Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-07-2012, n. 13492

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Svolgimento del processo
La commissione tributaria regionale della Lombardia ha confermato la decisione con la quale la commissione tributaria provinciale di Milano aveva accolto un ricorso della XXX s.r.l. contro un atto di irrogazione di sanzioni amministrative per violazioni riscontrate nella importazione di partite di maglieria dalla Giamaica in esenzione dal dazio.
Le violazioni erano state contestate a seguito della invalidazione di certificati Eur 1 circa l’origine preferenziale giamaicana delle merci in questione. La commissione, nel contesto tipico-sanzionatorio della fattispecie di cui all’art. 303, commi 1 e 3, del Tuld, ha ritenuto la norma insuscettibile di interpretazione estensiva e tale da non consentire di far rientrare il concetto di origine del prodotto importato – inciso dalla invalidazione dei certificati – in quello, giustappunto tipizzato, di qualità del medesimo.
Ha comunque evidenziato che, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, la sanzione poteva essere applicata solo laddove fossero stati accertati il dolo o la colpa del trasgressore, con onere probatorio in capo all’ufficio; e che, nella specie, nessuna prova era stata fornita al fine di potersi apprezzare l’elemento soggettivo dell’importatore, pacifico essendo che la documentazione doganale era stata redatta sulla base delle dichiarazioni dell’esportatore, attestanti l’origine giamaicana dei tessuti.
Per la cassazione della sentenza di secondo grado l’agenzia delle dogane ha proposto ricorso affidato a tre motivi.
L’intimata ha replicato con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato una memoria.
Motivi della decisione
1. – Col primo motivo l’amministrazione, denunciando violazione ed errata applicazione dell’art. 303 del Tuld, del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3 e dell’art. 12 preleggi, ascrive alla sentenza di avere malamente interpretato, nel corpo dell’art. 303 cit., il significato del termine "qualità" impiegato a proposito della merce oggetto di importazione.
Assume doversi ritenere prevista e punita dalla disposizione de qua ogni ipotesi di difformità/falsità della dichiarazione concernente gli elementi essenziali ai fini della determinazione delle imposte applicabili; vale a dire, appunto, la qualità, la quantità e il valore, come pure l’origine e la provenienza della merce medesima.
Il motivo è concluso dal quesito ""se la sanzione prevista dal D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 303 colpisce tutte le difformità della dichiarazione doganale riscontrate in sede di accertamento, ivi comprese quelle sull’origine delle merci (..) e, quindi, se è soggetta alle sanzioni irrogate dall’agenzia delle dogane con l’atto in contestazione di cui è causa la controparte per la falsa/difforme dichiarazione di origine delle merci contestata dalla dogana, in relazione anche all’art. 12 preleggi e D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3".
Col secondo motivo la ricorrente denunzia un’ulteriore violazione (o falsa applicazione) dell’art. 303 del Tuld, nonchè del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 e dell’art. 2697 c.c., imputando alla sentenza di avere errato in quanto il citato D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 non limita la responsabilità per le sanzioni amministrative, ma pone una presunzione di colpevolezza che sta al responsabile superare a mezzo di riscontri probatori precisi.
In sostanza, e con idoneo quesito, l’amministrazione assume che l’importatore, che utilizza certificati di origine irregolari, deve ritenersi responsabile anche per le afferenti sanzioni qualora non provi – secondo il principio di cui all’art. 2697 c.c. – di aver adottato la necessaria diligenza professionale nella verifica della correttezza dell’operato dei soggetti da cui provengono le certificazioni (e le dichiarazioni) all’uopo utilizzate quanto all’origine preferenziale della merce.
Col terzo motivo la ricorrente denunzia infine il vizio di insufficiente motivazione della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 5) ascrivendole di aver omesso di fornire adeguata spiegazione dell’iter logico seguito quanto al profilo concernente l’operatività dell’art. 303 del Tuld.
2. – II primo motivo è fondato.
Giova premettere che, in base all’accordo di Cotonou, di partenariato tra i membri del gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP), da un lato, e la Comunità Europea e i suoi Stati membri, dall’altro, i prodotti originari dei suddetti Stati ACP sono ammessi all’importazione nella Comunità Europea "in esenzione da dazi doganali e da tasse d’effetto equivalente".
In proposito, secondo il protocollo n. 1 dell’allegato V dell’accordo, si considerano originari degli Stati ACP i prodotti interamente ottenuti negli Stati detti e i prodotti ottenuti nei medesimi in cui siano incorporati materiali non interamente ottenuti sui loro territori a condizione che codesti siano stati oggetto, negli Stati de guibus, di lavorazioni o trasformazioni sufficienti ai sensi dell’art. 4 del medesimo protocollo.
La prova dell’origine, secondo quanto ancora stabilito nel titolo 4^ del ridetto protocollo n. 1, devesi ricavare in linea generale dal certificato di circolazione – cd. Eur 1 – rilasciato dalle autorità doganali del paese esportatore in base ai documenti intesi a comprovare, a onere dell’impresa esportatrice, il carattere originario dei prodotti in questione.
Ora, l’art. 303 del Tuld così dispone:
"Qualora le dichiarazioni relative alla qualità, alla quantità ed al valore delle merci destinate alla importazione definitiva, al deposito o alla spedizione ad altra Dogana con bolletta di cauzione, non corrispondano all’accertamento, il dichiarante è punito con la sanzione amministrativa da lire duecentomila a lire un milione.
La precedente disposizione non si applica:
a) quando nei casi previsti dall’art. 57, lett. d), pur essendo errata la denominazione della tariffa, è stata indicata con precisione la denominazione commerciale della merce, in modo da rendere possibile l’applicazione dei diritti;
b) quando le merci dichiarate e quelle riconosciute in sede di accertamento sono considerate nella tariffa in differenti sottovoci di una medesima voce, e l’ammontare dei diritti di confine, che sarebbero dovuti secondo la dichiarazione, è uguale a quello dei diritti liquidati o lo supera di meno di un terzo;
c) quando le differenze in più o in meno nella quantità o nel valore non superano il cinque per cento per ciascuna qualità delle merci dichiarate.
Se i diritti di confine complessivamente dovuti secondo l’accertamento sono maggiori di quelli calcolati in base alla dichiarazione e la differenza supera il cinque per cento, la sanzione amministrativa, qualora il fatto non costituisca più grave reato, è applicata in misura non minore dell’intero ammontare della differenza stessa e non maggiore del decuplo di essa. Tuttavia, se tale differenza dipende da errori di calcolo, di conversione della valuta estera o di trascrizione commessi in buona fede nella compilazione della dichiarazione ovvero è dovuta ad inesatta indicazione del valore semprechè il dichiarante abbia fornito tutti gli elementi necessari per l’accertamento del valore stesso, si applica la sanzione amministrativa non minore del decimo e non maggiore dell’intero ammontare della differenza stessa".
La norma, seppure distinta nei termini anzidetti, contempla un’unica fattispecie sanzionatoria, giacchè questa Corte ha affermato che il comma 3, art. 303 configura, rispetto all’ipotesi contemplata nel comma 1, una mera circostanza aggravante, comportante solo una maggiorazione dell’entità della stessa sanzione di cui al comma 1 per il che, s’è detto, ove ricorra una delle ipotesi contemplate dal comma 2, danti luogo alla non applicazione di sanzioni, non può trovare applicazione neppure la disposizione di cui al comma 3 (v.
Cass. n. 2590/1999).
Il senso ultimo è che la sanzione consegue all’avere sottratto l’importazione al dazio attraverso il nascondimento di uno degli elementi all’uopo rilevanti.
Invero l’interpretazione dell’art. 303 del Tuld non può essere dissociata dalla finalità assunta dalla dichiarazione in seno al meccanismo di determinazione del trattamento doganale.
In siffatta prospettiva i termini impiegati nel comma 1, art. 303 (qualità, quantità e valore) costituiscono un’esemplificazione dell’elemento oggettivo destinato all’importazione e specificamente considerato ai fini del pagamento del dazio. E vogliono sottintendere la relazione di necessaria corrispondenza (sostanziale) che deve correre tra l’oggetto della dichiarazione doganale e l’oggetto dell’accertamento.
La dichiarazione doganale, del resto, in base al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 4, deve contenere (lett. e) "la descrizione delle merci con l’indicazione della posizione di tariffa, della qualità, della quantità, del valore e di ogni altro elemento occorrente per la liquidazione dei diritti".
3. – In linea generale, nel concetto di "qualità" di una merce rientra qualsiasi caratteristica, proprietà o condizione che serva a determinarne la natura, e a distinguerla da altre simili.
Dunque vi rientra anche l’origine (o la provenienza), in quanto elemento sintomatico delle specificità del prodotto.
E del resto non giova la sottolineatura che l’art. 57 del Tuld, prima dell’abrogazione conseguente al D.Lgs. n. 374 del 1990, come pure il già visto art. 4, D.Lgs. ult. cit., ha imposto di indicare, in dichiarazione doganale, il luogo di origine e di provenienza in topografica separazione (lett. c) rispetto alla descrizione delle merci per posizione di tariffa, qualità, quantità e valore (lett. e).
La menzione (nella lett. c) dei "luoghi di origine, di provenienza e di destinazione delle merci" rileva al fine di compiuta indicazione dell’oggetto dell’attività di importazione, come può agevolmente desumersi dal fatto che la stessa "quantità" e "natura dei colli" (con le marche, sigle o cifre identificative) è ancora prevista nella lett. d), oltre che nella lett. e). Per cui può convenirsi che, tanto le indicazioni di cui alla lett. c) (luoghi di origine, di provenienza e di destinazione), quanto quelle di cui alla lett. d) (quantità e natura dei colli con marche, sigle o cifre identificative), sono assunte, in seno al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 4, in funzione del controllo sulle caratteristiche complessive del prodotto importato.
Ciò non toglie che, ai fini della liquidazione del dazio, si impone (lett. e) che la dichiarazione doganale contenga la descrizione delle merci con l’indicazione della posizione di tariffa, della qualità, della quantità, del valore "e di ogni altro elemento occorrente per la liquidazione dei diritti".
In quanto partecipe della caratteristica funzione distintiva del concetto di "qualità" del prodotto, e in quanto comunque costituente elemento significativo per la liquidazione del tributo (tanto da potersi giustificare l’esenzione dal dazio giustappunto in dipendenza di essa), l’origine della merce importata rileva comunque, ove la dichiarazione doganale risulti sul punto mendace, ai fini dell’applicazione della sanzione di cui all’art. 303 del Tuld.
Giacchè l’origine rappresenta uno degli elementi significativi per stabilire la debenza, o meno, del tributo in base alle condizioni dettate dalla normativa comunitaria in tema di agevolazioni daziarie, e in considerazione della genesi dell’obbligazione doganale siccome correlata all’inosservanza delle condizioni dettate (art. 202 del codice doganale comunitario) per le merci aventi un particolare regime giuridico (cfr. per spunti Cass. n. 15297/2008).
Da questo punto di vista non si tratta quindi – come invece ipotizzato dalla commissione regionale – di un’interpretazione estensiva in malam partem dell’art. 303 del Tuld..
Si tratta di un’interpretazione letterale, essendo annoverabile l’origine (o la provenienza) della merce – ai fini del trattamento daziario – in seno agli elementi caratteristici sintomatici della qualità; ovvero – il che è lo stesso – essendo la qualità un predicato anche dell’origine e della provenienza.
4. – Egualmente fondato è il secondo motivo.
La commissione regionale, partendo dalla incontestata premessa che il mancato pagamento del tributo era dipeso dalla condotta dell’esportatore, che aveva dichiarato un’origine della merce diversa da quella reale, ha reso la decisione sulla considerazione giuridica che la colpevolezza dell’importatore "va individuata, altresì e con onere probatorio a carico dell’ufficio, secondo i principi generali che regolano detto esercizio, mediante apposita indagine sull’accertata sussistenza (almeno) della colpa per negligenza, imprudenza o imperizia, o violazione di norme di legge, sia pure sotto il profilo (minimo e nei limiti di ammissibilità) della leggerezza e superficialità".
La considerazione è errata dal momento che questa Corte, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, ha costantemente affermato che, ai fini dell’affermazione di responsabilità del contribuente, ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, citato art. 5, occorre che l’azione od omissione causativa della violazione sia volontaria, ossia compiuta con coscienza e volontà, e colpevole, ossia compiuta con dolo o negligenza; e che la prova della mancanza di colpa grava sul contribuente (v., per varie applicazioni, ex plurimis Cass. n. 1068/2011; n. 4171/2009; n. 3011/2007; n. 22890/2006).
Consegue che, diversamente da quanto sostenuto dall’impugnata sentenza, ai fini dell’affermazione della responsabilità del contribuente non era richiesto altro che la prova dell’elemento oggettivo della violazione, giacchè il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, comma 1, applicando alla materia fiscale il principio di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 3, ritiene sufficiente, ai fini della punibilità, l’elemento psicologico della colpa, peraltro presunta a carico di colui che abbia posto in essere l’atto vietato.
5. – in accoglimento dei primi due motivi, dunque, l’impugnata sentenza va cassata.
Non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, posto che dalla sentenza non si evince che la società contribuente abbia in concreto finanche soltanto allegato elementi di prova finalizzati al superamento della summentovata presunzione di colpevolezza (id est, elementi positivi di non colpa). E anzi appare logicamente ostativa al riguardo l’insistenza della società sulla conferma del diverso criterio di ripartizione dell’onere della prova inter partes.
Donde alla cassazione dell’impugnata sentenza può far luogo la decisione di rigetto nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, dell’originaria impugnazione della società avverso gli atti di irrogazione di sanzioni.
Il terzo motivo resta assorbito.
6. – Le spese del giudizio tributario possono essere compensate per giusti motivi, attesa l’inesistenza di precedenti giurisprudenziali a proposito della questione posta col primo motivo dell’odierno ricorso.
Quelle del giudizio di cassazione seguono, invece, la soccombenza dell’intimata.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo, assorbito il terzo;
cassa l’impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, rigetta l’impugnazione avverso gli atti di irrogazione di sanzioni; compensa le spese dei due gradi del giudizio di merito e condanna l’intimata al pagamento di quelle del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.000,00, oltre le spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012

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