Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-07-2012, n. 13494

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

La commissione tributaria regionale della Lombardia ha confermato la decisione con la quale la commissione tributaria provinciale di Milano aveva accolto un ricorso della Maimex s.p.a. contro alcuni atti di irrogazione di sanzioni amministrative per violazioni riscontrate nella importazione di partite di maglieria dalla (OMISSIS) in esenzione dal dazio.

Le violazioni erano state contestate a seguito della invalidazione di certificati Eur 1 circa l’origine preferenziale giamaicana delle merci in questione. La commissione, nel contesto tipico-sanzionatorio della fattispecie di cui al D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303, commi 1 e 3, del Tuld, ha ritenuto la norma insuscettibile di far rientrare il concetto di origine del prodotto importato – inciso dalla invalidazione dei certificati – in quello, giustappunto tipizzato, di qualità del medesimo.

Ha comunque ritenuto doversi escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo della violazione.

In tal guisa ha affermato non potersi alla società importatrice ascrivere nè una mancanza di attenzione (perchè i prodotti importati, effettivamente realizzati negli opifici giamaicani, non differivano in alcuna parte da quelli realizzati in Cina e transitati negli stessi opifici), nè una imprudenza (per essersi rivolta, la società, a imprenditori incapaci della produzione richiesta, perchè tali non erano le imprese esportatrici), nè una violazione di legge (perchè la merce aveva viaggiato con la valida e genuina – anche se ideologicamente falsa – documentazione di accompagnamento richiesta).

Per la cassazione della sentenza di secondo grado l’agenzia delle dogane ha proposto ricorso affidato a tre motivi.

L’intimata ha replicato con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato una memoria.

Motivi della decisione

1. – Col primo motivo l’amministrazione, denunciando violazione ed errata applicazione del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 del Tuld, del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3 e dell’art. 12 preleggi, ascrive alla sentenza di avere malamente interpretato, nel corpo dell’art. 303 cit., il significato del termine "qualità" impiegato a proposito della merce oggetto di importazione.

Assume doversi ritenere prevista e punita dalla disposizione de qua ogni ipotesi di difformità/falsità della dichiarazione concernente gli elementi essenziali ai fini della determinazione delle imposte applicabili; vale a dire, appunto, la qualità, la quantità e il valore, come pure l’origine e la provenienza della mercè medesima.

Col secondo motivo la ricorrente denunzia un’ulteriore violazione (o falsa applicazione) del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 Tuld, nonchè del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 e dell’art. 2697 c.c., imputando alla sentenza di avere errato in quanto il citato D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 non limita la responsabilità per le sanzioni amministrative, ma pone una presunzione di colpevolezza che sta al responsabile superare a mezzo di riscontri probatori precisi.

In sostanza, e con idoneo quesito, l’amministrazione assume che l’importatore, che utilizza certificati di origine irregolari, deve ritenersi responsabile anche per le afferenti sanzioni qualora non provi – secondo il principio di cui all’art. 2697 c.c. – di aver adottato la necessaria diligenza professionale nella verifica della correttezza dell’operato dei soggetti da cui provengono le certificazioni (e le dichiarazioni) all’uopo utilizzate quanto all’origine preferenziale della merce.

Col terzo motivo la ricorrente denunzia infine il vizio di insufficiente motivazione della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 5) ascrivendole di aver omesso di fornire adeguata spiegazione dell’iter logico seguito quanto al profilo concernente l’operatività del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 del Tuld.

2. – Ancorchè fondatamente formulata la critica svolta nel primo motivo di ricorso, in ordine alla rilevanza della dichiarazione di origine delle merci importate per stabilire la debenza del tributo in base alle condizioni dettate dalla normativa comunitaria in tema di agevolazioni daziarie, va confermata l’impugnata sentenza in considerazione dell’assorbente profilo dell’elemento soggettivo della violazione, affermato come mancante nel caso di specie in conseguenza di un accertamento di fatto non congruamente censurato.

3. – E’ il caso di premettere che, in base all’accordo di Cotonou, di partenariato tra i membri del gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP), da un lato, e la Comunità europea e i suoi Stati membri, dall’altro, i prodotti originari dei suddetti Stati ACP sono ammessi all’importazione nella Comunità europea "in esenzione da dazi doganali e da tasse d’effetto equivalente".

In proposito, secondo il protocollo n. 1 dell’allegato 5 dell’accordo, si considerano originari degli Stati ACP i prodotti interamente ottenuti negli Stati detti e i prodotti ottenuti nei medesimi in cui siano incorporati materiali non interamente ottenuti sui loro territori a condizione che codesti siano stati oggetto, negli Stati de quibus, di lavorazioni o trasformazioni sufficienti ai sensi dell’art. 4 del medesimo protocollo.

La prova dell’origine, secondo quanto ancora stabilito nel titolo 4^ del ridetto protocollo n. 1, devesi ricavare in linea generale dal certificato di circolazione – c.d. Eur 1 – rilasciato dalle autorità doganali del paese esportatore in base ai documenti intesi a comprovare, a onere dell’impresa esportatrice, il carattere originario dei prodotti in questione.

4. – Ciò posto, la sentenza di secondo grado è caratterizzate dalle seguenti decisive affermazioni: (a) era da ritenersi nel caso di specie "esclusa a carico dei responsabili della società (. . ) la sussistenza di gravi indizi in ordine alla conoscenza della diversa origine della merce importata e all’esistenza di un accordo collusivo con le imprese esportatrici" (la sentenza sul punto aggiunge che "per vero nemmeno l’ufficio appellante ipotizza una tale evenienza"); (b) la condotta non era stata viziata neppure da colpa perchè alla società importatrice (1) non poteva "ascriversi mancanza di attenzione, poichè i prodotti importati effettivamente realizzati negli opifici giamaicani non differivano in alcuna parte da quelli realizzati in Cina e transitati negli stessi opifici, tanto che non si era resa possibile nemmeno per gli accertatori una puntuale distinzione in tal senso con individuazione specifica delle sole merci di provenienza illegittima",- (2) non poteva ascriversi imprudenza per essersi rivolti ad imprenditori palesemente incapaci della produzione richiesta e non attrezzati per essa, perchè tali non erano le imprese esportatrici; (3) non poteva ascriversi violazione di legge, "poichè la merce aveva viaggiato con la valida e genuina (anche se ideologicamente falsa) documentazione di accompagnamento richiesta".

In buona sostanza la commissione regionale, esclusa la conoscenza dell’importatore riguardo alla diversa origine delle merci, e accertato che i prodotti erano stati in ogni caso realizzati in opifici giamaicani, ha ritenuto provata la mancanza di elementi di colpa (in capo all’importatore medesimo) sulla scorta di un accertamento di fatto. Accertamento incentrato sulla oggettiva confondibilità dei prodotti rispetto a quelli – pur transitati negli stessi opifici – di diversa provenienza.

sulla affidabilità degli esportatori da un punto di vista imprenditoriale, sulla genuinità dei certificati di provenienza, seppure poi in concreto rivelatisi mendaci. E dunque su elementi ritenuti in tal senso idonei a sorreggere una valutazione di inesigibilità di una maggiore diligenza professionale nell’espletamento dell’attività d’impresa.

5. – Ora l’agenzia delle dogane censura la statuizione innanzi tutto imputandole un errore in iudicando. Assume (secondo motivo) che la sentenza andrebbe in tal senso cassata in risposta al quesito di diritto se l’importatore che utilizza irregolari/falsi certificati di origine preferenziale delle merci per usufruire di benefici daziari indebiti è responsabile per le relative sanzioni, secondo il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 qualora non provi (secondo il principio ex art. 2697 c.c.) di aver adottato la necessaria diligenza professionale nella verifica della correttezza dell’operato dei terzi (..) dai quali provengono le certificazioni e dichiarazioni utilizzate e se, in conseguenza, la ditta importatrice è responsabile delle sanzioni irrogate (. . ) ai sensi dell’art. 303 Tuld".

Ma è evidente che il quesito – praticamente incentrato sull’aggettivazione "necessaria" in rapporto alla diligenza professionale richiesta all’imprenditore finisce per sollecitare una revisione del giudizio di fatto, viceversa esclusivamente rimesso al giudice del merito.

Invero, la risposta affermativa al suddetto quesito, seppure consentita dal consolidato orientamento di questa Corte quanto alla struttura dell’illecito amministrativo tributario e alla correlata ripartizione dell’onere probatorio al fine di escludere l’elemento soggettivo della violazione, non incide sulla statuizione di merito, dal momento che non scalfisce l’accertamento di fatto che sorregge, nell’impugnata sentenza, giustappunto l’affermazione di mancanza di quell’elemento per avere, l’importatore, adottato la diligenza professionale esigibile.

Un simile giudizio, fissato nelle sopra riportate proposizioni giustificative del risultato della valutazione probatoria (la mancanza di colpa) in relazione alla diligenza in concreto ritenuta esigibile, rispecchia ciò che comunemente vien definito convincimento in fatto del giudice di merito, indiscutibile in sede di legittimità se non sotto il profilo del rispetto delle norme logiche e metodologiche che ne presidiano il fondamento.

6. – La congruenza del convincimento in fatto – id est, il corretto uso delle categorie logiche adottate nella soluzione della questione di fatto – è censurabile soltanto sul versante della motivazione, che consente di dare alla sentenza – secondo l’espressione felicemente delineata dalla dottrina francese – la propria base legale.

E in effetti l’agenzia delle dogane ha prospettato, nel terzo motivo dell’odierno ricorso, l’insufficienza della motivazione al riguardo adottata dal giudice di merito. Così facendo la ricorrente ha correttamente sollecitato alla Corte, nel perimetro del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, (il c.d. vizio logico della motivazione) il controllo indiretto della succitata questione di fatto (la dimostrazione dell’uso della diligenza necessaria a escludere la colpa) posta alla base della valutazione di non colpevolezza.

Ma il terzo motivo, che compendia la censura di vizio di motivazione, non è formulato nei termini richiesti dall’art. 366-bis c.p.c., non contenendo, in apposita conclusiva sintesi, la chiara enunciazione del fatto controverso, decisivo per il giudizio, sul quale la motivazione della sentenza di merito sarebbe da ritenere insufficiente o incongrua.

7. – Il secondo e il terzo motivo sono, per le ragioni esposte, inammissibili.

Ciò determina la cristallizzazione della (concorrente) ratio decidendi circa la mancanza di colpa, sulla scorta della quale il giudice di merito ha accolto il ricorso della contribuente.

Conseguente è l’assorbimento del primo motivo e il rigetto del ricorso per cassazione. Spese processuali alla soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 2.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della quinta sezione civile, il 7 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012
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