Cass. pen. Sez. III, Ord., (ud. 29-01-2013) 03-04-2013, n. 15374

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con ordinanza emessa in data 7 giugno 2012 il Tribunale di Bari ha respinto la richiesta di riesame di D.B.C. dell’ordinanza del gip dello stesso Tribunale del 16 maggio 2012 che lo aveva sottoposto a custodia cautelare in carcere nell’ambito di un procedimento a suo carico per i reati di cui all’art. 609 bis c.p. e all’art. 61 c.p., n. 2 e D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 75, comma 2. Il Tribunale ha ritenuto condivisibile la motivazione del primo giudice e comunque motivato specificamente sia sull’esistenza dei gravi indizi sia sull’esistenza delle esigenze cautelari.

2. Contro l’ordinanza ha presentato ricorso il difensore del D. B., per vizio motivazionale e violazione dell’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e c-bis). Il ricorrente ha sostenuto che la motivazione sia carente, non essendo state esposte le ragioni per cui dai dialoghi intercettati (peraltro non riportati) e dai servizi di osservazione ed appostamento si è ritenuto provato "il movente dell’azione delittuosa che collega l’odierno indagato al fatto".

Inoltre la motivazione sarebbe carente nella valutazione delle argomentazioni difensive (in particolare relative alla vendita di un’auto al prevenuto dal compagno della vittima), non avrebbe, con profonda illogicità, considerato criticamente l’ipotesi che altre persone avessero il movente attribuito al D.B. e avessero inviato i messaggi anonimi a lui ricondotti, nè valutata adeguatamente la questione del soprannome (il (OMISSIS)) pronunciato dai soggetto che accompagnava lo stupratore e, infine, non tenuto conto del ricordo da parte della vittima solo della voce e non del viso dell’aggressore.

Motivi della decisione

3. Il ricorso non merita accoglimento.

La sintesi appena esposta del suo contenuto dimostra trattarsi di una doglianza fattuale, nella quale il ricorrente qualifica e considera illogico quel che il giudice ha ritenuto semplicemente perchè non lo condivide. Il ricorrente, infatti, prospetta come vizio motivazionale ogni discrasia tra la propria ricostruzione del fatto sulla base degli elementi allo stato acquisiti e la ricostruzione che ne ha operato il Tribunale, realizzando la classica versione alternativa, che attenendo alla cognizione di fatto non può farsi valere in sede di legittimità, se non indirettamente a mezzo di specifici difetti logico-giuridici della motivazione che sostiene la versione adottata dal giudice di merito. Nel caso di specie, il Tribunale ha svolto un’ampia, analitica e mai contraddittoria motivazione per affermare la sussistenza di quello che ha definito una solida piattaforma indiziaria a carico del prevenuto (pagine 1-4); nè d’altronde gli elementi che il ricorrente adduce come non considerati possono di per sè "smontare" una simile motivazione, non essendo qualificabili, visto il contesto formato da plurimi dati in cui si inseriscono, come fatti decisivi: in un simile contesto, invero, di illustrazione così attenta e specifica da attingere già un livello superiore rispetto alla cognizione strettamente cautelare vige evidentemente il generale principio della motivazione implicita, per cui il giudicante non è tenuto a menzionare ogni elemento probatorio, salva appunto l’obbligatoria considerazione di fatti decisivi (cfr. Cass. sez. 6, 8 marzo 2012 n. 11189, Cass. sez. 4, 13 maggio 2011 n. 26660 e Cass. sez. 6, 4 maggio 2011 n. 20092): e i fatti invocati dal ricorrente non sono decisivi, bensì alternativi. Anche sotto il profilo delle esigenze cautelari e della proporzionalità della misura il Tribunale ha adeguatamente motivato, seppur con maggior sintesi, peraltro giustificata dal riferimento a tutto quanto aveva appena esposto in ordine alla conformazione della condotta criminosa: il pericolo di reiterazione viene infatti fondato sulle circostanze del reato, di odiosa violenza per odioso movente, tali quindi da indicare capacità delinquenziali e "personalità incline a commettere un crimine particolarmente offensivo", tenendo conto altresì il Tribunale delle "ulteriori intimidazioni" che hanno fatto seguito allo stupro commesso per vendetta nei confronti del fidanzato della vittima. Non sarebbe configurabile, pertanto, neppure la violazione dell’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e c-bis), anche qualora si potesse superare la reale natura fattuale, sopra evidenziata, del motivo.

Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso va dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende. La tipologia dei reati esige l’oscuramento dei dati identificativi delle persone coinvolte per rispetto del Codice della riservatezza.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2013

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