Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 29-01-2013) 03-04-2013, n. 15311 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

Con ordinanza del 13/07/2012, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro dispose la misura cautelare della custodia in carcere di R.C., indagata per il reato di corruzione in atti giudiziari in concorso, aggravata dalla L. n. 203 del 1991, art. 7.

Avverso tale provvedimento l’indagata propose istanza di riesame, ma il Tribunale di Catanzaro, con ordinanza del 31/07/2012, la respinse.

Ricorre per cassazione il difensore dell’indagata deducendo la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza. In particolare evidenzia che da nessuno elemento probatorio acquisito (dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, intercettazioni, interrogatori degli imputati) risulta che la R. abbia mai avuto contatti diretti con il perito nominato dalla Corte di appello. La stessa indagata ha ammesso di aver nominato il dottor A. come consulente e di aver detto allo stesso di essere disposta a versargli qualsiasi somma purchè riuscisse ad ottenere la libertà del marito F. A.. D’altronde i collaboratori parlano di contatti tra il dott. A. e il perito della Corte di appello – dottor Q. – ma nessuno ha indicato un ruolo specifico della R..

Nè vi è alcun elemento che possa dimostrare che le ingenti somme di danaro già versate e quelle promesse al dottor A. dall’indagata "fossero destinate ad avvicinare il perito nominato dalla Corte di appello". Per quanto riguarda la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 il difensore della ricorrente evidenzia la carenza di motivazione soprattutto in relazione al fatto che non si spiega perchè la condotta ascritta all’indagata possa essere configurato come aiuto a F.A. come presunto capo dell’omonima associazione ‘ndranghetista operante nell’agro sibaritide e non già più semplicemente perchè marito della R. (che tra l’altro non risulta essere un’associata). Una volta che cade l’aggravante di cui sopra la difesa del ricorrente ritiene ancor più difficile ritenere che la custodia in carcere possa essere ritenuta l’unica misura adeguata a soddisfare le ritenute esigenze cautelari.

Infine lamenta la carenza di motivazione sulla sussistenza delle esigenze cautelari, soprattutto in relazione all’incensuratezza della R. e al fatto che il marito F. è ormai divenuto un collaboratore di giustizia.

Il difensore della R. conclude, pertanto, per l’annullamento dell’impugnata ordinanza.

In data 29.01.2013 perveniva in Cancelleria uno scritto dell’indagata nella quale la R. affermava di avere interesse ad una pronuncia della Suprema Corte in merito al ricorso presentato, nonostante nel frattempo fosse stata rimessa in libertà, in quanto aveva intenzione di proporre una futura azione di riparazione per l’ingiusta detenzione subita.

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, perchè propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia – come nel caso di specie – compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4 sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5 sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2 sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

Inoltre il ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art. 591 c.p.p., lett. c) in relazione all’art. 581 c.p.p., lett. c), perchè le doglianze (sono le stesse affrontate dal Tribunale) sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Tribunale – richiamando anche l’ordinanza del G.I.P. – ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni dalle quali desume i gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagata per il reato di cui sopra (dichiarazioni dei collaboratori di giustizia;

accertamenti della P.G.; intercettazioni telefoniche; dichiarazioni dell’indagata). Ha infatti ben valutato gli elementi acquisiti e in particolare le dichiarazioni convergenti dei collaboratori di giustizia correttamente ritenute spontanee, credibili e utilizzabili (tra l’altro non vi è nel ricorso alcuna contestazione sulla credibilità dei collaboranti). Il Tribunale per arrivare a tale risultato ha in primo luogo valutato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in relazione alla loro personalità, alle loro condizioni socio-economiche e familiari, al loro passato, ai rapporti con i chiamati in correità e alla genesi remota e prossima della loro risoluzione alla confessione e all’accusa dei coautori e complici. In secondo luogo, il Tribunale ha affrontato, esattamente, il problema della verifica dell’intrinseca consistenza e delle caratteristiche delle loro dichiarazioni, alla luce dei criteri che l’esperienza giurisprudenziale ha individuato, come la precisione, la coerenza, la costanza, la spontaneità e così via.

Il Tribunale ha così – richiamando, anche, la condivisa motivazione del G.I.P. – ben evidenziato come i collaboratori di cui sopra siano assolutamente attendibili sotto il profilo intrinseco e nessuno di essi pare animato da intenti calunniosi. Il Tribunale ha, poi, rilevato – in linea con la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte citata (ad esempio: Sez. U, Sentenza n. 1653 del 21/10/1992 Ud. – dep. 22/02/1993 – Rv. 192470; Sez. 6, Sentenza n. 7627 del 31/01/1996 Ud. – dep. 30/07/1996 – Rv. 206588) -l’importante valenza dimostrativa delle chiamate di correo convergenti.

Il Tribunale da tutto quanto sopra esposto ricava, correttamente, anche l’attendibilità estrinseca delle dichiarazioni. Inoltre, il Tribunale in relazione all’utilizzabilità delle dichiarazioni autoaccusatorie della R. (c.d. confessione stragiudiziale) riportate in termini sovrapponibili da tutti i collaboratori (si veda pag. 16 dell’impugnata ordinanza) applica il principio più volte affermato da questa Suprema Corte secondo il quale non sono assimilabili a pure e semplici dichiarazioni de relato quelle con le quali si riferisca in ordine a fatti o circostanze attinenti la vita e le attività di un sodalizio criminoso, dei quali il dichiarante sia venuto a conoscenza nella sua qualità di aderente al medesimo sodalizio, soprattutto se, come nel caso di specie, in posizione di rilievo, trattandosi, in tal caso, di un patrimonio conoscitivo derivante da un flusso circolare di informazioni dello stesso genere di quello che si produce, di regola, in ogni organismo associativo, relativamente ai fatti di interesse comune. Pertanto, anche tali dichiarazioni possono assumere rilievo probatorio, a condizione che siano supportate da validi elementi di verifica in ordine al fatto che la notizia riferita costituisca, davvero, oggetto di patrimonio conoscitivo comune, derivante da un flusso circolare di informazioni attinenti a fatti di interesse comune per gli associati, in aggiunta ai normali riscontri richiesti per le propalazioni dei collaboratori di giustizia (Sez. 2, Sentenza n. 6134 del 20/01/2009 Ud. – dep. 12/02/2009 -Rv. 243425; Sez. 2, Sentenza n. 6134 del 20/01/2009 Ud. – dep. 12/02/2009 – Rv. 243425). Elementi di verifica sussistenti nel caso di specie come ben evidenziato dal Tribunale ad esempio nelle pagine da 17 a 22 . Inoltre il Tribunale, correttamente, rileva che le dichiarazioni accusatorie rese da imputati dello stesso reato ovvero di reato connesso o interprobatoriamente collegato, per costituire prova, possono anche riscontrarsi reciprocamente, a condizione che siano dotate ciascuna di intrinseca attendibilità, soggettiva ed oggetti va, e (in assenza di specifici elementi atti a far ragionevolmente sospettare accordi fraudolenti o reciproche suggestioni), risultino concordanti sul nucleo essenziale del narrato, rimanendo quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie che investano soltanto elementi circostanziali del fatto.

Inoltre, si deve rilevare che sia il Tribunale, sia il G.I.P., hanno – correttamente – valutato le dichiarazioni dei chiamanti in correità secondo il canone previsto dall’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 – richiamato dall’art. 273 c.p.p., comma 1 bis, – e hanno specificamente indicato le emergenze investigative che corroborano, ulteriormente, le dichiarazioni di cui sopra. L’accurata analisi del materiale probatorio effettuata dal Tribunale comprende anche quanto prodotto dalla difesa, le cui argomentazioni sono state valutate e respinte, con motivazione incensurabile. Significativa, a tal proposito, l’attenta analisi delle dichiarazioni della stessa indagata (che riferiva di un presunto risentimento – mai provato – nei suoi confronti dalla B.L. che aveva rilasciato dichiarazioni corroboranti quanto dichiarato dal collaboratore L. V.S.; dichiarazioni confermate anche dal collaboratore Li.Sa.; si vedano le pagine 14 e 15 dell’impugnata ordinanza) affrontate dal Tribunale con una esauriente, logica e quindi incensurabile motivazione (si vedano le pagine 15 e 16 dell’impugnato provvedimento).

Si deve infine rilevare che i collaboratori indicano con precisione il ruolo svolto dalla R. nella vicenda della quale ci occupiamo;

indagata che risulta essere pienamente consapevole della corruzione del Perito di ufficio che doveva far uscire il marito dal carcere attraverso una falsa attestazione sull’esistenza di una malattia incompatibile con la detenzione; cosi come la ricorrente era assolutamente consapevole che i suoi ingenti versamenti di danaro servivano proprio a tale scopo (si veda l’ampia e incensurabile motivazione del Tribunale che alle pagine da 2 a 15 evidenzia tutte le dichiarazioni dalle quali emerge quanto sopra; dichiarazioni corroborate da vari elementi di riscontro anch’essi analiticamente indicati come già sopra evidenziato). E’ evidente che sulla base di quanto sopra non ha alcuna importanza se la R. abbia incontrato personalmente il Perito di Ufficio, dottor Q., o lo abbia raggiunto solo attraverso il dottor A. (nominato dalla R. C.T., nella procedura di accertamento delle condizioni di salute del marito della ricorrente, e amico del dottor Q.) oppure attraverso altri appartenenti alla cosca mafiosa nella quale il marito ricopriva un ruolo di primissimo piano.

Il motivo di ricorso formulato con riferimento alla sussistenza dell’aggravante contestata è manifestamente infondato, in quanto il provvedimento impugnato prende in considerazione espressamente l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 per affermarne la sussistenza (pagine 23 e 24; la donna non ha agito solo per far uscire di prigione il marito, ma anche per dissuaderlo a collaborare con la giustizia; inoltre per far ciò si appoggiava costantemente ad altri esponenti dell’associazione ‘ndranghetista capeggiata dal marito sia per contattare i medici sia per approvvigionarsi del danaro necessario per corrompere), con valutazioni che, in quanto corrette dal punto di vista logico e giuridico, non possono essere censurate in questa sede di legittimità. Dall’accertata sussistenza dei gravi indizi del reato di cui sopra (artt. 110, 319 ter e 321 c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7) a carico della ricorrente, il Tribunale ha ritenuto giustamente sussistente la presunzione di pericolosità di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3; presunzione non superata, nel caso di specie. In proposito questa Suprema Corte ha più volte affermato che la presunzione di pericolosità, prevista dall’art. 275 c.p.p., comma 3, per chi è raggiunto da gravi indizi di colpevolezza in ordine a un reato di matrice mafiosa, può essere vinta solo attraverso l’acquisizione di elementi dai quali emerga che in concreto non sussistono le dette esigenze (Sez. 6, Sentenza n. 23788 del 27/03/2003 Cc. -dep. 29/05/2003 – Rv. 226041). Acquisizione esclusa, come si è già evidenziato, dal Tribunale con motivazione incensurabile in questa sede di legittimità.

A fronte di ciò la ricorrente contrappone solo generiche contestazioni in fatto. In proposito questa Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante:

Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).

Per quanto riguarda, poi, la doglianza relativa alla motivazione sulla sussistenza delle esigenze cautelari – a prescindere da quanto già rilevato in relazione alla sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 – si deve rilevare che non vi è l’attualità dell’interesse della ricorrente essendo stata rimessa in libertà; e ciò nonostante che l’indagata abbia rappresentato di avere interesse ad una pronuncia della Suprema Corte in merito al ricorso presentato in quanto aveva intenzione di proporre una futura azione di riparazione per l’ingiusta detenzione subita. Com’è noto, invero, la pronuncia inoppugnabile di annullamento della misura cautelare costituisce una decisione idonea a fondare il diritto dell’indagato alla riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 c.p.p.), ancorchè soltanto con riferimento alla custodia cautelare, carceraria o domiciliare (Sez. U, n. 22 del 12/10/1993, dep. 20/12/1993, imp. Corso, Rv. 195357). Il raccordo tra interesse all’impugnazione e diritto alla riparazione per ingiusta detenzione (art. 314 c.p.p.) opera limitatamente alla deduzione dell’insussistenza delle condizioni genetiche o speciali previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., con esclusione delle esigenze cautelari (Sez. U, Sentenza n. 21 del 13/07/1998 Cc. – dep. 24/09/1998 – Rv.

211194; Sez. U, Sentenza n. 7 del 25/06/1997 Cc. – dep. 18/07/1997 – Rv. 208165; Sez. U, Sentenza n. 26795 del 28/03/2006 Cc. – dep. 28/07/2006 – Rv. 234268; Sez. U, Sentenza n. 7931 del 16/12/2010 Cc. – dep. 01/03/2011 – Rv. 249002; Sez. 2, Sentenza n. 31556 del 18/05/2012 Cc. – dep. 03/08/2012 – Rv. 253522).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonchè -ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2013

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