Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-07-2012, n. 13498

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Svolgimento del processo
La Commissione tributaria della regione Lombardia con sentenza 12.10.2009 n. 81 ha rigettato l’appello proposto da XXX s.r.l. e confermato la decisione di prime cure, dichiarando legittimo l’avviso in rettifica emesso dall’Ufficio doganale di Milano con il quale venivano liquidati i dazi all’importazione di prodotti tessili acquistati da imprese residenti nello Stato della Giamaica, essendo risultata la merce priva del requisito di origine preferenziale.
In particolare i Giudici territoriali rilevavano che a seguito di indagine condotta dall’Ufficio europeo pel lotta antifrode (OLAF) era emerso che i certificati EUR-1 attestanti il requisito di origine della merce che, ai sensi dell’accordo di parternariato del 23.6.2000 sottoscritto a Cotonou tra la Comunità europea ed i Paesi APC (Africa-Caraibi-Pacifico), beneficiava del trattamento preferenziale della esenzione totale del dazio alla importazione nel territorio doganale della UE, erano autentici, in quanto emessi regolarmente dalle autorità doganali giamaicane, ma errati quanto alla indicazione dello status di origine dei prodotti avendo le ditte esportatrici dichiarato falsamente che i capi di abbigliamento erano stati fabbricati in Giamaica con filati di provenienza cinese, mentre in realtà trattavasi di prodotti finiti fabbricati in Cina. In esito a tale accertamento le autorità giamaicane avevano disposto l’annullamento di tutti i certificati EUR-1 rilasciati nel periodo 1.1.2002-31.12.2004.
I Giudici di merito rigettavano i motivi di gravame in quanto: 1) i certificati EUR- risultavano non convalidati dalle autorità doganali giamaicane e pertanto tali documenti non potevano costituire prova della origine della merce nel procedimento di revisione doganale dello Stato membro; 2) il potere di invalidazione dei certificati era stato legittimamente esercitato derivando tale effetto dalle dichiarazioni provenienti dalle autorità doganali dello Stato esportatore che li aveva rilasciati: 3) non ricorrevano le tre condizioni previste dall’art. 220 c.d.c., par. 2, lett. b) a tutela del legittimo affidamento, in quanto, in difetto di prova della diligenza impiegata dall’importatore per conoscere l’affidabilità del soggetto con cui aveva intrattenuto rapporti economici, ricadeva sullo stesso i rischi connessi alla accertata irregolarità dei documenti presentati alla Dogana.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società affidato a cinque motivi illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..
Ha resistito con controricorso e memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c. la Agenzia delle Dogane.
Motivi della decisione
1. La sentenza di appello ha rigettato il gravame della società alla stregua delle seguenti rationes decidendi:
– i certificati EUR-1 sono stati privati di efficacia probatoria nei confronti dello Stato membro, non essendo stati convalidati dalle autorità giamaicani che li avevano rilasciati;
– l’annullamento di tali certificati consegue alla dichiarazione delle autorità emittenti che hanno affermato la autenticità dei documenti tuttavia da ritenersi falsi nel contenuto ideologico circa la origine preferenziale della merce;
– non sussiste la buona fede dell’importatore in quanto la società non ha dato prova di essersi attivata per conoscere l’affidabilità del soggetto con cui ha intrattenuto rapporti commerciali.
2. Esame e valutazione dei motivi di ricorso.
1) Con il primo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 9 paragr. 1 e 2 reg. CE n. 1073/99 del Parlamento e del Consiglio in data 25.5.1999, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
La ricorrente sostiene che il Giudice di merito avrebbe illegittimamente ammesso come prova, posta a fondamento della decisione, il verbale delle indagini svolte dall’OLAF nella missione del 2005, mentre la norma comunitaria asseritamente violata attribuisce tale efficacia probatoria esclusivamente al rapporto finale ("al termine della indagine l’Ufficio redige sotto l’autorità del direttore una relazione finale…Le relazioni cosi elaborate costituiscono elementi di prova… "), come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui "La relazione elaborata dall’OLAF ha piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello Stato membro così come dispone il reg. CE 1973/99 e dunque gli elementi raccolti in quei verbali e fatti propri nell’avviso di accertamento sono del tutto idonei a giustificare la pretesa di recupero" (cfr. Corte cass. 5 sez. ord. 2.3.2009 n. 4997;
id. 24.9.2008 n. 23985; id. 28.5.2008 n. 13890).
Il motivo è infondato.
Occorre premettere che "le norme relative all’onere della prova ed ai mezzi probatori del carattere originario delle merci rientrano nel diritto nazionale solo in quanto non derivino dal diritto comunitario" (Corte giustizia 14.5.1996, Faroe Seafoood, cit., punto 60).
In applicazione del principio indicato al certificato EUR-1 viene riconosciuto dall’ordinamento comunitario uno speciale regime probatorio che si impone agli Stati membri: tale certificato, infatti, costituisce l’unico documento attraverso il quale può essere dimostrata la origine della merce, con la conseguenza che all’importatore che intenda avvalersi delle agevolazioni tariffarie concesse in base ad un regime preferenziale di origine, non è dato provare aliunde il presupposto di fatto cui è condizionata la applicazione del beneficio fiscale. Tuttavia tale efficacia probatoria non è assoluta in quanto le autorità doganali dello Stato in cui la merce viene immessa al consumo possono verificare a posteriori (id est: successivamente al rilascio del predetto documento) la genuinità del documento e la esattezza della origine indicata nel certificato EUR-1 (cfr. Corte giustizia 17.7.1997, Pascoal & Filhos, cit., punto 30; iti. 9.3.2006 Beemsterboer, cit, punti 32-33) venendo il documento ad essere privato di efficacia probatoria, in caso di accertamento della falsa od inesatta rappresentazione dei fatti in esso indicati.
Nella specifica materia doganale all’esame del Collegio (regime preferenziale di origine) non è dato rinvenire altra norma comunitaria volta ad attribuire efficacia di prova legale ad un documento emesso dalle autorità doganali dello Stato esportatore od importatore, essendo invece riconosciuta piena rilevanza probatoria, nell’ambito dell’ordinamento comunitario, alla relazione redatta dall’OLAF all’esito della indagine, come previsto dall’art. 9, comma 2 del reg. CE n. 1073/1999 del Parlamento e del Consiglio in data 25.5.1999 (relativo alle "indagini svolte dall’Ufficio per la lotta antifrode (OLAF) che considerare equipollenti la relazione redatta dall’OLAF al termine delle indagini e le relazioni redatte dagli ispettori amministrativi dello Stato membro, tanto ai fini delle "regole di valutazione" applicabili quanto ai fini del "valore" riconoscibile secondo a disciplina legislativa dello Stato membro.
Ne consegue che alla relazione OLAF può essere attribuita efficacia probatoria privilegiata limitatamente ai "fatti accertati" ex art. 9, comma 1 reg. 1073/99 (in quanto accaduti alla presenza degli ispettori).
Se la norma del regolamento comunitario si riferisce espressamente alla "relazione", tuttavia la stessa non pone alcuna limitazione in ordine alla utilizzabilità nei procedimenti amministrativi e giudiziali dello Stato membro anche di altre fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dall’OLAF, come è dato evincere dall’art. 9, comma 3 e dall’art. 10, comma 1 del medesimo regolamento comunitario i quali prevedono la trasmissione alle autorità degli Stati membri interessati, rispettivamente, di "ogni documento utile" acquisito e la comunicazione di "qualsiasi informazione" ottenuta nel corso delle indagini.
Ne consegue che, alla stregua della normativa comunitaria e nazionale applicabile al caso di specie, non sono ravvisabili divieti od impedimenti all’utilizzo da parte della CTR della Lombardia -ai fini della selezione e valutazione delle emergenze istruttorie compiute nel giudizio di merito – anche delle risultanze del "verbale" delle operazioni della missione OLAF redatto in data 23.3.2005, come peraltro riconosciuto anche nei precedenti di questa Corte segnalati nel ricorso, non dubitandosi in tali sentenze che, se la relazione elaborata dall’OLAF ha pieno valore probatorio, anche "gli elementi raccolti in quei verbali e fatti propri nell’avviso ili accertamento" sono idonei a sostenere la pretesa tributaria (cfr.: Corte cass. n. 23985/2008. in motivazione).
Va dunque esente dalla prospettata censura la sentenza della CTR lombarda che ha posto a fondamento della propria decisione gli accertamenti risultanti dal verbale redatto dall’OLAF in data 23.3.2005.
2) Con il secondo motivo la società censura la sentenza sotto il profilo del vizio di omessa o insufficiente motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), svolgendo le medesime critiche in diritto già oggetto della esposizione del precedente primo motivo.
Il motivo si palesa all’evidenza inammissibile in considerazione tanto della incompatibilità logica delle censure rivolte contro la stessa statuizione della sentenza impugnata, rispettivamente, per vizio inerente "error juris" e vizio inerente "error facti" il primo potendo configurarsi soltanto se rimane escluso il secondo (cfr.
Corte cass. 3 sez. 7.5.2(107 n. 10295; id. sez. lav. 16.7.2010 n. 16698; id. 1 sez. 23.9.2011 n. 19443), quanto in considerazione della mancanza di autosufficienza, qualora la censura motivazionale debba intendersi riferita alla inesatta valutazione delle emergenze istruttorie in relazione alla ipotizzata divergenza delle conclusioni rassegnate dall’OLAF nella relazione finale rispetto a dati acquisiti nel corso della missione e riportati nei verbali delle operazioni.
E’ appena il caso di osservare che, in quest’ultima ipotesi, la società ricorrente avrebbe dovuto supportare la censura formulata in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), con la specifica indicazione della prova che, qualora non fosse stata trascurata od erroneamente valutata dalla Commissione regionale, avrebbe – secondo un criterio di certezzsa probabilistica e non di mera possibilità – consentito di pervenire ad una diversa decisione, favorevole alla Amministrazione, ed avrebbe altresì dovuto provvedere a riprodurre nel ricorso, onde integrare il requisito della autosufficienza ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), il contenuto della indicata prova (non avendo accesso diretto la Corte agli atti e documenti del giudizio di merito, in relazione al tipo di vizi denunciati) nonchè ad evidenziare le modalità attraverso le quali il documento era stato ritualmente prodotto in giudizio e la sede (fascicolo di parte di primo o secondo grado, fascicolo di ufficio) in cui lo stesso era rinvenibile (cfr. sull’onere di integrale trascrizione del documento:
Corte cass. SU 24.9.2010 n. 20159; id. 6 sez. ord. 30.7.2010 n. 17915; id. 3 sez. 4.9.2008 n. 22303; id. 3 sez. 31.5.2006 n. 12984;
id. 1 sez. 24.3.2006 n. 6679; id. sez. lav. 21.10.2003 n. 15751; id.
sez. lav. 12.6.2002 n. 8388. Per quanto concerne l’onere di specificazione delle modalità di acquisizione processuale: cfr.
Corte cass. sez. lav. 7.2.2011 n. 2966; id. 1 sez. 13.11.2009 n. 24178; id. 3 sez. ord. 4.9.2008 n. 22303; id. 3 sez- 25.5.2007 n. 12239).
3) Con il terzo motivo la società censura la sentenza per vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo omesso i Giudici di merito di valutare il documento costituito dalla nota 26.4.2007 del Dipartimento delle Dogane giamaicano (depositato in allegato con l’atto di appello) dal quale emergeva che tale organismo non aveva mai sottoscritto alcun rapporto dell’OLAF, con la conseguenza che la CTR non avrebbe potuto porre a fondamento del "decisum" la invalidità dei certificati EUR-1 che, secondo quanto emergeva dal verbale di indagine redatto dall’OLAF, risultava essere stata, contraddittoriamente, disposta dal medesimo Dipartimento delle Dogane giamaicano.
Il motivo difetta del requisito di specificità ed è comunque privo di autosufficienza.
Non è dato infatti comprendere quale nesso sussista tra la mancata sottoscrizione del rapporto OLAF (nota 26.4.2007 del Dip. Dogane giamaicano) e la inefficacia probatoria dei certificati EUR-1 (dichiarazione delle autorità doganali giamaicane).
La sentenza di appello ha infatti tratto la conclusione della inidoneità probatoria dei certificati EUR-1 ad attestare la origine preferenziale della merce, dallo "studio di una missione comunitaria" (OLAF) da cui emergeva che "le autorità giamaicane" avevano dichiarato che i certificati "erano autentici ma non potevano confermare lo status di origine preferenziale delle merci. Tale dichiarazione proveniente dalle stesse autorità che avevano rilasciato i certificati EUR-1 prescinde dalla necessaria preventiva sottoscrizione del rapporto conclusivo dell’OLAF, e pur potendo dare luogo ad eventuale formale revoca del certificato, prescinde anche da tale provvedimento essendo semplicemente diretta a rappresentare la assoluta ed insuperabile inefficacia probatoria di tali documenti in ordine alla dimostrazione dell’origine preferenziale della merce: il che è a dire che la merce indicata nel certificato – valido quanto a requisiti formali e di legittimazione – potrebbe risultare in tutto od in parte effettivamente fabbricata nel Paese esportatore beneficiario della esenzione, ma potrebbe anche essere priva di tale caratteristica in quanto fabbricata aliunde e meramente esportata dalle ditte giamaicana nel territorio doganale europeo. Tale dichiarazione, provenendo dalle stesse autorità doganali del Paese esportatore, risponde al principio di diritto comunitario secondo cui "il controllo a posteriori dei certificati EUR-1 rilasciati dallo Stato di esportazione, le conclusioni alle quali sono pervenute le autorità di quest’ultimo, si impongono alle autorità dello Stato membro di importazione. Infatti la cooperazione sancita da un protocollo relativo alla origine dei prodotti può funzionare soltanto se lo Stato di importazione accetta le valutazioni legalmente effettuate al riguardo dallo Stato di esportane (sentenze 17 luglio 1997 , causa C-97/95, Pascoal & Filhos, punto 33;……25 febbraio 2010, causa C-386/08 Brita, punto 62)" (cfr. Corte giustizia UE 15.12.2011, causa C-409/10, Hauptzollamt Hambur-Aiasia Knits, punto 29) ed è pienamente conforme al disposto dell’art. 32, comma 5 del Protocollo 1 dell’accordo internazionale sottoscritto a Cotonou in data 23.6.2000 secondo cui i risultati del contratto effettuato dalle autorità doganali del Paese di esportazione (anche a seguito di inchiesta condotta in cooperazione con la Comunità europea) "devono essere comunicati al più presto alle autorità doganali che lo hanno richiesto, indicando chiaramente se i documenti sono autentici, se i prodotti in questione possono essere considerati originari degli Stati ACP……e se soddisfano gli altri requisiti del presente Protocollo" (cfr. Corte giustizia 15.12.2011, C-409/10, che riporta il testo del Protocollo): risultando dunque nettamente distinti gli aspetti concernenti la "autenticità" e la "capacità rappresentativa" del documento.
Tanto premesso, dalla esposizione del motivo non e dato tuttavia chiarire se la critica sia rivolta alla mancata valutazione di risultanze probatorie contrastanti (verbale OLAF; nota delle autorità doganali giamaicane) ovvero, piuttosto, alla inammissibilità od invalidità del mezzo di prova (ma in quest’ultimo caso il parametro di legittimità invocato risulterebbe errato, venendo ad essere denunciato il diverso vizio di violazione delle norme di diritto comunitario e della interpretazione che delle stesse è fornita dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo in materia di regime doganale della merce di origine preferenziale) costituito dalla dichiarazione resa dalle autorità giamaicane in ordine alla ignota origine delle merce indicata nei certificati EUR- 1, come sembrerebbe ipotizzare il "quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c." formulato in calce al motivo (peraltro non più richiesto a seguito della abrogazione della norma processuale disposta dalla L. n. 69 del 2009 nella disciplina della quale ricade la presente causa, essendo stata pubblicata la decisione impugnata dopo il 4 luglio 2009).
La incertezza espositiva si traduce nella mancanza del requisito di specificità con la conseguenza che il motivo va incontro alla pronuncia di inammissibilità, potendo rilevarsi comunque, "per obiter", anche la manifesta infondatezza della censura alla stregua della giurisprudenza comunitaria richiamata e dell’inequivoco tenore della indicata disposizione dell’accoro di Cotonou che prevede la comunicazione dei "risultati dei controlli" eseguiti dalle autorità doganale dello Stato esportatore, senza che vengano prescritte specifiche formalità – tanto meno di natura provvedimentale – con le quali debbono essere esternati tali risultati, bene potendo dette autorità limitarsi a comunicare – come nella specie si è verificato – che i certificati, se pure genuini quanto alla provenienza e formazione del documento, non potevano tuttavia dimostrare la effettiva origine dei prodotti che doveva, pertanto, ritenersi ignota. Tanto alla stregua del principio di diritto che il Collegio intende ribadire secondo cui nè il rifiuto del beneficio di applicazione di tariffe preferenziali, ne il recupero "a posteriori" dei dazi esentati o ridotti, sono subordinati all’annullamento o alla revoca del documento (certificato EUR-1) da parte delle autorità del Paese emittente, in quanto l’adozione delle misure recuperatorie del dazio è legittimata anche in base alle sole risultanze delle indagini effettuate dagli organi ispettivi comunitari, secondo il disposto dell’art. 26 del predetto Regolamento CEE n. 2913 del 1992 e dell’art. 94, par. 5. del Regolamento CEE n. 2454 del 1993 (cfr.
Corte cass. 5 sez. 4.4.2012 n. 5400).
4) Con il quarto motivo la società denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 220 c.d.c., paragr. 2, lett. b), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo ritenuto i Giudici di merito erroneamente insussistente la buona fede della ditta importatrice sostenendo che non era stata data prova della dovuta diligenza. La società allega una serie di circostanze in fatto indicate con i motivi di gravame (omessa applicazione di sanzioni da parte di molti uffici doganali: riconoscimento di regolarità i numerosi certificati EUR-1 in seguito a ripetuti precedenti controlli a posteriori: idoneità delle strutture organizzative e produttive delle fabbriche giamaicane; corrispondenza dei prezzi praticati dalle ditta giamaicane con quelli relativi a medesimi prodotti di provenienza di altri Paesi ACP: particolare insidia e professionalità con cui era stata attuata la frode: mancanza di segnalazioni della Commissione UH pubblicate sul GUCE) dalle quali risulterebbe al contrario la impossibilità per la ditta importatrice di rilevare le inesattezze contenute nei certificati EUR-1 nonchè la buona fede, non essendo ravvisabile alcuna negligenza, e censura la statuizione della sentenza di appello, contrastante con gli indici sintomatici da assumere ai fini della valutazione della buone fede e diligenza ed indicati elle giurisprudenza comunitaria e di questa Corte, laddove la CTR imputa alla ditta importatrice la mancanza di diligenza per non aver dimostrato di essersi attivata per conoscere l’affidabilità della ditte giamaicane con cui aveva concluso accordi commerciali.
La CTR ha motivato sostenendo che l’importatore sopporta il rischio economico connesso al recupero del dazio anche quando ciò è dipeso dalla inesatta indicazione della origine della merce dichiarata dall’esportatore all’atto del rilascio del certificato EUR-1, ed in tal caso l’importatore per dimostrare la buona fede deve fornire la propria di aver adottato tutti gli accorgimenti possibili per assicurarsi della effettiva origine della merce, non ultimo verificare la affidabilità della ditta esportatrice.
L’art. 220, paragr. 2. punto b) del reg. CEE n. 2913/92 (nel testo modificato dal reg. CE n. 2700/2000 applicabile ratione temporis) dispone che:
a-) non si procede a contabilizzazione a posteriori quando l’importo del dazio non è stato liquidato "per un errore della autorità doganale, che non poteva ragionevolmente esser scoperto dal debitore, avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione alla dogana".
b-) l’ipotesi predetta ricorre quando la posizione preferenziale di una merce è stabilita in base ad un sistema di cooperazione amministrativa che coinvolge le autorità di un Paese terzo: in tal caso il rilascio da parte di queste ultime di un certificato, ove esso si riveli inesatto, costituisce un errore che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore purchè questi abbia agito in buona fede;
c-) in deroga alla disposizione precedente, il rilascio di un certificato irregolare "non costituisce tuttavia un errore in tal senso se il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore";
d-) salvo che risultasse provato che le autorità che hanno rilasciato il certificato "erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate" che le merci non avevano i requisiti per beneficiare del trattamento preferenziale;
e-) e sempre che risulti dimostrata la "buone fede" del debitore, il quale è tenuto a fornire la prova di aver agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale" (la prova della buone fede rimane tuttavia, esclusa dalla pubblicazione sulla CUCE di avvisi che segnalino fondati dubbi sulla corretta applicazione del regime preferenziale da parte del Paese beneficiario).
Premesso che la prova del carattere originario dei prodotti è fornita mediante il certificato EUR-1 e la procedura di controllo è volta essenzialmente a verificare l’esattezza dell’origine indicata nei certificati precedentemente rilasciati (Corte giustizia 17.7.1997 in causa C-97/95 Pascoal & Filhos LD, punto 30):
– spetta alla Autorità doganale che intenda recuperare a posteriori il dazio fornire elementi atti ad invalidare la prova documentale in questione, ovvero dimostrare che "Il rilascio dei certificati inesatti è imputabile alla inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore" (Corte giustizia 9.3.2006 Beemsterboer in causa C- 293/04, punto 39), salvo che la prova di tale imputabilità non possa essere data per negligenza od impedimento opposto dalla stessa ditta esportatrice – spetterà in tal caso all’interessato fornire la prova contraria della esattezza delle indicazioni fornite dall’esportatore al momento della richiesta di rilascio del certificato ovvero la prova che le autorità che hanno emesso il certificato inesatto e successivamente invalidato, al tempo del rilascio dello stesso erano informate o avrebbero dovuto essere informate che la dichiarazione della ditta esportatrice era inveritiera in quanto le merci non avevano i requisiti per beneficiare del trattamento preferenziale.
Non può procedersi, pertanto, a controllo a posteriori se l’operatore economico interessato ha fornito la prova dell’esistenza dell’errore colpevole commesso dalle autorità che hanno emesso il certificato, ovvero la prova della violazione di obblighi di controllo previsti da norme che vincolano tali autorità, sempre che venga dimostrata altresì la buona fede della impresa importatrice (Corte giustizia 9.3.2006 Beemsterboer in causa C-293/04, punto 45 e 46).
Dalla disamina della disciplina normativa comunitaria risulta, pertanto che l’elemento della "buona fede" del debitore (del quale deve essere data prova mediante la condotta diligente prestata al fine di verificare la esattezza della indicazione di origine dei prodotti) si aggiunge a quello dell’"errore che non poteva ragionevolmente essere scoperto" che deve essere imputabile a "comportamento attivo" della autorità competente. Nell’ambito di un sistema di cooperazione che prevede anche l’intervento di un Paese terzo, sussiste la condizione predetta (errore imputabile alla autorità competente che non può essere ragionevolmente scoperto) quando il vizio dell’atto sia riconducibile ad illegittimità od errori propri della autorità emittente, mentre viene meno nel caso in cui la inesattezza del certificato, quanto alla indicazione di origine preferenziale della merce, sia attribuibile alle false od errate dichiarazioni dell’esportatore: in tal caso il requisito della buona fede appare del tutto irrilevante non sottraendo comunque l’importatore dal recupero del dazio nel caso di controllo a posteriori in quanto "la Comunità non tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini" e inoltre "nel calcolare i vantaggi realizzabili mediante il commerci di prodotti che possono fruire di preferenze tariffarie, l’operatore economico accorto e al corrente della normativa vigente deve valutare i rischi inerenti al mercato che gli interessa ed accettarli come faceti parie della categoria dei normali inconvenienti della attività commerciale" con la conseguenza che "la imposizione all’importatore in buona fede del pagamento dei dazi doganali dovuti per la importazione di una merce rispetto alla quale l’esportatore ha commesso un illecito doganale, cui l’importatore non ha partecipato a nessun titolo, non è in contrasto con i principi del diritto di cui la Corte garantisce il rispetto (cfr Corte giustizia 17.7.1997 causa C-7/95 Pascoal & Filhos punti 59-61).
Ne consegue che l’esame del motivo in questione deve necessariamente essere rimandato all’esito della eventuale valutazione di fondatezza del quinto motivo, con la quale la società introduce per l’appunto la questione della imputabilità della inesattezza del certificato EUR-1 al fatto negligente (conoscibilità) o addirittura alla collusione (conoscenza) della autorità doganale giamaicane nella frode ordita dalle imprese esportatrici.
5) Con il quinto motivo la società denuncia il vizio di omessa insufficiente motivazione (360 c.p.c., comma 1, n. 5) in punto di accertamento delle responsabilità delle autorità doganali giamaicane.
La società ricorrente sostiene che tali autorità erano "certamente" a conoscenza della anomalia tra i dati statistici delle esportazioni cinesi e quelli delle importazioni giamaicane, dati emersi a seguito della missione OLAF, ed i Giudici di merito avrebbero, pertanto, dovuto ritenere integrata la condizione posta dall’art. 220 c.d.c., par. 2, lett. b, per riconoscere l’errore attivo imputabile alle autorità che avevano rilasciati i certificati EUR-1 in quanto le stesse, al tempo in cui avevano emesso i certificati, "erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale.
Il motivo è inammissibile per difetto dell’elemento di decisività delle prove che i Giudici di merito avrebbero obliterato.
Le prove documentali indicate dalla ricorrente, a sostegno del dedotto vizio motivazionale, sono le seguenti:
– lettera inviata in data 13.9.2004 dal direttore dell’OLAF al rappresentante dello Stato della Giamaica presso la Comunità europea nella quale si rendeva noto che l’OLAF stava coordinando le inchieste ed investigazioni in relazione a "sospette irregolarità circa le importazioni di prodotti tessili" e chiedeva la cooperazione delle autorità giamaicane, cui seguiva nell’ottobre 2005 la risposta di detta autorità che comunicavano la piena collaborazione secondo quanto previsto dalle disposizioni dell’Accordo di Cotonou. La prova si palesa irrilevante in quanto non consente di verificare: a) se e quali elementi circostanziali erano stati resi noti dall’OLAF con la nota predetta (non avendo la ricorrente provveduto a trascrivere il contenuto della lettera) e se pertanto gli stessi consentivano di affermare la conoscenza da parte delle autorità giamaicane delle irregolarità contenute nei certificati EUR-1. Inoltre, in difetto di qualsiasi indicazione sulla data di rilascio dei certificati EUR-1 utilizzati dalla società ricorrente, non è dato verificare l’elemento chiave per imputare alle autorità doganali giamaicane il difetto di diligenza previsto dall’art. 220 c.d.c., e cioè se la conoscenza/conoscibilità della inesatta origine della merce sussisteva al momento della emissione dei certificati, venendo meno la imputabilità nel caso in cui la conoscenza della irregolarità fosse soltanto sopravvenuta al rilascio dei documenti – verbale 2.2.2006 relativo a due riunioni tenutesi il 18 e 19 gennaio 2006 in Giamaica tra i funzionari del Trade Board e del Ministero degli Esteri "da cui si evince che tali autorità erano consapevoli di non aver mai posto in essere un sistema di controlli adeguato sui prodotti tessili" (ricorso pag. 39). Il motivo formulato in relazione a tale prova si palesa inammissibile, in difetto di trascrizione del contenuto del documento, e va incontro alla stessa obiezione circa la omessa indicazione degli elementi indispensabili a verificare la rilevanza cronologica della eventuale conoscenza/conoscibilità della frode acquisita dalle autorità giamaicane – "affidavit" di M. O. -che aveva lavorato alle dipendenze di diverse società esportatrici giamaicane per oltre venti anni (interamente trascritto pag. 18-21): deposizione resa a verbale nella fase anteriore alla introduzione del promovendo giudizio avanti il Tribunale di quel Paese. Dalla dichiarazione si evince che il deponente aveva lavorato presso alcune ditte esportatrici giamaicane, ma non e dato verificare se la società ricorrente abbia o meno intrattenuto i rapporti commerciali oggetto della presenta controversia con alcuna di tali ditte. Non può ritenersi decisiva la affermazione secondo cui i funzionari delle dogane giamaicane "molto raramente hanno esaminato la rimozione dei sigilli dai container importati dalle Aziende giamaicane ma dalla decisione della Commissione EH 3.11.2008, punto 29. sembra piuttosto che il deponente intendesse sostenere che i funzionari doganali non rimuovevano i sigilli dei container per eseguire il controllo della merce – e non che i sigilli dei container fossero alterati, e di conseguenza non hanno quasi mai eseguito ispezioni di qualsivoglia natura in merito al contenuto degli stessi………le richieste di verifica relative al la autenticità dei certificati EUR-1 avanzate dai rispetti dipartimenti doganali della UE non hanno mai indotto….. condurre verifiche e controlli":
la dichiarazione si presenta, infatti, del tutto generica ed imprecisa anche sotto l’aspetto cronologico ed inoltre non vale a provare la negligenza imputabile alle autorità giamaicane per omessa esecuzione delle ispezioni doganali sulla merce, tenuto conto che tale negligenza potrebbe configurarsi esclusivamente nel caso di violazione di specifiche disposizioni che vincolassero a tale tipo di accertamento, mentre l’art. 32 del Protocollo 1 annesso all’Accordo di Cotonou rimetteva alla scelta discrezionale delle autorità del Paese di esportazione le modalità ed il tipo di controlli doganali da eseguire, non imponendo alcun obbligo di verifica tipizzato. Non appaiono assistite dal requisito di decisività della prova neppure le dichiarazioni concernenti il rilascio di certificati EUR-1 da parte della autorità giamaicane anche dopo la verifica dell’ottobre 2004 che aveva portato – sembra – al sequestro e poi al rilascio di merce (maglioni finiti anzichè filati da lavorazione) relativa a spedizioni non conformi alle nonnative doganali a favore della ditta Antonio Knitters. La circostanza priva di ulteriori elementi chiarificatori (dalla decisione della Commissione UE citata, risulterebbe che la merce fosse destinata alla zona franca e non alla esportazione verso i Paesi UE) ove anche idonea in astratto a dimostrare la intervenuta conoscenza/conoscibilità della frode da parte della autorità giamaicane, non consente tuttavia di verificare se tale consapevolezza potesse ritenersi acquisita anche al momento del rilascio dei certificati EUR-1 utilizzali dalla società ricorrente, difettando quindi il requisito di decisività della prova.
Il motivo va incontro, pertanto alla pronuncia di inammissibilità per difetto del requisito di decisività delle prove, rimanendo assorbito in quanto privo di rilevanza, l’esame della fondatezza del quarto motivo concernente la verifica della "buona fede" dell’importatore ex se irrilevante in difetto dell’accertamento della consapevolezza o conoscibilità della frode da parte della autorità giamaicane al tempo del rilascio dei certificati EUR-1 in contestazione.
3. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del società contribuente alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte : ‘ – rigetta il ricorso e condanna la società contribuente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 2.500,00 per onorari oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012

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