Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 29-01-2013) 15-03-2013, n. 12263 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 07/03/2012 la Corte d’Appello di Catanzaro ha confermato la sentenza del Gip presso il Tribunale di Cosenza in data 12/07/2011 di condanna di S.R. per il reato di cui all’art. 609 bis c.p. ad anni due e mesi otto di reclusione per avere, con violenza consistita nel toglierle la maglietta, nel prenderla per i polsi, nel toglierle il reggiseno e baciarle il seno, costretto C.E. a subire atti sessuali in particolare toccandole il seno e infilandole le mani sotto le mutandine e un dito in vagina e costringendola a toccarle il pene.

2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato.

Con un primo motivo deduce violazione dell’art. 609 bis c.p. per insussistenza dell’elemento materiale e psicologico del reato, travisamento della prova ed illogica e contraddittoria motivazione nonchè mancata riqualificazione nel reato ex art. 609 quater c.p. Lamenta in particolare che la Corte abbia ritenuto attendibile la persona offesa – parte civile (unica testimone diretta) nonostante l’inspiegabile lasso di tempo di oltre cinque mesi lasciato trascorrere prima di presentare querela, il mancato accertamento della attitudine della stessa a testimoniare, e le contraddizioni interne nonchè con le dichiarazioni di altre testimoni de relato circa l’avvenuto toccamento del membro dell’imputato. In ogni caso evidenzia che nessuna violenza o minaccia sarebbe stata posta in essere posto che la ragazza, per quanto riferito da P. L., non avrebbe opposto resistenza ad essere spogliata dall’imputato. Lo stesso Gip aveva in sentenza espressamente parlato di "approfittamento dello stato di disorientamento" della ragazza mentre non si erano accertati nè un qualunque danneggiamento di indumenti della minore nè alcuna lesione sulla persona della stessa. Di qui, secondo il ricorrente, anche la mancanza dell’elemento soggettivo, posto che lo S. non aveva potuto in tal modo percepire il presunto dissenso della vittima, manifestatosi solo nella fase finale della vicenda. Del resto, una volta che la persona offesa aveva manifestato il dissenso, l’imputato non era più andato oltre, riaccompagnando la minore in chiesa. Invoca pertanto l’annullamento della sentenza o la riqualificazione nell’ipotesi di cui all’art. 609 quater c.p..

Con un secondo motivo deduce violazione dell’art. 609 bis c.p. travisamento della prova ed illogica e contraddittoria motivazione in ordine alla mancata concessione dell’attenuante del fatto lieve. Censura che, a fronte delle minime modalità e delle brevissima durata della condotta, il Gip abbia valorizzato l’approfittamento della fiducia riposta nell’uomo dalla minore nonchè i pesanti ed invasivi contatti corporei e la Corte abbia valorizzato la qualità dell’atto compiuto e la compromissione consistente della libertà sessuale della vittima, avuto riguardo all’età adolescenziale di questa, per negare l’attenuante. Tali motivazioni sarebbero illogiche ed anche errate (posto che con riguardo ai contatti corporei la stessa Corte ha affermato che gli stessi sono stati cercati ma non ottenuti). Evidenzia inoltre sul punto l’incompatibilità tra una condotta connotata da sola fugacità e rapidità e non anche violenza o minaccia e l’esclusione dell’attenuante.

Con un terzo motivo lamenta la illogica e carente motivazione in ordine alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6; evidenzia che l’imputato ha offerto banco judicis alla persona offesa dapprima la somma di Euro 4.000 e successivamente quella di Euro 5.000 entrambe rifiutate e senza effettuazione di alcuna controproposta; deduce la congruità della offerta a fronte della brevità temporale della condotta, del ravvedimento, dell’assenza di condotte sessualmente rilevanti e dell’assenza di qualsivoglia violenza; al contrario la Corte ha illogicamente motivato il diniego sulla base di un’apodittica "peculiare tipologia degli abusi sessuali subiti dalla persona offesa" mentre nessun rilievo poteva avere il turbamento o la sofferenza morale (in ogni caso non accertata da perizia) conseguiti alla "turpe esperienza" essendo le conseguenze del reato di cui all’art. 62 c.p., n. 6 solo quelle strettamente inerenti alla lesione o al pericolo di lesione del bene giuridico specificamente tutelato.

Con un quarto motivo lamenta l’illogica e carente motivazione in ordine alla determinazione della pena. Denuncia come eccessiva l’irrogazione di una pena base di anni sei motivata sulla base della gravità degli atti, in realtà non sussistente, e dei tentativi, in realtà mai posti in essere, di contattare la vittima per indurla a non raccontare i fatti; al contrario non sarebbero stati valorizzati lo stato di incensuratezza, il contegno tenuto dopo i fatti, il tentativo di risarcire i danni, l’assenza di condotte violente e l’occasionalità della condotta;

tutti elementi, questi, che avrebbero dovuto indurre i giudici a muovere da una pena base di anni cinque.

Motivi della decisione

3. Il primo motivo è inammissibile.

Va anzitutto rammentato che esulano dall’ambito di cognizione di questa Corte le doglianze che siano volte, attraverso il richiamo ai vizi di motivazione della sentenza impugnata, a sollecitare in realtà una diversa lettura o l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione dei fatti e di valutazione del compendio probatorio già esaminato dai giudici di merito.

Inammissibili, pertanto, le censure con cui il ricorrente lamenta una pretesa incompletezza delle indagini, quanto ai profili di critica coinvolgenti la valutazione delle attendibilità della persona offesa, da mantenere strettamente ancorata, per quanto appena detto, all’interno dei vizi indicati dall’art. 606 c.p.p., va osservato che la Corte territoriale ha, nell’osservanza dei criteri più volte dettati da questa Corte in ordine alla necessità che la deposizione della persona offesa può essere assunta anche da sola come fonte di prova, ove sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva (tra le tante, Sez. 6, n. 27322 del 14/04/2008, De Ritis ed altri, Rv.

240524), offerto ampia e motivata spiegazione di una tale valutazione.

Dopo avere escluso che dagli atti emergesse il benchè minimo accanimento della ragazza nei confronti dell’imputato, la Corte, in adesione a quanto già osservato dal giudice di primo grado, ha posto anzitutto in rilievo le caratteristiche della minore, adolescente di quindici anni e dalla personalità matura ed equilibrata nonchè inserita in normali relazioni familiari e sociali, con conseguente insussistenza di qualsivoglia elemento idoneo a far deporre per una possibile incapacità a testimoniare.

Nè ricorreva, proprio per tali ragioni, da riconnettersi ad età ormai non più ridotta e ad assenza di possibili elementi indicativi di patologie, alcun obbligo di procedere ad un accertamento tecnico in ordine alla predetta capacità (cfr. Sez. 3, n. 38211 del 07/07/2011, C, Rv. 251381; Sez. 3, n. 27742 del 06/05/2008, Z., Rv. 240695). Analoga esauriente e logica spiegazione la Corte ha dato con riferimento al rilevato distacco temporale tra momento di verificazione del fatto e momento in cui lo stesso venne denunciato in querela; i giudici ne hanno correttamente escluso un significato di inattendibilità sia ponendo in rilievo che, in realtà, la ragazza ebbe a confidarsi già solo due giorni dopo il fatto con la compagna di banco e, nei giorni successivi, dapprima per telefono con lo zio residente a (OMISSIS) e, successivamente, di persona, con un’altra amica, sia soffermandosi sulle difficoltà che la persona offesa, come dalla stessa dichiarato in giudizio, aveva avuto ad affrontare la vicenda con i genitori, prima di formalizzarla in querela, per paura di un loro giudizio sulla fiducia da lei riposta ingenuamente in altri. La Corte ha poi analizzato scrupolosamente la narrazione della testimone relativa ai fatti occorsi (vedi pagg. 6 e ss. della sentenza impugnata) rilevandone la linearità e la logicità ed in particolare escludendo, per venire alla specifica censura sollevata, la sussistenza di contraddizioni di sorta e l’ininfluenza della difformità, in realtà conseguita ad un più preciso ricordo intervenuto solo successivamente, tra il solo possibile toccamento del membro dell’imputato, riportato in querela, e l’effettivo toccamento, narrato in sede di sommarie informazioni. Sotto il versante dei riscontri estrinseci, la Corte ha poi rievocato le dichiarazioni delle amiche D.S. e D. L., destinatarie delle prime confidenze ed entrambe rievocanti una dinamica dei fatti coincidente con quella narrata dalla ragazza, nonchè le dichiarazioni di altre terze persone ( P., T. e M.) anch’esse destinatane di quanto accaduto alla persona offesa. Nè la Corte ha mancato di qualificare correttamente il fatto sub art. 609 bis c.p. sottolineando che la condotta, posta inizialmente in essere attraverso atti insidiosamente rapidi tali da sorprendere la vittima e da lasciarla disorientata ed impietrita, proseguì poi attraverso l’impiego di vera e propria energia fisica, essendo stata la ragazza afferrata per i polsi e costretta con la forza dapprima a sedere sulle gambe dell’uomo e poi a giacere sul divano per subire plurimi atti sessuali; sul punto ha così correttamente applicato i principi affermati da questa Corte in ordine alle modalità integratrici dell’elemento della violenza nel reato di cui all’art. 609 bis, non necessariamente caratterizzate da sopraffazione fisica, nella specie comunque posta in essere nel prosieguo dell’azione, ma anche da manovre insidiose e rapide, tali da superare la contraria volontà della persona offesa (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 27273 del 15/06/2010, M., Rv. 247932).

Nè, ancora, la Corte ha ritenuto contrastanti con una valutazione di attendibilità della persona offesa le dichiarazioni del teste Don P.L. in ordine a quanto appreso dalla ragazza, essendo anzi, queste ultime, state del tutto conformi, quanto in particolare alla mancanza di resistenza frapposta all’altrui condotta, al disorientamento e alla "paralisi" indotti inizialmente dalla repentina e inaspettata condotta dell’uomo.

Infine la Corte, proprio a fronte della dinamica fattuale emersa, ha escluso ogni possibile rilevanza nel senso di inattendibilità della versione della persona offesa alla mancanza di segni di violenza fisica o di lesioni nonchè di strappi sugli indumenti della vittima.

Parimenti i giudici di appello hanno logicamente e motivatamente disatteso le doglianze in ordine alla pretesa mancanza dell’elemento soggettivo, non potendo l’imputato avere mai avuto percezione della benchè minima adesione della vittima e avendo inoltre desistito dalla sua azione solo dopo che la ragazza era riuscita a sottrarsi alla sua presa, avvicinandosi alla porta di casa e ripetutamente urlandogli di ricondurla in chiesa.

Le doglianze del ricorrente, sostanzialmente ripropositive dei motivi di appello già motivatamente e logicamente disattesi dalla Corte di Catanzaro, sono pertanto inammissibili.

4. Il secondo motivo è manifestamente infondato. Si è più volte precisato, da questa Corte, che ai fini dell’accertamento della diminuente del fatto di minore gravità prevista dall’art. 609 bis, comma 3, c.p., deve farsi riferimento, oltre che alla materialità del fatto, a tutte le modalità che hanno caratterizzato la condotta criminosa, nonchè al danno arrecato alla parte lesa, anche e soprattutto in considerazione dell’età della stessa o di altre condizioni psichiche in cui versi (Sez. 3, n. 45604 del 13/11/2007, Mannina, Rv. 238282). Si è aggiunto che ai fini del riconoscimento della circostanza non rileva la semplice assenza di un rapporto sessuale con penetrazione, in quanto è necessario valutare il fatto nella sua complessità (Sez. 3, n. 10085 del 05/02/2009, R., Rv. 243123). Nella specie la Corte territoriale ha rilevato che, pur in assenza di penetrazione, gli atti posti in essere sono stati caratterizzati da indubbia invasività e hanno cagionato un notevole danno alla vittima in termini psichici atteso lo stato di turbamento e timore che pervadeva la ragazza allorchè, dopo il fatto, si imbatteva nell’imputato ed ancora il mutamento caratteriale notato dai genitori e il disagio e il profondo malessere emergenti dal suo diario tali da averla condotta anche a gesti di autolesionismo.

5. Il terzo motivo è infondato. La circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. è stata correttamente negata dai giudici di merito, essendosi valutata la totale inadeguatezza della somma di Euro 5.000,00 ad elidere o attenuare le conseguenze, già menzionate sopra, arrecate alla persona della vittima; nè, come implicitamente sostenuto dal ricorrente, le conseguenze del reato di violenza sessuale sono quelle sole strettamente inerenti alla libertà sessuale, incidendo indubitabilmente lo stesso anche sulla dignità e sulla psiche della persona offesa (cfr. Sez. 3, n. 19986 del 08/04/2009, Amlil Rv.243767, non massimata sul punto), le quali, quindi, non possono non rientrare nella valutazione complessiva da effettuarsi in punto di applicabilità dell’art. 62 n. 6 c.p..

6. Il quarto motivo è, infine, manifestamente infondato. E’ principio costantemente espresso da questa Corte quello per cui, nell’ipotesi in cui la determinazione della pena non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, il giudice ottempera all’obbligo motivazionale anche ove adoperi espressioni come "pena congrua", "pena equa", "congruo aumento", ovvero si richiami alla gravità del reato o alla personalità del reo (Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007, Ruggieri, Rv. 237402). Nella specie la Corte territoriale ha ritenuto la pena base, determinata in anni sei e, dunque, in misura di poco superiore al minimo edittale, come conforme ai parametri di cui all’art. 133 c.p. nonchè proporzionata, in particolare, all’indubbio disvalore dei fatti e alla peculiare intensità del dolo dimostrato, avendo l’imputato, con un pretesto, condotto a casa propria la ragazza onde abusarne, ostando dunque, tali elementi, secondo una conclusione esente da illogicità di sorta, ad una riduzione della sanzione sino al minimo edittale assoluto.

7. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè della rifusione in favore della parte civile costituita delle spese di patrocinio da essa sostenute nel grado e da liquidarsi in complessivi Euro 2.500,00 oltre accessori.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione in favore della parte civile delle spese di lite del grado liquidate in complessivi Euro 2.500,00 oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2013
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