Cass. civ. Sez. III, Sent., 26-07-2012, n. 13209

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con citazione ritualmente notificata G.A. e C. A., Ca. e C., quali eredi di c.c., convenivano in giudizio Al.An., gli eredi di A. D., P.M., la Danubio Ass.ni (poi Zurigo Ass.ni) e la Universo Ass.ni per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti al decesso del loro congiunto occorso a seguito del sinistro stradale, verificatosi il (OMISSIS) che aveva visto coinvolti l’autovettura dell’ A. e l’autocarro della P., condotto dall’ Al.. Riunito quindi il giudizio a quello promosso da G.D. contro la Universo Ass.ni e gli eredi di A. D. per ottenere il risarcimento dei danni subiti dal proprio autocarro condotto dall’ Al. al momento del sinistro,interveniva volontariamente in causa P.S., trasportato sulla Opel Kadett guidata dall’ A., per conseguire dagli eredi di quest’ultimo in solido con la Universo Ass.ni il risarcimento dei danni subiti in occasione del sinistro. Con sentenza in data 10-5-02 il giudice monocratico del Tribunale di Taranto dichiarava cessata la materia del contendere in ordine alla domanda proposta dagli eredi di c.c. che avevano transatto la lite, condannava gli eredi di A.D. a pagare, in solido con la Universo Ass.ni la somma di Euro 209.290,85 oltre rivalutazione e interessi sulla somma di Euro 41.494,01 e al pagamento della somma di Euro 9.344,54 in favore di G.D. regolando le spese secondo la soccombenza. Avverso tale decisione proponevano appello principale il P. ed appello incidentale Italiana Assicurazioni. In esito al giudizio, la Corte di Appello di Lecce con sentenza depositata in data 12 dicembre 2005 rigettava il gravame principale ed in parziale accoglimento di quello incidentale eliminava dalla liquidazione operata dal primo giudice la somma di euro 38.994,65. Avverso la detta sentenza F.S., P.M.P., P. V., rispettivamente nella qualità di coniuge, la prima, e figlie le altre del defunto P., hanno quindi proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi, illustrato da memoria.

Motivi della decisione

Con la prima doglianza, deducendo la violazione e la falsa applicazione degli artt. 83, 84, 331, 332 e 343 c.p.c., nonchè la motivazione incongrua ed erronea, parte ricorrente ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di Appello ha accolto l’appello incidentale, proposto dalla compagnia assicuratrice, benchè la procura rilasciata al difensore fosse stata apposta in calce alla copia notificata dell’atto di appello e non già sulla comparsa di costituzione con appello incidentale, per cui il mandato – questa, la conclusione del ricorrente – doveva ritenersi limitato a contrastare le doglianze dell’appellante principale senza estendersi alla proposizione dell’appello incidentale.

La doglianza non coglie nel segno. Il Collegio non ignora l’orientamento di questa Corte (Cass. n. 19454/2005, n. 5243/96, n. 12047/92), secondo cui, quando la procura sia apposta su un atto diverso da quelli previsti dall’art. 83 c.p.c., l’ambito del mandato al difensore va determinato, in mancanza di una diversa manifestazione di volontà, con riferimento all’atto sul quale è apposto, sicchè in caso di procura rilasciata in calce alla copia notificata dell’atto di appello, il mandato al difensore deve ritenersi limitato a contrastare le doglianze dell’appellante e non può, in linea di principio, estendersi alla proposizione dell’appello incidentale. Ma da tale indirizzo ritiene di poter dissentire, aderendo alla tesi espressa da questa stessa Corte con la sentenza n. 4206 del 23.4.1998 (conforme sostanzialmente Cass. n. 4864/07), la quale, partendo dalla premessa che l’art. 83 c.p.c., comma 2, stabilisce che la procura speciale può essere anche apposta in calce o a margine della citazione, del ricorso, del controricorso, della comparsa di risposta o d’intervento, del precetto o della domanda d’intervento nell’esecuzione, senza distinguere quindi tra atti provenienti dalla parte che conferisce il mandato e quelli provenienti da controparte, ne trae la conseguenza che anche questi ultimi atti rientrino nell’ambito della disposizione, quando esista un collegamento con l’atto dell’avversario (e nella specie, il collegamento con l’atto dell’avversario è evidente, trattandosi di procura apposta in calce ad un atto di citazione in appello).

Ciò premesso, considerato che la giurisprudenza di legittimità, con altra decisione la n. 9480 del 9 settembre 1991, ha ritenuto (in motivazione) la ritualità della procura rilasciata in calce alla copia dell’atto di appello, tenuto conto che tale procura è idonea ad assicurare la certezza della autografia della parte e della data del mandato, posteriore necessariamente sia alla pronuncia della sentenza impugnata che alla notifica dell’impugnazione, la Corte, nella medesima sentenza in esame, ha tratto infine la conclusione che la procura apposta in calce della copia notificata della citazione introduttiva dell’atto di appello comporti anche la facoltà di proporre impugnazione incidentale, rientrando tale atto tra le normali attività inerenti alla difesa. Ciò, in quanto il mandato "ad litem" attribuisce al procuratore, a norma dell’art. 84 c.p.c., la facoltà di proporre tutte le domande che siano comunque ricollegabili con l’originario oggetto e, quindi, anche le domande riconvenzionali, restando esclusi dai poteri dei procuratori soltanto quegli atti che comportano disposizione del diritto in contesa e le domande con le quali si introduce una nuova e distinta controversia eccedente l’ambito della lite originaria (Cass. n. 1393/95; nello stesso senso, cfr. Cass. n. 1745/79 e Cass. n. 3284/75).

Tutto ciò premesso e considerato, ritiene questo Collegio che le considerazioni svolte dalla Corte di legittimità nella sentenza in esame meritino di essere preferite alla luce del rilievo fondamentale che i poteri del procuratore nella gestione della lite sono stabiliti dalla legge e non dalla volontà della parte per cui il difensore, una volta ricevuta la procura, gode della massima discrezionalità tecnica nella conduzione della causa con gli unici limiti di incidere sul diritto controverso e di introdurre una nuova e distinta controversia eccedente l’ambito della lite originaria. Ed è appena il caso di sottolineare come nel caso di specie i detti limiti non siano stati in alcun modo superati in quanto la proposizione dell’appello incidentale è il risultato di una valutazione effettuata in relazione all’esito delle domande introdotte nel giudizio, alla luce dell’intervenuta pronuncia giudiziale e delle possibilità di opporvisi.

Giova aggiungere che il contrasto è stato recentemente risolto nel senso cui ha aderito questo Collegio, affermando il principio secondo cui "Il difensore dell’appellato – secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa processuale, idonea a dare attuazione ai principi di economia processuale e di tutela del diritto di azione e di difesa della parte stabiliti dagli artt. 24 e 111 Cost. – può proporre appello incidentale anche nel caso in cui la procura sia stata apposta in calce alla copia notificata dell’atto di citazione in appello, ossia ad uno degli atti previsti dall’art. 83 cod. proc. civ., comma 3, in quanto la facoltà di proporre tutte le domande ricollegabili all’interesse del suo assistito e riferibili all’originario oggetto della causa è attribuita al difensore direttamente dall’art. 84 c.p.c., e non dalla volontà della parte che conferisce la procura alle liti, rappresentando tale conferimento non un’attribuzione di poteri, ma semplicemente una scelta ed una designazione, con la conseguenza che la natura dell’atto con il quale od all’interno del quale viene conferita, o la sua collocazione formale, non costituiscono elementi idonei a limitare l’ambito dei poteri del difensore (Sez. Un. n. 19510/2010).

La doglianza pertanto deve essere disattesa nè può condurre ad una diversa soluzione il rilievo fondato sul fatto che, a norma dell’art. 343 c.p.c., comma 1, l’appello incidentale si propone nella comparsa di risposta.

Ed invero, il rilievo introduce una problematica la quale, essendo relativa alla forma degli atti ed esaurendosi in tale ambito, è assolutamente diversa da quella riguardante il limite dei poteri del difensore nè può incidere sulla loro portata ma solo sulla validità dell’atto e ciò, in difetto di una contraria ed espressa previsione di legge.

Ora,fermo restando il rispetto dei termini previsto a pena di decadenza dalla norma, l’ipotesi di nullità derivante dalla proposizione dell’appello incidentale in un atto diverso da quello specificamente indicato è sanabile per acquiescenza qualora l’atto sia depositato al momento della costituzione in giudizio – e quindi noto alla controparte – e quest’ultima non abbia sollevato specifiche contestazioni nella prima difesa.

Ne deriva che il mandato al difensore, pur rilasciato in calce alla copia dell’atto di appello e perciò nullo per vizio di forma, una volta sanato, in mancanza di una univoca, contraria manifestazione di volontà, non può ritenersi limitato a contrastare le doglianze dell’appellante ma può estendersi alla proposizione dell’appello incidentale, in quanto esercizio di una facoltà ricompresa nei poteri che la legge affida alla discrezionalità tecnica del difensore.

Passando all’esame delle successive censure, va osservato che, con la seconda doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223, 2056, 2697 e 2729 c.c., nonchè della motivazione insufficiente e contraddittoria, i ricorrenti lamentano che la Corte di Appello avrebbe sbagliato quando ha ritenuto che il danno patrimoniale conseguente alla riduzione della capacità di guadagno non era stato provato in concreto, avendo omesso di consultare con attenzione la ctu, espletata in prime cure, onde accertarsi dell’avvenuta prova non soltanto di un gravissimo danno biologico bensì anche e specificamente della riduzione della capacità di guadagno.

Inoltre – ed in tali rilievi si sostanziano la terza e quarta doglianza, entrambe articolate sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione degli artt.1223, 1226 e 2056 c.c. (la terza anche con riferimento alla L. n. 57 del 2001, art. 5, artt. 189 e 190 c.p.c.) nonchè della motivazione insufficiente e contraddittoria – la sentenza impugnata non sarebbe "esente da censura neppure con riferimento ai crateri legali adottati quale base di calcolo delle voci di danno risarcibile, siccome liquidate nella sentenza di prime cure" (terza doglianza).

Si dovrebbe inoltre rettificare l’importo riconosciuto al defunto P. a titolo di danno morale, essendo contestabile "sia la limitazione della base di calcolo al solo danno da invalidità permanente sia comunque la stessa base di calcolo adoperata per la determinazione del danno morale sia infine le distinte componenti del danno morale pretermesse da apposita liquidazione" (quarta doglianza).

I motivi in questione, che vanno esaminati congiuntamente in quanto sia pure sotto diversi ed articolati profili, prospettano ragioni di censura intimamente connesse tra loro, sono inammissibili.

A riguardo, mette conto di sottolineare che le ragioni di doglianza formulate come risulta di ovvia evidenza dal loro stesso contenuto e dalle espressioni usate, non concernono violazioni o false applicazioni del dettato normativo bensì la valutazione della realtà fattuale, come è stata operata dalla Corte di merito; nè evidenziano effettive carenze o contraddizioni nel percorso motivazionale della sentenza impugnata ma, riproponendo l’esame degli elementi fattuali già sottoposti ai giudici di seconde cure e da questi disattesi, mirano ad un’ulteriore valutazione delle risultanze processuali, che non è consentita in sede di legittimità.

Ed invero, premesso che la valutazione degli elementi di prova l’apprezzamento dei fatti attengono al libero convincimento del giudice di merito, deve ritenersi preclusa ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa. Con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile la doglianza mediante la quale la parte ricorrente avanza, nella sostanza delle cose, un’ulteriore istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

(cfr. Cass. n. 9233/06).

Del resto, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5), non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio" posto che una simile revisione, in realtà, si risolverebbe sostanzialmente in una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

Resta da esaminare l’ultima censura, svolta sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223, 1226 e 2056 c.c., L. n. 990 del 1969, art. 22, nonchè della motivazione carente ed erronea, con cui parte ricorrente lamenta che la Corte territoriale avrebbe completamente omesso di pronunciarsi sulla subordinata ma autonoma, richiesta di riconoscimento di interessi legali e rivalutazione sul complessivo importo liquidato nella sentenza di prime cure.

La censura è inammissibile per un duplice ordine di considerazioni:

in primo luogo, per l’irrituale commistione tra il vizio di omessa pronuncia e quello di motivazione "carente od erronea", trattandosi di vizi ontologicamente diversi in quanto il primo, non richiamato in rubrica, integra un difetto di attività del giudice, quindi un error in procedendo, produttivo della nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4) e si verifica quando l’omesso esame concerne, nel caso dell’appello, uno dei fatti costituitivi della domanda di impugnazione mentre il secondo, richiamato in rubrica ma non trattato adeguatamente nello sviluppo della censura, costituisce un vizio propriamente della decisione adottata e presuppone che il giudice abbia preso in considerazione la questione e l’abbia risolta, senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la sua decisione; in secondo luogo per difetto di autosufficienza.

Ed invero, affinchè possa utilmente dedursi il vizio di omessa pronuncia su un motivo di appello, occorre che parte ricorrente provveda a riportare, nel ricorso per cassazione, previa trascrizione nei suoi esatti termini, il contenuto della doglianza, che avrebbe costituito il motivo di impugnazione e sul quale la Corte di merito avrebbe omesso di pronunciarsi, al fine di consentire a questa Corte di verificarne la ritualità della proposizione e la specificità della doglianza, onere che nella specie i ricorrenti non hanno invece assolto. Ed è appena il caso di sottolineare che, pur configurando la violazione dell’art. 112 c.p.c., un error in procedendo, per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del "fatto processuale", il potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non esonera parte ricorrente dall’onere di osservare preventivamente il principio di autosufficienza sopra richiamato.

Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato, senza che occorra provvedere sulle spese in quanto le parti vittoriosi, non essendosi costituite, non ne hanno sopportate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2012

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