Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 29-01-2013) 04-04-2013, n. 15619 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 26 ottobre 2010 il GUP del Tribunale di Marsala condannava G.D. alla pena di anni uno mesi uno e giorni 10 di reclusione per reato di cui all’art. 609 bis c.p. e art. 609 septies c.p., comma 3, nn. 1 e 3, consistente nella violenza sessuale su donna minorenne tramite palpeggiamenti erotici durante una visita ginecologica. Avverso tale sentenza l’imputato proponeva appello, lamentando l’assenza di riscontri alla testimonianza della parte offesa, e chiedendo quindi l’assoluzione perchè il fatto non sussiste; in subordine chiedeva la riduzione della pena – eccessiva per mancata concessione delle attenuanti generiche – e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

La Corte d’appello di Palermo riformava la sentenza di primo grado limitatamente alla concessione della non menzione con sentenza del 15 febbraio 2011.

2. Avverso quest’ultima pronuncia l’imputato ha presentato ricorso, fondandolo su due motivi. Quale primo motivo adduce la violazione dell’art. 192 c.p.p. e la omessa e/o contraddittoria motivazione quanto ai criteri di attendibilità della testimonianza della minore parte offesa, non essendo stati indicati appunto tali criteri e la motivazione sulle difese risultando apparente. Quale secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 62 bis c.p. e il correlato vizio motivazionale per mancata giustificazione della negazione delle attenuanti generiche.

Motivi della decisione

3. Il ricorso è manifestamente infondato.

A proposito del primo motivo, è il caso di premettere che nella fattispecie si intersecano due peculiarità in ordine alla principale fonte testimoniale: si tratta della testimonianza della parte offesa di una violenza sessuale e si tratta della testimonianza di una persona minorenne.

Riguardo al primo profilo, la percezione della ontologica diversità tra la testimonianza della parte offesa e la testimonianza di un estraneo aveva condotto paradossalmente a prospettare un’assimilazione della testimonianza della vittima, quanto a disciplina valutativa, a quella resa dal soggetto in condizione più opposta rispetto a quella della vittima, cioè dal coimputato dello stesso reato o dall’imputato in un procedimento connesso ex art. 12 c.p.p.: assimilazione che poteva essere giustificata dalla comune esigenza di un supporto oggettivo della veridicità di quanto dichiarato da persone coinvolte, che governasse il libero convincimento del giudice in una struttura di prova legale. Questa tendenza interpretativa, di recente, è stata comunque disattesa dalle Sezioni Unite, che hanno confermato la classica garanzia motivazionale quanto all’esercizio del libero convincimento, scartando un’applicazione analogica palesemente forzata (ubi voluit dixit). S.U. 19 luglio 2012 n. 41461 nega infatti l’applicazione delle regole di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3, alle dichiarazioni della parte offesa, ribadendo – a convalida del loro valore testimoniale e dell’esercizio del libero convincimento che può tradizionalmente fondarsi anche su un’unica testimonianza – che possono essere poste da sole a fondamento dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato; riconoscendo peraltro la peculiarità della fonte, si è introdotto un controbilanciamento rappresentato dalla necessità di una previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, verifica che deve essere più penetrante e rigorosa di quella cui si sottopone la dichiarazione di qualsiasi teste.

Dunque, la dichiarazione della sola parte offesa può costituire fonte del convincimento del giudice sulla responsabilità penale dell’imputato; e ciò anche se la sua valutazione deve essere di rango superiore rispetto a quella di un teste "normale". Questo è un principio di cautela che la natura dei reati sessuali aveva già inequivoca mente imposto (da ultimo Cass. sez. 4, 18 ottobre 2011 n. 44644: "Nell’ambito dell’accertamento di reati sessuali, la deposizione della persona offesa, seppure non equiparabile a quella del testimone estraneo, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l’accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi").

Per quanto concerne poi l’età della parte offesa, occorre parimenti ricordare che anche in ipotesi in cui è opportuno l’espletamento di una perizia psicologica o psichiatrica rimane comunque il giudice libero di adottare la valutazione che reputi più adeguata, purchè ne renda conto con una idonea motivazione, la cui sussistenza a sua volta confina il vaglio del giudice di legittimità (cfr. p. es.

Cass. sez. 4, 17 maggio 2012 n. 34747; Cass. sez. 4, 6 novembre 2008 n. 45126; Cass. sez. 4, 24 ottobre 2007 n. 46359).

Esaminando a questo punto la vicenda concreta, deve darsi atto che la parte offesa era di un’età che aveva nettamente superato l’infanzia e che le consentiva di rapportarsi al mondo esterno con modalità ormai molto simili a quelle proprie di un adulto (aveva un fidanzato, si era recata a una visita ginecologica, aveva denunciato la violenza subita in una conferenza dibattito svoltasi in pubblico sulla violenza nei confronti delle donne); ciò rendeva chiaramente del tutto ultroneo l’intervento di un esperto in psicologia infantile ex art. 498 c.p.p. nell’escussione della teste. La corte, con un ragionamento iniziale al riguardo un poco dispersivo ma comunque non illogico, perviene quindi a ritenere (pagine 4-6) che la minore età della teste non incide sulla sua capacità a testimoniare e che le dichiarazioni rese dai minori, oltre che attraverso l’ausilio di consulenze tecniche, si esaminano anche direttamente "in sè e per sè" proprio per la sussistenza di tale capacità. Ha dunque valutato le conseguenze della età e della condotta della teste, lasciando intendere che il criterio di valutazione, nel caso concreto, è prossimo a quello della valutazione dell’attendibilità di una testimone maggiorenne. Non è quindi fondata la censura che la corte non abbia indicato il criterio di valutazione della prova testimoniale. D’altronde, tanto premesso, la corte effettua una analisi della deposizione della parte offesa attenta e puntuale, illustrandone la natura intrinseca (dichiarazioni "precise e analitiche") e l’estrinseco confronto con gli ulteriori elementi probatori emergenti dagli atti (pagina 6-8) e in particolare evidenziando le modalità assolutamente casuali del disvelamento della violenza, l’immediato riferimento ad altri soggetti da questi confermato (dichiarazioni del fidanzato M.B., dell’amica Gi.Gi., di I.N. – presente al riferimento della vittima al fidanzato e quando il fidanzato si recò a chiedere spiegazioni all’imputato -), concludendo infine per "la logicità intrinseca e la sostanziale precisione della descrizione dei fatti da parte della persona offesa, nonchè i riscontri delle medesime dichiarazioni". La valutazione dell’attendibilità della persona offesa ha quindi indubbiamente raggiunto il livello congruo alla natura della teste come non estranea alla vicenda che esige l’arresto delle Sezioni Unite sopra richiamato. Sostiene il ricorrente che quelle che la corte territoriale ha qualificato "piccole incongruenze" nel racconto della parte offesa sarebbero invece gravi e insanabili contraddizioni nella narrazione, e che la corte avrebbe non considerato le difese, le quali nell’atto d’appello affermavano che la minore aveva frainteso l’operato del medico. Dalla motivazione della sentenza, tuttavia, emerge la considerazione della questione del momento in cui la madre della vittima fu informata dei fatti, che palesemente non ha il peso di un fatto decisivo visti gli elementi esposti in precedenza (pagina 8) e che pertanto non illogicamente la corte riconduce a "piccole incongruenze"; e altresì risulta dalla motivazione affrontata, seppure sinteticamente – misura peraltro sufficiente vista l’evidenza dell’elemento – l’ulteriore questione del preteso fraintendimento dei protocolli di visita ("gli stessi non possono certamente prevedere che la paziente debba toccare la zona inguinale del medico"). Il motivo risulta quindi del tutto inconsistente.

Quanto al secondo motivo, non corrisponde al contenuto della sentenza la pretesa mancata giustificazione della non concessione delle attenuanti generiche: la corte motiva sul punto dichiarando di ritenere che, "in relazione alle modalità del fatto, sia corretta la quantificazione operata dal giudice di prime cure, che ha negato le attenuanti in questione, non rinvenendo in atti elementi positivi dai quali far discendere la possibilità di concedere". E’ d’altronde incongruo pretendere dal giudice una sorta di prova negativa dell’inesistenza degli elementi giustificativi delle attenuanti, come invece prospetta il ricorrente ("la Corte avrebbe dovuto specificare quali fossero gli elementi positivi ricercati e non rinvenuti"), così invertendo l’obbligo motivazionale che logicamente comporta l’identificazione degli elementi suddetti nell’ipotesi in cui le attenuanti siano concesse. In conclusione, anche il secondo motivo è del tutto privo di fondatezza.

Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso va dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende. La tipologia dei reati esige l’oscuramento dei dati identificativi delle persone coinvolte per rispetto del Codice della

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2013

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