimento la retribuzione in godimento al momento in cui è stata rinnovata per la prima volta la convenzione con l’Università.

4.1. Sussistono giusti motivi per dichiarare integralmente compensate le spese di lite tra le parti in ragione della novità e della complessità delle questioni giuridiche trattate.

P.Q.M.

accoglie la domanda nei limiti di cui in parte motiva e per l’effetto dichiara, ai fini della corretta esecuzione del giudicato in premessa, il diritto del ricorrente a porre in essere tutti gli adempimenti per il riscatto del periodo del solo corso legale di laurea, prendendo come parametro di riferimento la retribuzione in godimento al momento in cui è stata rinnovata per la prima volta la convenzione con l’Università.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 25 novembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

Carlo D’Alessandro, Presidente

Anna Pappalardo, Consigliere

Pierluigi Russo, Consigliere, Estensore

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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