Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-07-2012, n. 13496

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Svolgimento del processo
La Commissione tributaria della regione Lombardia con sentenza 15.9.2008 n. 48 ha rigettato l’appello proposto da XXX s.p.a. e confermato la decisione di prime cure, dichiarando legittimo l’avviso in rettifica emesso dalla Circoscrizione doganale Milano (OMISSIS) con il quale venivano liquidati i dazi ali"importazione di prodotti tessili acquistali da imprese residenti nello Stato della Giamaica, essendo risultata la merce priva del requisito di origine preferenziale.
In particolare i Giudici territoriali rilevavano che a seguito di indagine condotta dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) era emerso che i certificati EUR-1 – attestanti il requisito di origine della merce che, ai sensi dell’accordo di parternariato del 23.6.2000 sottoscritto a Cotonou tra la Comunità europea ed i Paesi APC (Africa-Caraibi-Pacifico), beneficiava del trattamento preferenziale della esenzione totale del dazio alla importazione nel territorio doganale della UE – erano autentici, in quanto emessi regolarmente dalle autorità doganali giamaicane, ma errati quanto alla indicazione dello status di origine dei prodotti, avendo le ditte esportatrici dichiarato falsamente che i capi di abbigliamento erano stati fabbricati in Giamaica con filati di provenienza cinese, mentre in realtà trattavasi di prodotti finiti fabbricati in Cina, come emergeva dal confronto delle statistiche import-export relative al peso delle merci esportate nella UE (oltre Kg. 11.000.000) ed al peso dei filati importati in Giamaica dalla Cina (circa Kg. 600.000).
In esito a tale accertamento le autorità giamaicane avevano dichiarato che i certificati di circolazione delle meri EUR-1 emessi da gennaio 2002 alla data 23.3.2005 erano autentici ma comunque irregolari quanto alla indicazione della origine preferenziale della merce e quindi non validi.
I Giudici di merito ritenevano altresì che la società non aveva fornito prova che la merce dalla stessa importata fosse da ricondursi, in relazione al periodo di fabbricazione, a produzioni derivati da filati lavorati diverse da quelle irregolari oggetto della indagine OLAF, e che difettava il requisito della buona fede della società importatrice previsto dall’art. 220 paragr. 2 lett. b) CDC a tutela del legittimo affidamento, in quanto, trattandosi di operatore dotato di notevole esperienza nel settore, non aveva dimostrato di aver assunto tutte le informazioni necessarie in merito alla natura ed alla corretta certificazione dei prodotti importati.
Avverso la sentenza la società ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi corredati dei quesiti ex art. 366 bis c.p.c., ed illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..
Ha resistito con controricorso e memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c., la Agenzia delle Dogane.
Motivi della decisione
1. La sentenza di appello ha fondato la propria decisione sui seguenti motivi:
– spettava alla società importatrice dimostrare che i prodotti in concreto importati non fossero ricompresi tra la merce accompagnata dai certificati EUR-1 dichiarati invalidi: l’avviso di rettifica non poteva considerarsi illegittimo per il fatto che le risultanze probatorie della indagine condotta dall’OLAF non consentivano di individuare con certezza quali tra le merci esportate dalle ditte giamaicane fossero regolari quanto alla origine dei prodotti (essendo derivate dalla lavorazione di filati importati in Giamaica dalla Cina) e quali invece non lo fossero (in quanto costituite da prodotto tessili finiti – non fabbricati in Giamaica – e riesportati nel territorio doganale europeo), in quanto l’OLAF non era stato in grado di acquisire la documentazione necessaria a tal fine avendo cessato le ditte produttrici ogni attività nell’anno 2005 in concomitanza con cessazione di efficacia delle disposizioni del c.d. Accordo Multifibre limitative alla importazione negli Stati membri di prodotti di origine cinese; inoltre la enorme sproporzione rilevata tra la quantità di prodotti finiti esportati in Europa e la minima quantità di filati importati dalle ditte produttrici per le lavorazioni non invalidava il recupero del dazio nei confronti della società importatrice.
– rimaneva comunque esclusa la buona fede dell’importatore richiesta per l’esonero dal controllo a posteriori dall’art. 220 paragr. 2 lett. b, CDC in quanto la diligenza dovuta dalla società andava valutata in relazione alla specifica esperienza professionale dell’operatore commerciale che da tempo eseguiva attività di import ed export di prodotti tessili ed era quindi in grado di poter assumere informazioni e documentazione in merito alla natura ed la certificazione dei prodotti: nella specie era difettata la prova da parte della società di aver agito con diligenza al fini di assicurarsi che fossero state rispettate tutte le condizioni richieste per fruire del trattamento preferenziale.
2. La società ha impugnato la sentenza deducendo i seguenti motivi:
1) omessa od insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in ordine alla statuizione della sentenza che riteneva omessa la dimostrazione da parte della società che i prodotti importati fossero derivati da lavorazioni di filati e non costituissero invece prodotti finiti privi dei requisiti di origine preferenziale, nonchè in ordine alla ulteriore affermazione contenuta in sentenza secondo cui il modestissimo quantitativo di filati utilizzato dalle imprese giamaicane per la fabbricazione dei capi di abbigliamento non giustificava l’annullamento degli avvisi in rettifica.
La tesi della società secondo cui la revisione doganale deve fondarsi su dati certi dovendo in conseguenza ritenersi illegittimo l’avviso impugnato in quanto, essendo state tutte liquidate nel 2005 le imprese giamaicane del Gruppo Afasia e non essendo stata reperita la necessaria documentazione, non era stato possibile accertare (come peraltro riferito anche dalla stessa CTR lombarda quali prodotti fossero riferibili al quantitativo derivato dalla lavorazione di filati (ton. 596 di filati corrispondenti a circa 1.400.000 di merce) e quali invece dovessero ricondursi alle ingenti quantità esportate di capi di abbigliamento fabbricati in Cina, è infondata.
Occorre, infatti, distinguere nettamente la questione relativa alla adeguata motivazione quale requisito formale di validità dell’avviso di accertamento (L. n. 212 del 2000, art. 7: l’obbligo dei requisiti motivazionali richiesti a pena di nullità dell’atto impositivo è stato attuato con il D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32), dalla questione attinente alla indicazione ed alla effettiva sussistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria (cfr.
Corte cass. 1^ sez. 17.1.1997 n. 459; id. 1^ sez. 5.6.1998 n. 5544;
id. 5^ sez. 1.8.2000 n. 10052).
Nella sentenza è riportato che la società ha proposto i motivi di gravame reiterando i medesimi motivi del ricorso introduttivo: in particolare con il primo motivo (riassunto dalla CTR a pag. 1-2 della sentenza) la società contestava alla Agenzia delle Dogane il vizio di motivazione dell’avviso e (o meglio per) la indeterminatezza della prova indicata nell’avviso in quanto fondata sulla sproporzione tra l’enorme quantitativo di prodotti finiti esportati nei Paesi UE ed il modesto quantitativo di filati utilizzati per la lavorazione, e dunque inidonea a dimostrare che la merce importata dalia ditta per la quale agiva la XXX s.p.a. appartenesse all’una od all’altra categoria.
Nonostante la evidente confusione tra i due piani attinenti alla validità dell’atto ed alla efficacia dimostrativa della prova, la pronuncia dei Giudici di merito va esente da critica:
– quanto alla validità dell’avviso di accertamento avendo la CTR correttamene ritenuto assolto il requisito formale di cui al la L. n. 212 del 2000, art. 7, attraverso la motivazione "per relationem" alle risultanze delle indagine condotta dall’OLAF (pacifica e la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla piena legittimità di tale forma di motivazione: ex pluribus Corte cass. 5^ sez. 5.2.2009 n. 2749; id. 5^ sez. 9.2.2010 n. 2806; id. 5^ sez. 9.4.2010 n. 8504);
– quanto alla indicazione ed alla idoneità degli elementi di prova portati a conoscenza della società contribuente ed in base ai quali risultava espressamente motivato l’avviso impugnato, correttamente i Giudici hanno ritenuto esaustive le prove offerte dalla Agenzia con riferimento agli accertamenti delle indagini svolte dall’OLAF, con conseguente trasferimento a carico dell’importatore dell’onere della prova della corrispondenza della merce importata alla indicazione di origine risultante dai certificati EUR-1, tenuto conto: a) che ai Giudici degli Stati membri non è dato prescindere dai "fatti accertati" dall’Ufficio per la lotta antifrode, che "costituiscono elementi di prova nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello Stato membro" come espressamente disposto dall’art. 9 comma 1 e 2 del reg. CE n. 1073/1999 del Parlamento e del Consiglio in data 25.5.1999 e più in generale dall’art. 21 paragr. 2 reg. CE n. 515/1997 del Consiglio in data 13.3.1997; b) che per costante giurisprudenza del Giudice comunitario (Corte giustizia 7.12.1993, causa C-12/92 Huygen, punti 17 e 18; id. 9.3.2006, causa C-293/04 Bcemsterboer, punto 34;
ID. 14.5.1996, cause riunite C-153/94 e C-204/94, Faroe & Seafood, punto 16; id. 15.12.2011, causa C-409/10, Hauptzollamt Hamburg-Afasia Knits, punto 44) la irrisolta incertezza sulla origine della mercè (non comprovabile in baso ai documenti prodotti dall’esportatore) si risolve nella assenza del presupposto richiesto per fruire della preferenza tariffaria, avendo affermato i Giudici di Lussemburgo che "qualora il controllo a posteriori non consenta di confermare la origine della merce indicata nel certificato EUR-1, si deve ritenere che essa sia di origine ignota e che, di conseguenza, il certificato EUR-1 e la tariffa preferenziale siano stati concessi indebitamente".
2) violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 220 paragr. 2 lett. b) CDC (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in quanto la CTR lombarda avrebbe erroneamente ritenuto compiutamente assolto l’onere probatorio gravante sulla Agenzia delle Dogane con il mero accertamento della invalidità di tutti i certificati EUR-1 emessi nel periodo oggetto della indagine dell’OLAF, mentre avrebbe dovuto invece verificare, alla stregua della giurisprudenza comunitaria, se ricorreva la ipotesi della negligenza imputabile all’esportatore tale da rendere impossibile all’Amministrazione di fornire la prova diretta che la merce importata era priva dei requisiti di origine preferenziale, e dunque, nel caso di specie, che la merce importata da XXX s.p.a. non era costituita da capi di abbigliamento derivati dalla lavorazione dei filati.
Il motivo è infondato.
Il Giudice di appello ha fatto corretta applicazione della regola del riparto dell’onere probatorio.
L’art. 220, paragr. 2, punto b) del reg. CEE n. 2913/92 (nel testo modificato dal reg. CE n. 2700/2000 applicabile ratione temporis) dispone che:
a-) non si procede a contabilizzazione a posteriori quando l’importo del dazio non è stato liquidato "per un errore della autorità doganale, che non poteva ragionevolmente esser scoperto dal debitore, avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione alla dogana";
b-) l’ipotesi predetta ricorre quando la posizione preferenziale di una mercè è stabilita in base ad un sistema di cooperazione amministrativa che coinvolge le autorità di un Paese terzo: in tal caso il rilascio da parte di queste ultime di un certificato, ove esso si riveli inesatto, costituisce un errore che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore purchè questi abbia agito in buona fede;
c-) in deroga alla disposizione precedente, il rilascio di un certificato irregolare "non costituisce tuttavia un errore in tal senso se il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore";
d-) salvo che risultasse provato che le autorità che hanno rilasciato il certificato "erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate" che le merci non avevano i requisiti per beneficiare del trattamento preferenziale;
e-) e sempre che risulti dimostrata la "buone fede" del debitore, il quale è tenuto a fornire la prova di aver "agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale" (la prova della buone fede rimane tuttavia, esclusa dalla pubblicazione sulla GUCE di avvisi che segnalino fondati dubbi sulla corretta applicazione del regime preferenziale da parte del Paese beneficiario).
Premesso che la prova del carattere originario dei prodotti è fornita mediante il certificato EUR-1 e la procedura di controllo è volta essenzialmente a verificare l’esattezza dell’origine indicata nei certificati precedentemente rilasciati (Corte giustizia 17.7.1997 in causa C-97/95 Pascoal & Filhos LD, punto 30):
– spetta alla Autorità doganale che intenda recuperare a posteriori il dazio fornire elementi atti ad invalidare la prova documentale in questione, ovvero dimostrare che "il rilascio dei certificati inesatti è imputabile alla inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatorè" (Corte giustizia 9.3.2006 Beemsterboer in causa C- 293/04, punto 39), salvo che la prova di tale imputabilità non possa essere data per negligenza od impedimento opposto dalla stessa ditta esportatrice;
– spetterà in tal caso all’interessato fornire la prova contraria della esattezza delle indicazioni fornite dall’esportatore al momento della richiesta di rilascio del certificato ovvero la prova che le autorità che hanno emesso il certificato inesatto e successivamente invalidato, al tempo del rilascio dello stesso erano informate o avrebbero dovuto essere informate che la dichiarazione della ditta esportatrice era inveritiera in quanto le merci non avevano i requisiti per beneficiare del trattamento preferenziale. Non può procedersi, pertanto, a controllo a posteriori se l’operatore economico interessato ha fornito la prova dell’esistenza dell’errore colpevole commesso dalle autorità che hanno emesso il certificato, ovvero la prova della violazione di obblighi di controllo previsti da norme che vincolano tali autorità, sempre che venga dimostrata altresì la buona fede della impresa importatrice (Corte giustizia 9.3.2006 Bcemstcrboer in causa C-293/04, punto 45 e 46).
Tanto premesso la CTR ha motivato sostenendo che non era possibile fornire la prova della effettiva origine della merce indicata nei certificati EUR-1 ed importata da XXX s.p.a. (e cioè la prova che detta merce fosse stata fabbricata dalla ditta giamaicana con filati da questa trasformati in capi di abbigliamento finiti, e non fosse costituita invece da prodotti tessili già finiti acquistati dalla ditta giamaicana e rivenduti nel territorio UE) in quanto le società produttrici avevano cessato la propria attività nell’anno 2005 e quindi era rimasto impedito ogni accertamento relativo ai dati della produzione di ciascuna delle suddette ditte, nonchè al periodo in cui i prodotti erano stati fabbricati, ed alla conseguente individuazione della origine delle partite di merce acquistate dalle ditte importatrici.
In proposito occorre rilevare che in un sistema di cooperazione qual è quello del regime preferenziale basato sulla ripartizione di competenze tra Stato d’esportazione – che per il principio di vicinanza della prova è quello maggiormente deputato ad accertare la origine del prodotto – e Stato d’importazione – che è in grado di verificare la corretta applicazione del regime solo attraverso la collaborazione dello Stato esportatole- (Corte giustizia 14.5.1996 Faroe Seafood, cause riunite C-153/94 e C-204/94, punto 19), la prova della inesattezza dei certificati può ritenersi raggiunta nel caso in cui, come nella specie, all’esito di indagine condotta in cooperazione con lo Stato esportatore i certificati EUR-1 vengano invalidati (o meglio destituiti di efficacia probatoria) dalle autorità doganali del Paese beneficiario, e dunque non soltanto nel caso in cui sia positivamente accertato che le merci ivi indicate non soddisfano al requisito essenziale della origine, ma anche nel caso in cui all’esito della indagine non sia possibile disporre di elementi sufficienti per confermare l’origine della merce indicata nel certificato, dovendo anche in quest’ultimo caso ritenersi privi di efficacia probatoria i certificati emessi dallo Stato esportatore, avendo in conseguenza indebitamente beneficiato della esenzione doganale i prodotti di "origine ignota" (Corte giustizia 7.12.1993 causa C-12/92 Huygen).
La inesattezza del certificato rilasciato sulla base di una dichiarazione dell’esportatore non verificabile, integra infatti il presupposto dell’errore imputabile a quest’ultimo che ridonda nella mancata dimostrazione, in sede di controllo a posteriori, del requisito della origine preferenziale (indicativo il caso esaminato da Corte giustizia 14.5.1996, cit., punto 63 e 64, in cui la ditta esportatrice forniva un prodotto realizzato con materia prima, dello stesso genere, che veniva immessa nel medesimo ciclo produttivo ma in parte proveniente dal Paese esportatore ed in parte proveniente da Paesi terzi: poichè soltanto il prodotto realizzato interamente con materia prima del Paese esportatore beneficiava della tariffa doganale agevolata, e non era possibile, attesa la modalità di produzione, distinguere nel prodotto finito la provenienza della materia prima, i Giudici di Lussemburgo hanno ritenuto "inesatta" la dichiarazione dell’esportatore volta ad ottenere il certificato attestante i requisiti per fruire della agevolazione tariffaria, stabilendo che era onere dell’esportatore acquisire preventivamente la documentazione necessaria a comprovare con quale materia prima fosse stato realizzato il prodotto finito esportato e dunque hanno concluso per la legittimità del recupero a posteriori del dazio nei confronti del debitore).
Nella specie la incertezza in ordine alle concrete modalità di lavorazione della merce indicata nei certificati EUR-1, fondata (in assenza di ulteriori utili documenti acquisibili dall’OLAF presso le imprese produttrici del Gruppo Afasia in quanto tutte poste in liquidazione nel 2005 in concomitanza con la cessazione delle restrizioni adottate con il c.d. Accordo Multifibre al commercio dei prodotti cinesi) sulla rilevantissima sproporzione del dato statistico comparativo globale tra quantità di filati importati per la lavorazione dalle imprese giamaicane nel periodo 2002-2004 e quantità di capi di abbigliamento finito esportati verso il territorio doganale europeo, giustifica ampiamente la oggettiva incertezza probatoria in ordine alla effettiva fabbricazione ovvero alla mera rivendita dei prodotti tessili importati dalla società ricorrente, insufficienza che non appare idoneamente superabile dalla generica disponibilità del presidente del Gruppo AFASIA, interpellato dall’OLAF nel corso della missione del 2005, a "fornire qualsiasi informazione di cui l’Ufficio avesse bisogno", non essendo stati neppure accennati in tale dichiarazione, e comunque non essendo stati neppure indicati dalla società ricorrente, quali determinanti clementi informativi od ulteriori documenti (rispetto a quelli già allegati dalle ditte esportatrici alla domanda di rilascio del certificato EUR-1) avrebbero potuto essere prodotti per dimostrare la esattezza delle dichiarazioni delle ditte esportatrici circa la origine dei prodotti e per giustificare la enorme discrepanza rilevata dall’OLAF tra i dati quantitativi dei filati e delle merci esportate, documenti peraltro che, ove effettivamente decisivi, bene avrebbero potuto essere agevolmente acquisiti e prodotti già nel corso dei precedenti giudizi di merito dalla stessa XXX s.p.a.
che, in quanto aveva avuto rapporti commerciali diretti con la ditta giamaicana tornitrice, veniva a trovarsi certamente in posizione privilegiata per richiedere a quella informazioni utili sulla produzione realizzata nel corso del periodo in esame.
La mancanza di ulteriori elementi documentali specifici idonei a riconoscere la origine preferenziale della merce importata dalla società ricorrente (ulteriori rispetto ai documenti commerciali – fatture – di trasporto – bolle di consegna – e di carico/scarico ed eventualmente contrattuali – commissioni/ordini di fornitura- presentati dalle ditte giamaicane esportatrici a fini del rilascio dei certificati EUR-1, ed ai documenti che l’OLAF ha in concreto potuto esaminare nel corso della indagine) integra, pertanto, la prova della impossibilità per l’autorità doganale che agisce per il recupero del dazio di pervenire a conclusioni certe in ordine a alla "esatta od inesatta" rappresentazione dei fatti dichiarati dall’esportatore ai fini del rilascio del certificato EUR-1, determinata da "negligenza della impresa di esportazione" (cfr. Corte giustizia 9.3.2006 Beemsterboer in causa C-293/04, punto 46), con conseguente inversione dell’onere della prova che viene a gravare sul debitore.
La sentenza impugnata, riconoscendo la impossibilità per l’Autorità doganale che agisce per il recupero del dazio di fornire la prova diretta della mancanza dei requisiti di origine della merce ha fatto corretta applicazione della regola del riparto dell’onere probatorio desumibili dall’art. 220 paragr. 2, lett. b del CDC, secondo la interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza comunitaria, statuendo che gravava sulla società debitrice l’onere di dimostrare la origine certa della merce importata e la esattezza della indicazioni risultante dai certificati EUR-1.
3) violazione e falsa applicazione dell’art. 9 paragr. 1 e 2 reg. CE n. 1073/99 del Parlamento e del Consiglio in data 25.5.1999, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
La ricorrente sostiene che il Giudice di merito avrebbe illegittimamente ammesso come prova, posta a fondamento della decisione, il verbale delle indagini svolte dall’OLAF nella missione del 2005, mentre la norma comunitaria asseritamente violata attribuisce tale efficacia probatoria esclusivamente al rapporto finale ("al termine della indagine l’Ufficio redige sotto l’autorità del direttore una relazione finale…Le relazioni cosi elaborate costituiscono elementi di prova…"), come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui "la relazione elaborata dall’OLAF ha piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello Stato membro così come dispone il reg. CE 1973/99 e dunque gli elementi raccolti in quei verbali e fatti propri nell’avviso di accertamento sono de tutto idonei a giustificare la pretesa di recupero" (cfr. Corte cass. 5^ sez. ord. 2.3.2009 n. 4997;
id. 24.9.2008 n. 23985; idi. 28.5.2008 n. 13890).
Il motivo è infondato.
Occorre premettere che "le norme relative all’onere della prova ed ai mezzi probatori del carattere originario delle merci rientrano nel diritto nazionale solo in quanto non derivino dal diritto comunitario" (Corte giustizia 14.5.1996, Faroe Seafoood, cit., punto 60).
In applicazione del principio indicato al certificato EUR-1 viene riconosciuto dall’ordinamento comunitario uno speciale regime probatorio che si impone agli Stati membri: tale certificato, infatti, costituisce l’unico documento attraverso il quale può essere dimostrata la origine della merce, con la conseguenza che all’importatore che intenda avvalersi delle agevolazioni tariffarie concesse in base ad un regime preferenziale di origine, non è dato provare aliunde il presupposto di fatto cui è condizionata la applicazione del beneficio fiscale. Tuttavia tale efficacia probatoria non è assoluta in quanto le autorità doganali dello Stato in cui la merce viene immessa al consumo possono verificare a posteriori (id est: successivamente al rilascio del predetto documento) la genuinità del documento e la esattezza della origine indicata nel certificato EUR-1 (cfr. Corte giustizia 17.7.1997, Pascoal & Filhos, cit., punto 30; id. 9.3.2006 Beemsterboer, cit., punti 32-33) venendo il documento ad essere privato di efficacia probatoria, in caso di accertamento della falsa od inesatta rappresentazione dei fatti in esso indicati.
Nella specifica materia doganale all’esame del Collegio (regime preferenziale di origine) non è dato rinvenire altra norma comunitaria volta ad attribuire efficacia di prova legale ad un documento emesso dalle autorità doganali dello Stato esportatore od importatore, essendo invece riconosciuta piena rilevanza probatoria, nell’ambito dell’ordinamento comunitario, alla relazione redatta dall’OLAF all’esito della indagine, come previsto dall’art. 9, comma 2 del reg. CE n. 1073/1999 del Parlamento e del Consiglio in data 25.5.1999 (relativo alle "indagini svolte dall’Ufficio per la lotta antifrode (OLAFD che considerare equipollenti la relazione redatta dall’OLAF al termine delle indagini e le relazioni redatte dagli ispettori amministrativi dello Stato membro, tanto ai fini delle "regole di valutazione" applicabili quanto ai fini del "valore" riconoscibile secondo la disciplina legislativa dello Stato membro.
Ne consegue che alla relazione OLAF può essere attribuita efficacia probatoria privilegiata limitatamente ai "fatti accertati" ex art. 9 comma 1 reg. 1073/99 (in quanto accaduti alla presenza degli ispettori).
Se la norma del regolamento comunitario si riferisce espressamente alla "relazione", tuttavia la stessa non pone alcuna limitazione in ordine alla utilizzabilità nei procedimenti amministrativi e giudiziali dello Stato membro anche di altre fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dall’OLAF, come è dato evincere dall’art. 9, comma 3 e dall’art. 10, comma 1 del medesimo regolamento comunitario i quali prevedono la trasmissione alle autorità degli Stati membri interessati, rispettivamente, di "ogni documento utile" acquisito e la comunicazione di "qualsiasi informazione" ottenuta nel corso delle indagini.
Ne consegue che, alla stregua della normativa comunitaria e nazionale applicabile al caso di specie, non sono ravvisabili divieti od impedimenti all’utilizzo da parte della CTR della Lombardia – ai fini della selezione e valutazione delle emergenze istruttorie compiute nel giudizio di merito – delle risultanze del "verbale" delle operazioni della missione OLAF redatto in data 23.3.2005, come peraltro riconosciuto anche nei precedenti di questa Corte segnalati nel ricorso, non dubitandosi in tali sentenze che, se la relazione elaborata dall’OLAF ha pieno valore probatorio, anche "gli elementi raccolti in quei verbali e fatti propri nell’avviso di accertamento" sono idonei a sostenere la pretesa tributaria (cfr.: Corte cass. n. 23985/2008, in motivazione).
Va dunque esente dalla prospettata censura la sentenza della CTR lombarda che ha posto a fondamento della propria decisione gli accertamenti risultanti dal verbale redatto dall’OLAF in data 23.3.2005.
4) Con il quarto motivo la società deduce omessa od insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in relazione al punto controverso concernente la "buona fede" della ditta importatrice.
ingiustificatamente esclusa dai Giudici di merito per mancanza di prova della diligenza impiegata per assicurarsi dell’avvenuto rispetto di tutte le condizioni legittimati la applicazione del regime preferenziale.
In disparte il rilievo che la formulazione del "momento di sintesi" ex art. 366 bis c.p.c., appare ai limiti della inammissibilità in considerazione della lacunosa individuazione del fatto controverso con specifica attinenza al caso concreto, il motivo si palesa inammissibile in quanto privo di specificità ed autosufficienza ex art. 366 c.p.c..
Premesso che la buona fede dell’importatore è un elemento costitutivo della fattispecie disciplinata dall’art. 220 paragr. 2 lett. b) CDC volta ad escludere il recupero del dazio, la cui prova è posta a carico dell’importatore, dovendo questi "dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale", osserva il Collegio che le prove addotte dalla ricorrente e che i Giudici di merito avrebbero omesso di valutare incorrendo nel dedotto vizio logico della motivazione, risultano prive del requisito di decisività richiesto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Ed infatti la società ricorrente ha omesso di trascrivere compiutamente il contenuto dei documenti la cui valutazione sarebbe stata omessa in tal modo impedendo alla Corte di verificare in limine la congruità della censura rivolta alla specifica statuizione della sentenza impugnata.
Premesso che, tanto nel caso di deduzione del vizio di irrituale od omessa ammissione di prove ovvero di omessa od inesatta valutazione di atti o documenti prodotti in giudizio, quanto nel caso in cui si intenda far valere un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, la parte ricorrente è onerata non soltanto alla specifica indicazione della prova o del documento (eventualmente mediante individuazione della sede processuale in cui la prova è stata richiesta o prodotta: Corte cass. sez., lav. 7.2.2011 n. 2966;
id. 1 sez. 13.11.2009 n. 24178; id. 3 sez. ord. 4.9.2008 n. 22303;
id. 3 sez. 25.5.2007 n. 12239) ed alla chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto (cfr. Corte cass. 1 sez. 17.5.2006 n. 11501), ma deve provvedere altresì alla completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti processuali o dei documenti in modo da rendere immediatamente apprezzabile da parte della Corte il vizio dedotto (cfr. Corte Cass. SU 24.9.2010 n. 20159; id. 6 sez. ord. 30.7.2010 n. 17915; id. 3 sez. 4.9.2008 n. 22303; id. 3 sez. 31.5.2006 n. 12984; id. 1 sez. 24.3.2006 n. 6679; id. sez. lav. 21.10.2003 n. 15751; id. sez. lav.
12.6.2002 n. 8388), nella specie dalle scarne e lacunose indicazioni contenute nel ricorso emerge che tali documenti, prodotti nei gradi di merito, concernono:
– gli esiti di controlli a posteriori degli anni 2000 – 2003 effettuati da dogane europee dei certificati giamaicani, ritenuti validi (doc. all. 7 in grado appello): ma a parte la indeterminatezza di tali "controlli" (non essendo precisato il numero, il tempo, il tipo di accertamento, quali verifiche siano state compiute), e premesso che la prova in questione potrebbe caso mai rilevare ai fini dell’errore imputabile alle autorità doganali (ma solo se supportato dall’elemento della reiterazione "durante un periodo relativamente lungo" e sempre che si tratti di errore non determinato dalle false dichiarazioni dell’esportatore: cfr. Corte giustizia 1.4.1993, causa C-250/91, Hewlett Packard, punto 20) e non anche ai fini della condizione della "buona fede", non viene specificato se i certificati in questione riguardino merce importata per conto di ditte italiane dallo stesso spedizioniere XXX s.p.a. e non è dato apprezzarne la rilevanza probatoria in assenza di incitazioni circa la natura delle richieste di controllo formulate dalle autorità doganali (non è chiarito se italiane o di altri Pesi europei) e l’accertamento compiuto dalle autorità doganali giamaicane (non potendo escludersi, come sembrerebbe desumersi dalla decisione della Commissione UE in data 3.11.2008 riportata nella memoria ex art. 378 c.p.c., depositata dalla Agenzia resistente – che la questione avesse riguardato solo la genuinità del timbro apposto sul certificato EUR-1 e non anche la esattezza della origine della merce);
la sostanziale corrispondenza delle condizioni di vendita praticate dalle ditte giamaicane rispetto a quelle praticate dagli altri Paesi APC per gli stessi prodotti (doc all. 9 in grado appello): tale elemento è del tutto irrilevante ai fini della prova della diligenza dovuta dall’importatore, in quanto la comparazione ha per oggetto il prodotto finito, e non è stato neppure adombrato che i capi di abbigliamento lavorati dalle ditte giamaicane e quelli invece che tali ditte acquistavano all’estero e si limitavano a riesportare nel territorio doganale europeo, avrebbero dovuto essere assoggettati a diverse condizioni di vendita;
controlli a posteriori di certificati di origine giamaicani effettuati dalle dogane italiane nel 2002 e 2003 e ritenuti validi (doc all. 7 c8 in primo grado): valgono le stesse osservazioni formulate per analoghi documenti prodotti in grado di appello;
verbale della missione OLAF: la circostanza che le autorità giamaicane fossero state indotte in errore dalle ditte esportatrice che avevano agito in frode con spiccata professionalità non appare ex se argomento dirimente a fornire un elemento di valutazione tale da sovvertire la decisione dei Giudici di appello, se non altro in considerazione della non assimilabilità della posizione in cui viene a trovarsi la società importatrice che viene in rapporti commerciali, e dunque fa affari, con le ditte esportatrici, rispetto alla posizione rivestita dalle autorità doganali del Paese esportatore in quanto istituzionalmente deputate ad esercitare i controlli sulla esattezza dei dati contenuti nelle dichiarazioni presentate dalle ditte esportatrici (ai fini della autosufficienza del motivo con cui si la valere il vizio di motivazione, non è sufficiente che sussista un elemento trascurato dal giudice di merito e "potenzialmente" idoneo a condurre ad una diversa decisione, ma è necessario che tale elemento si integralmente ed adeguatamente descritto nel suo contenuto e nella sua decisivitù. nel senso che la spiegazione logica alternativa tornita sulla base della prova "appaia come l’unica possibile": cfr. Corte cass. sez. v. 2.4.1999 n. 3183;
id. Ez., lav. 9.1.2009 n. 261).
Il motivo deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.
5) omessa insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in punto di accertamento delle responsabilità delle autorità doganali giamaicane.
La società ricorrente sostiene che tali autorità erano "certamente" a conoscenza della anomalia tra i dati statistici delle esportazioni cinesi e quelli delle importazioni giamaicane, dati emersi a seguito della missione OLAF, ed i Giudici di merito avrebbero pertanto dovuto ritenere integrata la condizione posta dall’art. 220 paragr. 2 lett. b. CDC per riconoscere l’errore attivo imputabile alle autorità che avevano rilasciati i certificati EUR-1 in quanto le stesse, al tempo in cui hanno emesso i certificati, "erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informale che le merci non avevano diritto al regime preferenziale".
Il motivo è inammissibile per difetto dell’elemento di decisività delle prove che i Giudici di merito avrebbero obliterato.
Le prove documentali indicate dalla ricorrente sono le seguenti:
– lettera inviata in data 13.9.2004 dal direttore dell’OLAF al rappresentante dello Stato della Giamaica presso la Comunità europea nella quale si rendeva noto che l’OLAF stava coordinando le inchieste ed investigazioni in relazione a "sospette irregolarità circa le importazioni di prodotti tessili" e chiedeva la cooperazione delle autorità giamaicane, cui seguiva nell’ottobre 2005 la risposta di detta autorità che comunicavano la piena collaborazione secondo quanto previsto dalle disposizioni dell’Accordo di Cotonou. La prova si palesa irrilevante in quanto non consente di verificare: a) se e quali clementi circostanziali erano stati resi noti dall’OLAF con la nota predetta (non avendo la ricorrente provveduto a trascrivere il contenuto della lettera) e se pertanto gli stessi consentivano di affermare la conoscenza da parte delle autorità giamaicane delle irregolarità contenute nei certificati EUR-1. Inoltre, in difetto di qualsiasi indicazione sulla data di rilascio dei certificati EUR-1 utilizzati dalla società ricorrente, non è dato verificare l’elemento chiave per imputare alle autorità doganali giamaicane il difetto di diligenza previsto dall’art. 220 CDC, e cioè se la conoscenza/conoscibilità della inesatta origine della merce sussisteva al momento della emissione dei certificati, venendo meno la imputabilità nel caso in cui la conoscenza della irregolarità fosse soltanto sopravvenuta al rilascio dei documenti;
– verbale 2.2.2006 relativo a due riunioni tenutesi il 18 e 19 gennaio 2006 in Giamaica tra i funzionari del Trade Board e del Ministero degli Esteri "da cui si evince che tali autorità erano consapevoli di non aver mai posto in essere un sistema di controlli adeguato sui prodotti tessili" (ricorso pag. 39). Il motivo formulato in relazione a tale prova si palesa inammissibile, in difetto di trascrizione del contenuto del documento, e va incontro alla stessa obiezione circa la rilevanza cronologica della eventuale conoscenza/conoscibilità della frode acquisita dalle autorità giamaicane – "affidavit" di O.M. – che aveva lavorato alle dipendenze di diverse società esportatrici giamaicane per oltre venti anni (interamente trascritto pag. 34-37): deposizione resa a verbale nella fase anteriore alla introduzione del promovendo giudizio avanti il Tribunale di quel Paese. Dalla dichiarazione si evince che il deponente aveva lavorato presso alcune ditte esportatrici giamaicane, ma non è dato verificare se la società ricorrente abbia o meno intrattenuto i rapporti commerciali oggetto della presenta controversia con alcuna di tali ditte. Non può ritenersi decisiva la affermazione secondo cui i funzionari delle dogane giamaicane "molto raramente hanno esaminato la rimozione dei sigilli dai container importati dalle Aziende giamaicane ma dalla decisione della Commissione UE 3.11.2008, punto 29, sembra piuttosto che il deponente intendesse sostenere che i funzionali doganali non rimuovevano i sigilli dei container per eseguite il controllo della merce – e non che i sigilli dei container fossero alterati-, e di conseguenza non hanno quasi mai eseguito ispezioni di qualsivoglia natura in merito al contenuto degli stessi………le richieste di verifica relative alla autenticità dei certificati EUR-1 avanzate dai rispetti dipartimenti doganali della UE non hanno mai indotto….. condurre verifiche e controlli..": la dichiarazione si presenta, infatti, del tutto generica ed imprecisa anche sotto l’aspetto cronologico ed inoltre non vale a provare la negligenza imputabile alle autorità giamaicane per omessa esecuzione delle ispezioni doganali sulla merce, tenuto conto che tale negligenza potrebbe configurarsi esclusivamente nel caso di violazione di specifiche disposizioni che vincolassero a tale tipo di accertamento, mentre l’art. 32 del Protocollo 1 annesso all’Accordo di Cotonou rimetteva alla scelta discrezionale delle autorità del Paese di esportazione le modalità ed il tipo di controlli doganali da eseguire, non imponendo alcun obbligo di verifica tipizzato. Non appaiono assistite dal requisito di decisività della prova neppure le dichiarazioni concernenti il rilascio di certificati EUR-1 da parte della autorità giamaicane anche dopo la verifica dell’ottobre 2004 che aveva portato – sembra – al sequestro e poi al rilascio di merce (maglioni finiti anzichè filati da lavorazione) relativa a "spedizioni non conformi alle normative doganali a favore della ditta K.A.. La circostanza priva di ulteriori elementi chiarificatori (dalla decisione della Commissione UE, citata, risulterebbe che la merce fosse destinata alla zona franca e non alla esportazione verso i Paesi UE) ove anche idonea in astratto a dimostrare la intervenuta conoscenza/conoscibilità della frode da parte della autorità giamaicane, non consente tuttavia di verificare se tale consapevolezza potesse ritenersi acquisita anche al momento del rilascio dei certificati EUR-1 utilizzati dalla società ricorrente, difettando quindi il requisito di decisività della prova.
Anche il quinto motivo va incontro, pertanto alla pronuncia di inammissibilità.
3. In conclusione il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna del società contribuente alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte :
– rigetta il ricorso e condanna la società contribuente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 3.000,00 per onorari oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 luglio 2012.
Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012

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