Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-07-2012, n. 13497

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Svolgimento del processo
La Commissione tributaria della regione Lombardia con sentenza 27.5.2009 n. 49 ha rigettato l’appello proposto dall’Ufficio e confermato la sentenza di prime cure, annullando il provvedimento irrogativo della sanzione pecuniaria emesso nei confronti di XXXs.r.L ai sensi del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303, comma 3, TULD, in quanto era stata accertata all’esito di indagine svolta dall’Ufficio della Comunità Europea per la lotta antifrode (OLAF) la ignota origine della merce importata dalla Giamaica dalla società (verosimilmente di manifattura cinese) che aveva, pertanto, indebitamente fruito della esenzione dal dazio in applicazione del regime di preferenza di origine previsto nell’accordo internazionale stipulato il 23.6.2000 a Cotonou tra la UE ed i Paesi APC. I Giudici territoriali facevano proprie le tesi difensive della società e ritenevano non estensibile anche alla inesatta indicazione della origine di prodotti la condotta illecita descritta nella norma sanzionatrice limitata soltanto alla inesatta indicazione della qualità, quantità e valore delle merce; inoltre rilevavano come l’Ufficio non avesse fornito prova dell’elemento soggettivo dell’illecito che doveva comunque ritenersi escluso nella forma tanto del dolo che della colpa, non potendo imputarsi alla società importatrice alla stregua delle circostanze di fatto accertate alcuna imprudenza o negligenza.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Agenzia delle Dogane deducendo tre motivi ed illustrando le proprie difese con memoria ex art. 378 c.p.c..
Ha resistito con controricorso la società, depositando memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. I Giudici di appello hanno fondato la propria decisione sulle seguenti autonome ragioni:
a) ritenendo insussistente nella specie la condotta illecita descritta alla norma sanzionatola di cui all’art. 303, cit. T.U.L.D. non essendo stata espressamente compresa tra le ipotesi di infedeltà della dichiarazione doganale assoggettate a sanzione anche quella inerente alla inesatta indicazione della "origine" della merce e ritenendo non consentita la interpretazione della norma sanzionatoria proposta dalla Agenzia delle Dogane – secondo cui le inesattezze circa la "origine" della merce dovevano ricomprendersi in quelle attinenti la "qualità" della merce- in relazione al duplice argomento; 1 – della inapplicabilità anche in materia di sanzioni amministrative tributarie di interpretazioni estensive in "malam partem" (D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3); 2 – del non consentito ricorso alla interpretazione fondata sulla "ratio legis" (intenzione del legislatore) laddove, come nella specie, il senso letterale della norma (che contemplava solo le difformità relative a qualità, quantità e valore delle merci) non presentava equivoci nè aveva dato luogo a contrasti interpretativi, tanto più che il Legislatore comunitario già con il regolamento n. 802/1968 aveva previsto la specifica rilevanza del requisito della origine dei prodotti importati nel territorio doganale della Comunità;
b) disattendendo la tesi della Agenzia della Dogane secondo cui l’art. 303, comma 3, cit. TULD (che prevede una maggiore sanzione nel caso in cui i diritti doganali indicati nella dichiarazione risultino inferiori di oltre il 5% di quelli liquidati dall’Ufficio) integrava una fattispecie autonoma di illecito, dovendo ravvisarsi nella specie una mera ipotesi di aggravante dell’illecito individuato nel comma 1;
c) sostenendo che la Agenzia delle Dogane non aveva fornito dell’elemento soggettivo dell’illecito che rimaneva comunque escluso in quanto il concorso nella frode della società importatrice neppure era stato ipotizzato dall’Ufficio, mentre nella condotta della società importatrice non era dato ravvisare imprudenza in quanto i prodotti risultavano provenire da imprese giamaicane dotate delle adeguate capacità organizzative e produttive; non era configurabile negligenza in quanto non era dato distinguere in alcun modo i prodotti realizzati da materie prime lavorate da quelli invece fabbricati da altre imprese e meramente rivenduti dalle società esportatoci: non era ravvisabile violazione di obblighi di legge in quanto la merce era stata importata sulla base della regolarità formale dei certificati delle merci solo successivamente risultati ideologicamente falsi.
2. Con il primo motivo si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 303, cit. TULD, D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3, art. 12 preleggi, principi generali di interpretazione delle leggi (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
Secondo la ricorrente la fattispecie illecita descritta nell’art. 303, comma 1, cit. TULD (secondo cui "Qualora le dichiarazioni relative alla qualità, alla quantità ed al valore delle merci destinate alla importazione definitiva, al deposito o alla spedizione ad altra Dogana con bolletta di cauzione, non corrispondano all’accertamento, …") includerebbe anche le difformità concernenti la "origine" delle merci in quanto elemento descrittivo delle qualità dei prodotti, rimanendo in tal modo assicurato il rispetto del principio di tipicità dell’illecito D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 3. In ogni caso a tale conclusione porterebbe la riproduzione dell’originario testo normativo della Legge Doganale n. 1424 del 1940, art. 118 nella corrispondente norma del T.U. n. 43 del 1973 nonchè la interpretazione sistematica della norma sanzionatola alla stregua di tutte le altre norme del T.U. n. 43 del 1973 successivamente sostituite dal D.Lgs. n. 374 del 1990 nelle quali "i luoghi di origine, provenienza e destinazione elle merci assumono rilievo ai fini dell’accertamento e dei controlli doganali in quanto elementi costitutivi della dichiarazione doganale.
La società resistente ha contrastato il motivo aderendo integralmente alle ragioni della sentenza.
3. Con il secondo motivo la Agenzia delle Dogane impugna la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 dell’art. 2697 c.c. e dei principi generali in tema di onere della prova (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), avendo erroneamente la CTR omesso di considerare che negli illeciti amministrativi l’elemento soggettivo della colpa è presunto, con la conseguenza che doveva ritenersi errata la statuizione di rigetto dell’appello dell’Ufficio per messa prova sull’elemento soggettivo dell’illecito, in quanto la società di importazione doveva invece essere ritenuta responsabile per la violazione doganale non avendo fornito la prova di aver assolto compiutamente ai propri obblighi di diligenza.
La società resistente ha controdedotto sostenendo che non può essere ritenuto responsabile l’importatore per il fatto doloso delle società esportatrici che avevano falsamente dichiarato l’origine dei prodotti per ottenere il rilascio dei certificati EUR-1; rilevando che dalla stessa indagine OLAF risultava che le autorità doganali giamaicane non potevano accorgersi delle false dichiarazioni delle società esportatrici che avevano realizzato una frode particolarmente insidiosa; deducendo che le autorità giamaicane erano state in grado di conoscere la frode ma non avevano attuato tutte le misure di controllo necessario.
4. Con il terzo motivo la Agenzia delle Dogane censura la sentenza per vizio di insufficienza e carenza motiv azionale (indicando tuttavia erroneamente in rubrica quale norma-parametro il n. 3 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 anzichè il n. 5).
La ricorrente sostiene che la CTR non ha fornito adeguata giustificazione della esclusione dalla previsione normativa dell’art. 303, cit. TULD della condotta di "inesatta indicazione della origine" delle merce, ed in particolare non ha esposto le ragioni della mancata applicazione del criterio interpretativo logico-sistematico ex art. 12 preleggi attraverso il quale era invece consentito ricondurre anche la indicata condotta materiale nell’ambito applicativo della norma sanzionatola. Inoltre la ricorrente censura la sentenza in punto di accertamento della esclusione dell’elemento soggettivo dell’illecito tributario in quanto in palese contrasto con la giurisprudenza comunitaria che ha ripetutamente affermato la responsabilità dell’importatore per gli atti commessi da terzi con i quali ha perfezionato l’operazione soggetta a dazio.
La resistente ha eccepito la inammissibilità per omessa formulazione della sintesi del fatto controverso e decisivo ex art. 366 bis c.p.c. ed ha rilevato comunque la infondatezza della censura per vizio motivazionale.
5. Il ricorso è inammissibile.
La sentenza della CTR della Lombardia è fondata su plurime autonome "rationes decidendi".
I Giudici di appello, infatti, non solo hanno ritenuto non riconducibile la fattispecie concreta (dichiarazione doganale contenente erronea indicazione della origine della merce in quanto fondata su certificato EUR-1 inesatto) alla condotta illecita descritta dall’art. 303, cit. TULD, ma hanno altresì rigettato l’appello, da un lato, ritenendo che la Agenzia delle Dogane non avesse assolto al proprio onere probatorio in ordine alla dimostrazione dell’elemento soggettivo (dolo o colpa), dall’altro accertando, con giudizio in fatto censurabile soltanto sotto il profilo del vizio di illogicità, la esclusione della colpa della società in considerazione di circostanze fattuali concrete esaminate ed indicate nella sentenza (impossibilità di distinguere i prodotti fabbricati e commercializzati dalle ditte giamaicane esportataci:
idonea capacità organizzativa e produttiva delle imprese manifatturiere giamaicane: osservanza delle disposizioni comunitarie e nazionali nella attività di importazione dei prodotti).
In sostanza i Giudici territoriali hanno ritenuto che la società importatrice avesse comunque fornito, attraverso le indicate circostanze di fatto emergenti dalla istruttoria, la prova positiva, idonea a superare la presunzione di colpa stabilita dalla norma sanzionatoria dell’illecito amministrativo doganale.
Orbene costituisce principio giurisprudenziale consolidato che ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (cfr. Corte cass. 3 sez. 11.1.2007 n. 389; id. Sez. 6 – L, Orti. 3.112011 n. 22753).
La Agenzia delle Dogane ha impugnato tutte le autonome statuizioni della sentenza, ciascuna delle quali idonea ex se a sorreggere la decisione, ma, quanto alla censura relativa al vizio motivazionale dedotta con il terzo motivo la ricorrente non ha ottemperato all’onere della "chiara indicazione del fallo controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione", prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 366 bis c.p.c., norma che è stata introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 e che trova applicazione ai ricorsi proposti, come nel caso di specie, avverso sentenze e provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2.3.2006 data di entrata in vigore dello stesso decreto (e fino al 4.7.2009.
data dalla quale opera la abrogazione della norma disposta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d)).
Ne consegue che il motivo è inammissibile alla stregua del principio per cui "allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso a anche formulando al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo e che consenta al giudice di valutare immediatamente la ammissibilità del ricorso" (cfr. Corte cass. SU 14.10.2008 n. 2511. Vedi Corte cass. SU 1.10.2007 n. 20603, id. 3 sez. 7.4.2008 n. 8897 secondo cui tale indicazione deve concretare un "momento di sintesi" clic costituisce un "quid pluris" distinto dalla esposizione del motivo.
Tale "sintesi", in falli, come è dallo evincere dall’art. 366 bis c.p.c. non si identifica con il requisito di specificità del motivo ex art. 366 c.p.p., comma 1, n. 4 ma assume una propria autonoma funzione volta a consentire la immediata rilcvabililà del nesso eziologico tra la lacuna o incongruenza logica denunciata ed il fatto ritenuto determinante – ove corrottamene valutato- ai fini della decisione favorevole al ricorrente: cfr. Corte cass. 3 sez. 7.4.2008 n. 8877; id. 3 sez. n. 16567/2008; id. SU n. 11652/2008).
Essendo stata investita dal ricorso con un motivo inammissibile la autonoma "ratio decidendi" con la quale viene disconosciuta la colpa della società contribuente nella inesatta dichiarazione del requisito di origine preferenziale della merce importata, ne consegue la superfluità dell’esame degli altri due motivi, a loro volta inammissibili per carenza di interesse alla impugnazione, in quanto insufficienti – ove anche ritenuti fondati – a rimuovere l’indicato supporto logico motivazionale che comunque assiste il "decisum".
In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e l’Agenzia delle Dogane va condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio che vengono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 1.000,00 per onorari, Euro 100,00 per esborsi oltre rimborso forfetario spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012

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