Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 29-01-2013) 04-04-2013, n. 15621

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 13 febbraio 2012 la Corte d’appello di Roma ha respinto l’appello proposto da R.E. avverso sentenza del gip del Tribunale di Latina del 29 ottobre 2007 che lo aveva ritenuto colpevole del reato di violenza sessuale ai danni di una minore e condannato alla pena di anni tre di reclusione. La corte, premessa l’adesione alla motivazione del gip che disponeva dovesse intendersi integralmente riprodotta nella propria sentenza, rilevava che i motivi d’appello riproponevano temi già valutati in primo grado, e comunque li analizzava disattendendoli specificamente.

2. Avverso la pronuncia della corte il difensore dell’imputato ha presentato ricorso, articolato su tre motivi.

Il primo motivo denuncia nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), per violazione dell’art. 125 c.p.p. in relazione all’art. 192 c.p.p..

Quanto alla responsabilità dell’imputato, infatti, la motivazione sarebbe mancante, apparente, contraddittoria e travisante; non sussisterebbero riscontri esterni alle dichiarazioni della parte offesa e non si sarebbe tenuto conto di tre testimonianze in ordine sia alla sua condizione di ebbrezza alcolica sia al suo essere uscita dal locale con due ragazzi e poi rientrata, lasciando quindi nel bagno delle macchie di sangue.

Il secondo motivo denuncia nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), per violazione dell’art. 125 c.p.p. e dell’art. 609 bis c.p., u.c., per essere stata negata l’ipotesi di minor gravità del reato.

Il terzo motivo infine denuncia ancora nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), per violazione dell’art. 125 c.p.p., dell’art. 62 bis c.p. e dell’art. 438 c.p.p..

Si lamenta l’eccessività della pena e il fatto che le attenuanti generiche e la diminuente del rito abbreviato siano state formalmente concesse ma fittiziamente applicate.

Motivi della decisione

3. Il ricorso non merita accoglimento.

Il primo motivo denuncia in sostanza vizio motivazionale in ordine all’accertamento della responsabilità penale dell’imputato e violazione dell’art. 192 c.p.p.. Esso protrae, a ben guardare, il primo motivo d’appello, secondo il quale, sul piano fattuale, non sarebbe stato tenuto in conto che la parte offesa, T.J., era ubriaca (lo avrebbero attestato tre testimoni, L., D. F. e I., ed ella stessa avrebbe ammesso di aver bevuto "un paio di birre"), che fu vista parlare davanti al locale con altri ragazzi (testimonianza I.) e poi lasciare in bagno delle macchie di sangue (testimonianza D.F.) e comunque, in punto di diritto, non sarebbero stati trovati riscontri in violazione dell’art. 192 c.p.p..

La corte d’appello ha adeguatamente affrontato il motivo, anzitutto rilevando la non necessità di riscontri esterni per le dichiarazioni della parte offesa, anche nel reato di violenza sessuale, e che quindi non vi è violazione dell’art. 192 c.p.p. – impostazione giuridica pienamente corretta: da ultimo S.U. 19 luglio 2012 n. 41461 ha negato l’applicazione delle regole di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3, alle dichiarazioni della parte offesa; ciò peraltro era già stato chiaramente affermato a proposito della parte offesa di delitti sessuali: v. p. es. Cass. sez. 4, 18 ottobre 2011 n. 44644 – e poi ha analizzato adeguatamente sia l’attendibilità intrinseca della persona offesa (offrendo anche una giustificazione congrua a uno degli argomenti più valorizzati dalla difesa dell’imputato, cioè l’inottemperanza alla comparizione personale davanti al PM, e valutando l’assenza nella vittima di astio nei confronti dell’imputato che potesse giustificare accuse calunniose) sia quella estrinseca con particolare riguardo alle dichiarazioni dei testi invocate dalla difesa, di cui ha effettuato un’ispezione specifica e puntuale giungendo senza alcun vizio logico a dedurne la non incidenza (sia per la genericità, sia per le dichiarazioni di altri testi) sulla versione della T.. Non vi è stata, dunque, nè motivazione carente, nè contraddittoria, nè tanto meno travisante;

il motivo del ricorso tenta anche di infiltrare una vera e propria ricostruzione di fatto per smontare quella adottata dai giudici di merito, ma ciò è inammissibile, e comunque deve ribadirsi che la motivazione con cui la corte ha sorretto l’accertamento fattuale in ordine agli elementi contestati nel primo motivo d’appello è completa, congrua ed esente da alcun vizio logico-giuridico (motivazione, pagine 2-3), per cui il primo motivo del ricorso è privo di consistenza.

Il secondo motivo del ricorso a sua volta corrisponde al secondo motivo d’appello che verteva sulla mancata applicazione del fatto di minore gravità di cui all’art. 609 bis c.p., u.c., il ricorrente imputando ora alla corte di averlo respinto motivando, in modo illogico, contraddittorio ed apparente, sul "consolidato rapporto personale di maestro/discepola ed alla conoscenza familiare", senza peraltro considerare che vi sarebbe stata desistenza volontaria dell’imputato e non vi furono comunque nè amplesso nè penetrazione.

Per di più le dichiarazioni della vittima sarebbero inverosimili, non comprendendosi come l’imputato avrebbe potuto toccarla nelle parti intime dato che indossava pantaloni, senza sfilarli.

Anzitutto è evidente che, così formulando il motivo, il ricorrente tenta di nuovo di proporre una versione alternativa dei fatti, in questa sede inammissibile. Riguardo poi alla motivazione con cui la corte territoriale ha disatteso il secondo motivo d’appello, non corrisponde al contenuto di questa quello che ora adduce il ricorrente. La motivazione, infatti, ha considerato espressamente le argomentazioni della difesa rilevando la non incidenza dell’assenza di un amplesso e della desistenza dell’autore ai fini della configurabilità dell’ipotesi di minore gravità del reato di violenza sessuale, dovendosi invece aver "riguardo alle modalità complessive della condotta": in quest’ottica ha evidenziato la gravità di grado non compatibile con l’ipotesi suddetta, ritenendo di dovere valutare "negativamente l’intrusione violenta nella libertà sessuale della vittima che si era affidata l’imputato" per il rapporto personale maestro-discepola e per la conoscenza familiare, e successivamente analizzando anche le modalità materiali della violenza (che aveva comportato anche una lacerazione nella vagina della vittima).

Pure questo motivo è quindi manifestamente infondato.

Il terzo motivo riguarda l’eccessività della pena e la mancanza della massima estensione delle attenuanti generiche, lamentando anche, peraltro in modo assolutamente generico, una pretesa fittizietà dell’applicazione della diminuente di rito.

Essendo concretamente incentrato sulla mancata concessione delle attenuanti generiche nella massima estensione e sulla negazione del minimo edittale della pena, pure questo motivo rispecchia il terzo motivo d’appello, in ordine al quale la corte territoriale ha motivato adeguatamente (pagina 4). Non corrisponde al contenuto della motivazione la doglianza che la corte avrebbe negato la massima estensione delle attenuanti generiche per la "pervicacia del dolo" senza però spiegare in che cosa questa consisterebbe. Ictu oculi emerge dalla motivazione che la pervicacia del dolo è identificata in due circostanze: il fatto che l’imputato per accompagnare la minore abbia chiesto la macchina in prestito a uno dei presenti nel locale e l’approfitta mento della fiducia che la minore aveva nei suoi confronti. Manifestamente infondato è pertanto anche il terzo motivo.

Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso va dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende. La tipologia dei reati esige l’oscuramento dei dati identificativi delle persone coinvolte per rispetto del Codice della riservatezza.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2013

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