Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 29-01-2013) 18-03-2013, n. 12574

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. La Corte di Assise di Appello di Milano, con sentenza del 19 dicembre 2011, ha riformato la sentenza della Corte di Assise di Monza del 15 dicembre 2009 ed ha mantenuto ferma la condanna, riducendo la pena, per i reati di cui all’art. 600 cod. pen. e alla L. n. 75 del 1958, art. 3, nn. 4, 5, 6, 7 e 8 e art. 4, nn. 1 e 7 nei confronti di K.K. e K.G. e per quest’ultimo anche del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, commi 3 e 3 ter e della L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 2, n. 6.

A fronte dell’originaria imputazione anche del delitto di associazione a delinquere gli imputati erano stati condannati per riduzione in schiavitù e per induzione alla prostituzione con violenza e minaccia e per sfruttare sessualmente le parti offese; il K.G. anche per aver procurato il reingresso in Italia di cittadina straniera ai fini dell’induzione e dello sfruttamento della prostituzione.

2. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione:

la Procura generale presso la Corte di Appello di Milano, lamentando nei confronti del solo K.K.:

a) una violazione della legge penale e una motivazione illogica e contraddittoria, con particolare riferimento alla mancata assoluzione in ordine al reato di riduzione in schiavitù nei confronti di S.Z. sia per l’insussistenza degli estremi di diritto del contestato reato che per l’errata interpretazione del contenuto di intercettazioni telefoniche.

K.G., a mezzo del proprio difensore, lamentando:

a) una violazione di legge e una motivazione illogica, incompleta e insufficiente quanto alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

K.K., a mezzo del proprio difensore, lamentando:

a) una motivazione illogica, incompleta e insufficiente nonchè una violazione di legge quanto alla sussistenza del reato di riduzione in schiavitù;

b) una violazione di legge e una motivazione incongrua rispetto al trattamento sanzionatorio applicato ed alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

Motivi della decisione

1. Il ricorso della Procura Generale, tendente all’assoluzione del solo K.K. dal delitto di riduzione in schiavitù nei confronti di S.Z., non è accoglibile in quanto le doglianze del ricorrente tendono a rendere accreditabile una diversa ricostruzione delle emergenze di causa sulla base di ipotesi le quali, a prescindere dal relativo grado di plausibilità, non possono essere devolute all’apprezzamento del Giudice di legittimità.

La Cassazione, inoltre, non valuta i risultati delle prove nè persegue la ricostruzione più aderente ad essi ma è deputata unicamente a verificare che il ragionamento seguito dal Giudice di merito sia razionale e non soffra di vistose incertezze su elementi decisivi.

2. Tutto ciò premesso, si osserva come l’inquadramento della fattispecie ascritta ad entrambi gli imputati, sotto la rubrica dell’art. 600 cod. pen. (riduzione in schiavitù), sia stata correttamente operata nell’impugnata sentenza e rientri perfettamente nei parametri approntati nella materia dalla pacifica giurisprudenza di legittimità (v. da ultimo, Cass. Sez. 5 15 aprile 2010 n. 13072 e Sez. 3 27 maggio 2010 n. 24269).

L’evento di riduzione o mantenimento di persone in stato di soggezione consiste, infatti, nella privazione della libertà individuale cagionata con minaccia, violenza, inganno o profittando di una situazione di inferiorità psichica o fisica o di necessità.

Il reato ex art. 600 cod. pen. è, invero e come ribadito dallo stesso P.G. ricorrente (v. pagina 4 del ricorso), formulato a fattispecie plurima e prevede una prima ipotesi, che è quella dell’esercizio su una persona di poteri corrispondenti al diritto di proprietà ed una seconda ipotesi, che è quella della riduzione di una persona in uno stato di soggezione continuativa finalizzata al suo sfruttamento.

In tale ultima fattispecie è previsto che l’agente debba ricorrere alternativamente a violenza o a inganno o ad approfittamento di uno stato di inferiorità o di una situazione di necessità o, infine, a promesse di vantaggi a chi eserciti autorità sulla persona.

In nessuno dei casi da ultimo descritti, una volta ritenuti integrati, potrebbe darsi la ipotesi del consenso dell’avente diritto con efficacia scriminante, per la semplice ragione che la posizione del soggetto passivo della condotta è sempre descritto dalla norma come riferita a condizione fisica o psichica nella quale i processi volitivi sono assolutamente alterati e il consenso si atteggerebbe come viziato.

Pertanto del tutto infondatamente il ricorrente evoca la mancanza di "asservimento" della S. in misura eccedente il normale rapporto esistente tra prostituta e sfruttatore.

A prescindere dalla ontologica differenza tra un reato contro la libertà e la personalità individuale e reati nei quali l’interesse tutelato è quello di garantire il bene giuridico del buon costume e della pubblica moralità posti in pericolo da ogni forma di prossenetismo organizzato, al di là della tutela realizzata con l’incriminazione delle singole condotte (Legge 20 febbraio 1958 n. 75, v. Cass. Sez. 1 28 febbraio 2012 n. 11748), quello che rileva è che la Corte territoriale abbia logicamente motivato in merito alla sussistenza di una situazione di fatto che eccedesse il "normale rapporto di meretricio." In particolare nell’impugnata decisione (v. pagine 21 e 22) si evidenziano quelle situazioni concrete (cessione da un gruppo ad un altro di sfruttatori senza consenso, mancanza di libertà di movimento al di là delle "strade battute per lavoro", mancanza di mezzi di comunicazione con terzi soggetti, sottrazione del passaporto e mancanza di mezzi di sostentamento) che valgono a qualificare come riduzione in schiavitù una situazione caratterizzata dalla assoluta carenza di autodeterminazione e pur nell’esercizio dell’attività di prostituzione.

Basterebbe il riferimento alla cessione da uno sfruttatore ad un altro di un essere umano, per significare l’esercizio su di esso di poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, perchè evidentemente è il proprietario che può cedere la res, dietro compenso (v. Cass. Sez. 5 11 gennaio 2012 n. 10784).

L’impugnata sentenza ha, altresì, dato conto, con richiami alla completa decisione di prime cure, delle tesi defensionali degli imputati, con motivazione logica e correttamente espressa.

A fronte di una ricostruzione del fatto completa e del tutto plausibile, presente nella sentenza impugnata, le censure del ricorrente, con riferimento al secondo motivo, si risolvono o in generici e inammissibili rilievi, privi di aggancio alla motivazione oppure in sollecitazioni, parimenti inammissibili, ad una autonoma valutazione di talune emergenze di prove (intercettazioni telefoniche) che certamente non è consentita al Giudice della legittimità.

3. Neppure colgono nel segno, rimanendo addirittura ai limiti dell’ammissibilità le doglianze del ricorrente K.G. in merito alla mancata concessione delle attenuanti generiche, poichè trattasi di doglianza che, per un verso, passa del tutto sotto silenzio la pur esistente motivazione offerta sul punto del trattamento sanzionatorio dalla Corte territoriale e che vale, in ogni caso, in difetto dell’irrogazione di una pena al di fuori dei limiti normativamente previsti a ritenere adempiuto l’obbligo motivazionale del Giudice del merito.

Si rammenta, al riguardo, che la concessione delle attenuanti generiche risponde a una facoltà discrezionale, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso Giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo.

Tali attenuanti non vanno intese come oggetto di una benevola concessione da parte del Giudice, nè l’applicazione di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negativi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimento della esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di positivo apprezzamento (v. Cass. Sez. 6 28 ottobre 2010 n. 41365 e Sez. 3 27 gennaio 2012 n. 19639).

A ciò può aggiungersi come, ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche sia sufficiente che il Giudice di merito prenda in esame quello, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno la concessione del beneficio; ed anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti medesime (v. Cass. Sez. 2 18 gennaio 2011 n. 3609).

Il che è quanto accaduto nella specie.

4. Quanto al ricorso di K.K., con riferimento al primo motivo e cioè all’esatto inquadramento dei fatti ascritti nella fattispecie di cui all’art. 600 cod. pen., non possono che ripetersi le considerazioni relative al ricorso del P.G. e dianzi esposte al punto n. 2) Quanto al secondo motivo e cioè ad un trattamento sanzionatolo ritenuto eccessivamente grave si osserva come, da un lato, la sanzione sia stata ridotta rispetto alla sentenza di primo grado e, d’altra, parte non presenti quei caratteri di illegalità che soli potrebbero determinare una valutazione ad opera di questa Corte di legittimità.

A ciò può aggiungersi come in tema di determinazione della pena, quanto più il Giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio (v. Cass. Sez. 6 12 giugno 2008 n. 35346 del 12/06/2008).

Il Giudice del merito, a tal proposito (v. pagina 29 della decisione), ha dato conto della riduzione e del mantenimento della pena in limiti elevati ma non prossimi al massimo (anni dieci in una forbice compresa tra gli otto e i venti anni di reclusione per il reato più grave, art. 600 cod. pen.) per cui questa Corte non può sostituirsi alle valutazioni, soggettive ed oggettive, di merito proprie di tale fase e non censurabili avanti questa Corte di legittimità.

Quanto al terzo ed ultimo motivo, relativo alla mancata concessione delle attenuanti generiche, anche in questo caso debbono ripetersi le considerazioni dianzi esposte al punto n. 3 nei confronti del coimputato.

5. I ricorsi vanno, pertanto, rigettati e i ricorrenti privati condannati ciascuno di essi al pagamento delle spese processuali.

A cagione del titolo dei reati ascritti, in caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

La Corte, rigetta i tre ricorsi e condanna K.K. e K.G. al pagamento delle spese del procedimento.

Oscuramento dati secondo legge.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2013
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