Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 29-01-2013) 04-04-2013, n. 15618

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 12 novembre 2010 il gip del Tribunale di Modena ha condannato P.L. alla pena di anni due e mesi otto di reclusione, ritenuta la diminuente del rito e la parziale incapacità di intendere e volere, per plurimi reati sessuali commessi nei confronti della cugina minorenne. Avverso tale pronuncia veniva presentato appello dall’imputato, che insisteva tra l’altro sul riconoscimento della totale incapacità di intendere e volere.

Il gravame era respinto dalla Corte d’appello di Bologna con sentenza del 29 settembre 2011 che, oltre a condividere la motivazione del giudice di primo grado, aggiungeva un’analisi della dinamica dei fatti per giungere a confermare l’esito della perizia d’ufficio nel senso della incapacità parziale di intendere e volere.

2. Contro la sentenza della Corte d’appello ha presentato ricorso il difensore dell’imputato, articolandolo su due motivi. Il primo motivo denuncia vizio di motivazione: essendo incongrue le conclusioni del perito d’ufficio, in quanto non coincidenti quelle della sua relazione scritta con le dichiarazioni da lui rese nella sua audizione all’udienza del 1 luglio 2009, ciò si ripercuote sulla motivazione di primo e di secondo grado, nel senso appunto di ulteriore contraddittorietà. Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 88 c.p. rispetto all’art. 85 c.p.: l’imputato è privo di una delle due capacità che devono essere compresenti ai fini dell’art. 85 c.p., cioè della capacità di volere; ciò risulta dalle stesse dichiarazioni del perito. In memoria difensiva depositata l’11 gennaio 2013 la difesa ha ulteriormente argomentato sempre sul profilo della imputabilità, allegando la relazione della sua consulente di parte cui aveva già fatto riferimento nel ricorso.

Motivi della decisione

3. Il ricorso non è accoglibile.

I due motivi si incentrano sull’accertamento della imputabilità solo parziale dell’imputato, prospettandolo sia come vizio motivazionale sia come violazione di legge. Sotto quest’ultimo riguardo in realtà si tratta di una censura fattuale (significativamente è stata allegata la relazione della consulente di parte) che di per sè non può essere vagliata in sede di legittimità. Quel che rileva, in effetti, in questa sede è la presenza e la conformazione della motivazione con cui il giudice di merito ha illustrato il percorso valutativo che lo ha condotto all’accertamento fattuale; intendendo quindi in maniera conservativa il secondo motivo, i due motivi vanno accorpati ed esaminati congiuntamente.

La censura si fonda su una pretesa contraddizione nell’operato del perito d’ufficio L., che apporterebbe contagio d’illogicità all’accertamento dei giudici di merito. Nella relazione scritta, il perito ha affermato che la situazione patologica dell’imputato ha ridotto "la sua capacità di volere e, pur in minor misura, di intendere, in misura più che apprezzabile e quasi prossima all’esclusione"; nell’audizione del 1 luglio 2009, il perito invece avrebbe riconosciuto l’assenza totale della capacità di volere.

Premesso che effettivamente le dichiarazioni del perito in udienza assumono delle forme di ambiguità che non appaiono presenti nell’elaborato scritto, deve peraltro darsi atto che ciò non è fatto decisivo tale da inficiare l’accertamento della seminfermità mentale nella motivazione della Corte d’appello. Infatti la corte non lo fonda soltanto sugli esiti della perizia d’ufficio – essendo evidentemente consapevole della loro contraddittorietà con le dichiarazioni in udienza del perito, visto il tenore del gravame – ma sana l’introduzione di elementi di ambiguità/incertezza così verificatasi valutando analiticamente i fatti nelle modalità poste in essere dall’imputato. Afferma appunto la corte che i fatti, incontestatamente ricostruiti dalle testimonianze non solo della parte offesa, ma altresì della di lei cugina, di due amici e di alcuni insegnanti sempre della vittima, nonchè dalle dichiarazioni dello stesso imputato, "nella loro realtà e dinamica attestano in modo oggettivo ed evidente che il P. pur conservava una apprezzabile capacità di rappresentarsi correttamente la realtà ed il grave disvalore morale e sociale delle condotte…ed ancor più che era certamente in grado di determinare ed orientare diversamente o comunque di contenere le proprie pulsioni sessuali"; e a ciò fa seguito una illustrazione degli eventi attenta ai dettagli, penetrante e logicamente lineare, del tutto idonea a concludere nel senso della non totale infermità mentale dell’imputato (motivazione, pagina 2 e inizio di pagina 3).

Da ciò consegue l’infondatezza del ricorso, che comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio ai sensi dell’art. 616 c.p.p..

La tipologia dei reati esige l’oscuramento dei dati identificativi delle persone coinvolte per rispetto del Codice della riservatezza nell’ipotesi di diffusione della sentenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2013
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