Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-07-2012, n. 13488

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/




Svolgimento del processo
1. – La XXX s.p.a. acquistò, fino all’anno 2004, quantitativi di merce (capi di maglieria) di asserita provenienza giamaicana, scortati da apposito certificato Eur 1 e quindi soggetti a esenzione dal trattamento daziario in base all’accordo di partenariato del 23.2.2000 (cd. accordo di Cotonou) tra la Comunità Europea e i paesi della cd. area ACP (Africa, Caraibi e Pacifico).
A seguito di indagini eseguite dall’organismo comunitario Olaf, le autorità giamaicane attestarono l’irregolarità dei redatti certificati Eur 1 in ordine all’origine preferenziale (giamaicana) della merce in questione; donde l’amministrazione doganale provvide alla revisione degli accertamenti quanto all’importazione effettuata, notificando alla società importatrice, in funzione di recupero dei tributi doganali, il previsto avviso di rettifica di cui all’art. 78 del Regolamento n. 2913/92 CE (codice doganale comunitario).
2. La Commissione tributaria provinciale di Milano, adita dalla società, annullò l’avviso.
La decisione venne però riformata, su gravame dell’amministrazione, dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, la quale rilevò che l’atto impositivo dovevasi ritenere sufficientemente motivato per relationem agli elementi di fatto infine trasfusi nella relazione dell’Olaf, da cui era emerso che gli esportatori, al fine di ottenere il rilascio dei certificati Eur 1, avevano fornito alla dogana giamaicana false dichiarazioni sull’origine preferenziale dei capi di maglieria esportati verso i paesi dell’Unione Europea. Pertanto, proseguì, il divieto di contabilizzazione a posteriori dei dazi non potevasi considerare operante perchè la mancata tempestiva contabilizzazione non era dipesa da un errore dell’autorità doganale, ma dall’inganno operato dalle imprese esportatrici quanto alla situazione attestata dai certificati preferenziali Eur 1.
Infine la commissione regionale negò dignità di prova – per il fatto di non essere ammessi, nel giudizio tributario, nè il giuramento, nè la prova testimoniale – a un affidavit prodotto dalla società appellata a sostegno di un’eccezione di merito circa la previa informazione dell’autorità doganale giamaicana dell’inesistenza delle condizioni per fruire del regime preferenziale; eccezione correlata alle dichiarazioni di tale O. M. in relazione a un instaurando contenzioso estero degli esportatori contro le citate autorità doganali. Le dette dichiarazioni, invero, la commissione regionale ritenne insuscettibili di costituire fonte di prova a sostegno dell’eccezione medesima; sicchè, in conclusione, considerò legittima la contabilizzazione dei dazi operata a posteriori e accolse l’appello dell’amministrazione doganale.
3. – Ha proposto ricorso per cassazione, contro la sentenza di secondo grado, la XXX s.p.a., già XXX s.p.a., articolando nove motivi.
L’intimata ha replicato con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato una memoria.
Motivi della decisione
1. – Appare opportuno far precedere allo scrutinio dei singoli motivi di ricorso, tra loro suscettibili di unitario esame siccome afferenti a medesime questioni giuridiche, alcune considerazioni di ordine generale sui principi che governano la materia della cd.
contabilizzazione a posteriori dei tributi doganali.
1/a. – E’ difatti preliminare il rilievo che, in base all’accordo di Cotonou, di partenariato tra i membri del gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP), da un lato, e la Comunità Europea e i suoi Stati membri, dall’altro, i prodotti originari dei suddetti Stati ACP sono ammessi all’importazione nella Comunità Europea "in esenzione da dazi doganali e da tasse d’effetto equivalente".
In proposito, secondo il protocollo n. 1 dell’allegato V dell’accordo, si considerano originari degli Stati ACP i prodotti interamente ottenuti negli Stati detti e i prodotti ottenuti nei medesimi in cui siano incorporati materiali non interamente ottenuti sui loro territori a condizione che codesti siano stati oggetto, negli Stati de guibus, di lavorazioni o trasformazioni sufficienti ai sensi dell’art. 4 del medesimo protocollo.
La prova dell’origine, secondo quanto ancora stabilito nel titolo 4^ del ridetto protocollo n. 1, devesi ricavare in linea generale dal certificato di circolazione – cd. Eur 1 – rilasciato dalle autorità doganali del paese esportatore in base ai documenti intesi a comprovare, a onere dell’impresa esportatrice, il carattere originario dei prodotti in questione.
Il profilo controverso riguarda le condizioni per il recupero del dazio (cd. contabilizzazione a posteriori) nel caso in cui la concessione di un trattamento preferenziale, subordinato – come nel caso di specie – alla presentazione di certificati di origine della merce esportata (Eur 1), risulti invalidata dal successivo riscontro di irregolarità dei certificati stessi quanto alle caratteristiche della merce.
Nel caso concreto è stato accertato dal giudice del merito, alla luce delle risultanze degli atti ispettivi allegati e richiamati in esito alle indagini eseguite dall’Olaf, che le partite di merce esportata verso la Comunità Europea, non costituite esclusivamente da filati, non potevano essere ritenute originarie della Giamaica; e che i certificati afferenti, seppure "autentici" quanto ai prodotti spediti (nel senso di coerenti all’oggetto materiale della spedizione), si erano rivelati inesatti quanto all’origine effettiva dei medesimi, così come riconosciuto dall’autorità doganale giamaicana a conclusione della missione dell’Olaf.
I/b. – Conformemente all’art. 220 del codice doganale comunitario oggi abrogato dall’art. 186 del Regolamento (CE) n. 450 del 23-4-2008 del Parlamento Europeo e del Consiglio – recante il cd. codice doganale aggiornato – ma nella fattispecie applicabile ratione temporis, "quando l’importo dei dazi risultante da un’obbligazione doganale non sia stato contabilizzato ai sensi degli artt. 218 e 219 o sia stato contabilizzato ad un livello inferiore all’importo legalmente dovuto, la contabilizzazione dei dazi da riscuotere o che rimangono da riscuotere deve avvenire entro due giorni dalla data in cui l’autorità doganale si è resa conto della situazione in atto ed è in grado di calcolare l’importo legalmente dovuto e di determinarne il debitore (contabilizzazione a posteriori). Questo termine può essere prorogato conformemente all’art. 219".
In tali casi, il par. 2, lett. b), del citato art. 220 – nel testo sostituito dall’art. 1 del Regolamento (CE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2700 del 16-11-2000 che qui in ogni caso rileva, trattandosi di fattispecie venute in essere tra il 2002 e il 2004 fermo restando che – come stabilito da Corte giust. 9.3.2006, causa C- 293/04 – le relative disposizioni, ancorchè di natura sostanziale, restano applicabili anche alle obbligazioni sorte anteriormente, stante il carattere essenzialmente interpretativo delle stesse, in funzione della certezza del diritto e del rafforzamento di tutela dell’operatore economico – soggiunge che non si procede alla contabilizzazione a posteriori quando "l’importo dei dazi legalmente dovuto non è stato contabilizzato per un errore dell’autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione in dogana"; con la precisazione, però, che "quando la posizione preferenziale di una merce è stabilita in base ad un sistema di cooperazione amministrativa che coinvolge le autorità di un paese terzo, il rilascio da parte di queste ultime di un certificato, ove esso si riveli inesatto, costituisce, ai sensi del comma 1, un errore che non poteva ragionevolmente essere scoperto".
Prosegue la norma affermando che "il rilascio di un certificato inesatto non costituisce tuttavia un errore in tal senso se il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore, salvo se, in particolare, è evidente che le autorità che hanno rilasciato il certificato erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale".
Sempre in base alla citata lett. b) dell’art. 220, par. 2, del codice doganale comunitario, "la buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale". Ma "il debitore non può tuttavia invocare la buona fede qualora la Commissione Europea abbia pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee un avviso in cui sono segnalati fondati dubbi circa la corretta applicazione del regime preferenziale da parte del paese beneficiario".
1/c. – La disposizione traduce principi affermati nella giurisprudenza comunitaria (v., oltre alla già citata sent.
Beemsterbeoer, C. giust. 4.11.2002, c-251/00; C. giust. 19.10.2000, C- 15/99; C. giust. 14.5.1996 C-153/94 e C-204/94), e già da questa sezione accolti finanche in fattispecie anteriori al ripetuto Regolamento n. 2913/92. Alla stregua di codesti principi (v. in particolare Corte giust. 14.11.2002, causa C-251/00; Corte giust.
9.3.2006, causa C-293/04 e da ultimo Corte Giust. 15.12.2011, causa C- 409/10) è da ritenere in definitiva consolidato che: (i) le conclusioni del controllo a posteriori di certificati Eur 1 rilasciati dallo Stato di esportazione (art. 32 del prot. 1 dell’allegato V dell’accordo citato) – controllo effettuabile non soltanto quando lo Stato membro di importazione lo richieda, ma anche in via generale tutte le volte in cui esistano indizi idonei a far ritenere esistente una irregolarità sull’origine delle merci importate (cfr. Corte giust. 9.2.2006, cause riunite C-23/04 e C- 25/04) – si impongono alle autorità dello Stato membro di importazione alla stregua di valutazioni legalmente effettuate e accettate (v. Corte giust. 25.2.2010, causa C-386/08).
Donde non rilevano previsioni di ordine formale, dal momento che il verbale d’indagine condotto al riguardo dall’Olaf, sottoscritto per conto dello Stato ACP di esportazione, contenente la constatazione che i certificati Eur 1 sono inesatti (e quindi malli), ha l’effetto di rendere siffatti risultati opponibili alle (e vincolati per le) autorità dello Stato membro di importazione (così Corte giust.
15.12.2011, causa C-409/10).
(ii) In tali casi, l’importatore non può opporsi al recupero a posteriori del dazio facendo valere che non può escludersi che talune delle merci abbiano avuto, in realtà, l’origine preferenziale indicata nei certificati (e difatti in tal senso Corte giust.
15.12.2011, causa O 409/10).
(iii) Può rilevare, in senso favorevole all’importatore, soltanto il divieto di contabilizzazione a posteriori di tributi doganali di cui al più volte citato art. 220, par. 2, lett. b, del codice doganale comunitario.
Il quale però suppone la concorrente esistenza di tutte le condizioni ivi previste (v. Cass. n. 8481/2010; n. 15297/2008).
E in tale prospettiva (v. Corte giust. 9.3.2006 C-293/04 Beemsterboer, adottata giustappunto in sede di rinvio pregiudiziale di interpretazione ex art. 234 del Trattato) spetta alle autorità doganali – conformemente alle regole tradizionali di ripartizione dell’onere della prova dimostrare che il rilascio di certificati inesatti, che danno diritto al recupero daziario, è imputabile all’inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore; il che esclude l’errore "attivo" dell’autorità competente quale causa esimente della contabilizzazione a posteriori, e rende irrilevante la protesta di buona fede dell’importatore.
Ove una tale dimostrazione non sia possibile per fatto dell’esportatore stesso, e segnatamente per la mancata conservazione della documentazione giustificativa, l’onere si inverte ed è il debitore che deve provare essenzialmente e innanzi tutto che i certificati rilasciati dalle autorità dei paesi terzi erano fondati su una esatta rappresentazione di quei fatti.
(iv) Spetta così, in linea di principio, alle autorità doganali fornire la prova che il rilascio dei certificati inesatti è imputabile all’inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore.
E tuttavia, qualora a seguito di una negligenza imputabile soltanto all’esportatore le autorità doganali si trovino nell’impossibilità di fornire la prova necessaria del fatto che il certificato di circolazione delle merci Eur 1 è stato rilasciato sulla base della presentazione esatta o inesatta dei fatti da parte dell’esportatore stesso, incombe al debitore dei dazi dimostrare che tale certificato, rilasciato dalle autorità del paese terzo, si basava su una esatta presentazione di quei fatti.
2. – Tanto considerato da un punto di vista generale, può osservarsi che, merce i primi cinque motivi, la ricorrente censura l’impugnata sentenza in relazione al rinvio operato alle risultanze del verbale dell’Olaf quanto ai presupposti probatori messi a base dell’affermata legittimità del recupero del dazio.
Segnatamente la società deduce:
(i) col primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 9, par. 1 e 2, del Reg.
n. 1073/1999 CE, 7, della L. n. 212 del 2000, sostenendo che si sarebbe dovuto attribuire valenza probatoria, nei procedimenti amministrativi o giudiziari instaurati negli Stati membri dell’Unione, al solo rapporto finale dell’Olaf, non anche agli atti prodromici ed endoprocedimentali di questo;
(ii) col secondo motivo, ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 e del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5-bis, stante che la pretesa tributaria sarebbe stata infine motivata esclusivamente per relationem ai succitati atti endoprocedimentali;
(iii) col terzo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omessa o insufficiente motivazione sul fatto controverso costituito dalla "possibilità oppur no di trarre, dalla relazione finale dell’Olaf citata in narrativa, conclusioni diverse da quelle esposte nei verbali di indagine (.. ) che ne costituiscono atto procedimentale";
(iv) col quarto motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 23 e 54, affermando che essa contribuente – resistente all’avverso appello – ben poteva, anche senza impugnazione incidentale, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di merito, formulare contestazioni al motivo di gravame concernente la natura di elemento di prova del verbale dell’Olaf utilizzato ai fini dell’accertamento del tributo;
(v) col quinto motivo, infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la contraddittoria motivazione sul fatto controverso decisivo "rappresentato dalla natura di mera argomentazione in replica alle eccezioni dell’ufficio delle dogane (..), delle deduzioni svolte (..) in ordine alla impossibilità di considerare il verbale della missione Olaf come un elemento di prova".
in. – Nessuno dei detti motivi può considerarsi centrato e valevole allo scopo.
3/a. – I primi due sono invero infondati, giacchè, per quanto detto e in ogni caso alla luce del consolidato orientamento di questa sezione, in materia di tributi doganali non solo la relazione finale dell’Olaf, ma in generale – come esattamente affermato dalla commissione regionale – gli accertamenti compiuti dal detto organo esecutivo della commissione Europea (di propria iniziativa o su segnalazione degli Stati membri), ai sensi del Reg. n. 1073/1999 CE, a posteriori o quando comunque vi sia motivo di dubitare dell’autenticità della documentazione relativa all’origine preferenziale della merce, hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari instaurati all’interno dei singoli Stati dell’Unione; sicchè possono essere posti a fondamento dell’avviso di recupero dei dazi, spettando al contribuente – che ne contesti le risultanze – fornire la prova di elementi contrari, idonei a far ritenere comunque sussistenti le condizioni di applicabilità del regime agevolativo (v. tra le tante Cass. n. 4997/2009; n. 23985/2008).
Il giudice d’appello, d’altronde, ha ritenuto non indeterminate le conclusioni raggiunte dall’Olaf a seguito della svolta attività d’indagine, considerate le caratteristiche dei prodotti importati, non confezionati esclusivamente in loco a partire dal filato, sebbene ottenuti dall’unione di parti finite di origine cinese, e dunque non originari della Giamaica. Ha quindi coerentemente concluso che simili risultanze, confluite nel verbale conclusivo della missione, potevano costituire valida fonte di prova.
La conclusione è giuridicamente corretta, per quanto esposto a riguardo della valenza delle risultanze degli atti ispettivi dell’organismo antifrode, allegati o richiamati nell’avviso di recupero.
Mentre la valutazione del risultato probatorio è questione di merito, sottratta al sindacato della Corte se non nel profilo della logicità e adeguatezza della motivazione.
3/b. – Per quanto si apprende dall’esposizione che precede la formulazione dei quesiti di diritto, la via prescelta dalla ricorrente per contrastare l’apprezzamento della commissione regionale risulta poi incentrata sulla contestazione del contenuto del verbale dell’Olaf richiamato nell’atto impositivo, siccome asseritamente equivoco quanto alla riferibilità ai capi da essa importati.
Ma in proposito la doglianza si risolve nella prospettazione di profili di merito attinenti al risultato e alla valutazione della prova, preclusi in sè dinanzi a questa Corte di legittimità, e in ogni caso non consentiti dal sopra esposto vincolo derivante dalle conclusioni dell’Olaf circa l’irregolarità dei certificati Eur 1;
rispetto alle quali conclusioni l’importatore non è ammesso a far valere che non si può escludere che talune delle merci importate abbiano avuto l’origine preferenziale attestata dal certificato.
3/c. – Il quarto motivo non assume rilevanza una volta esclusa la fondatezza della tesi sopra considerata. Invero, sebbene dovendosi correggere il rilievo dell’impugnata sentenza circa l’assunta necessità dell’appello incidentale al fine di contestare la valenza probatoria del verbale di missione dell’Olaf (invero così non è, dal momento che la contestazione anzidetta costituisce una mera difesa avverso le argomentazioni caratterizzanti l’impugnazione principale, come tale suscettibili di ingresso senza necessità di impugnazione incidentale), il motivo è comunque assorbito dalla decisione della questione giuridica sottostante. La quale, afferendo alla riconosciuta valenza, più che della relazione, degli accertamenti dell’Olaf (poi trasfusi nel verbale conclusivo della missione d’indagine), precede nell’ordine logico-giuridico il quarto motivo e ne condiziona l’esito.
3/d. – Il terzo e il quinto motivo sono invece inammissibili in quanto – come chiaramente può evincersi dalle sopra riportate sintesi finali – attengono alla soluzione offerta dal giudice di merito in ordine alle prospettate questioni giuridiche.
E quindi non traducono censure coerenti col richiamato art. 360 c.p.c., n. 5, posto che codesta norma suppone che oggetto di critica – supportata dalla chiara enunciazione del fatto controverso decisivo per il giudizio – sia appunto la motivazione in fatto dell’impugnata sentenza.
4. – I restanti motivi (dal sesto al nono) concernono il profilo, escluso dalla commissione tributaria regionale lombarda, del divieto della contabilizzazione del dazio a posteriori ai sensi dell’art. 220, par. 2, lett. b), del codice doganale comunitario.
Tre di questi motivi (il sesto, l’ottavo e il nono) denunciano vizi di motivazione; mentre uno (il settimo) lamenta una violazione di norme di diritto.
In tal guisa si deduce:
(i) col sesto motivo, omessa e contraddittoria motivazione per avere la commissione affermato che la società appellata aveva riconosciuto la correttezza della tesi dell’amministrazione doganale sul fatto di non potersi considerare le autorità giamaicane in errore, ai sensi dell’art. 220 cit., in quanto in vero ingannate dalle esportatrici;
donde il punto controverso sarebbe nella specie costituito dall’avvenuto riconoscimento anche implicito della correttezza della deduzione doganale;
(ii) col settimo motivo, la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e dell’art. 111 Cost., in ordine alla ritenuta inammissibilità, nel processo tributario, della produzione dell’affidavit contenente le dichiarazione rese dall’ O. all’estero;
(iii) con l’ottavo motivo, l’omessa motivazione in ordine alla natura e alla funzione – di dichiarazione di terzo su circostanze di fatto suscettibili di apprezzamento giudiziale – del citato documento sottoscritto da O.;
(iv) col nono motivo, l’omessa motivazione del contenuto del documento citato, al fine di valutare la condotta delle autorità doganali che avevano rilasciato i certificati Eur 1, le quali autorità – secondo la tesi – sapevano o avrebbero dovuto ragionevolmente sapere dell’insussistenza dei presupposti del rilascio.
5. – Anche codesti mezzi, tra loro chiaramente connessi e suscettibili di unitario esame, appaiono in gran parte inammissibili e comunque infine infondati.
5/a. – Il sesto motivo assume che punto controverso, ai fini dell’enunciato vizio di omessa e contraddittoria motivazione, sia rappresentato "dall’esistenza oppure no (..) di un riconoscimento, anche implicito, della correttezza della deduzione della dogana laddove questa afferma che le autorità doganali non possono considerarsi in errore (..) in quanto le stesse, in maniera fraudolenta, sono state ingannate dalle società esportatrici".
A parte la scarsa intelligibilità dell’ inciso in lingua italiana, quanto al soggetto della prospettata affermazione (che pare riferita alla dogana, e non alla sentenza), risulta evidente che la ricorrente confonde il fatto controverso (rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) con la questione giuridica sottostante. Per quanto dalla sentenza risulta, la questione atteneva alle condizioni di ravvisabilità dell’errore attivo delle autorità doganali; errore attivo da intendersi nel senso rammentato al superiore punto 1.
La soluzione di tale questione giuridica prescinde del tutto dal valore (di condivisione o di negazione) attribuibile alle tesi prospettate in causa; e quindi non è incisa affatto da un eventuale riconoscimento di validità della corrispondente affermazione dell’autorità doganale. Nè in questi termini appare risolta dall’impugnata sentenza, che ha fatto corretta applicazione dei principi tratti dalla già citata sentenza 9.3.2006 della Corte di giustizia (causa 0293/04).
5/b. – I restanti motivi sono incentrati sull’addebito di avere la commissione regionale omesso di esaminare la documentazione prodotta (l’affidavit di O.), al fine di affermare la sussistenza dell’errore (o addirittura del dolo) delle autorità giamaicane nell’ottica di cui all’art. 220, par. 2, lett. b), del citato codice doganale comunitario.
E tuttavia si infrangono con la necessità di previo inquadramento del fatto nella specifica situazione individuata dalla normativa comunitaria.
Come visto all’inizio, la condizione previa dell’art. 220, 2 co., lett. b), del codice doganale comunitario è che l’errore dell’importatore sia incolpevole in quanto imputabile a un comportamento attivo delle autorità doganali nel rilasciare le certificazioni all’esito dei controlli che esse erano tenute a fare sulle dichiarazioni di provenienza degli esportatori (v. Cass. n. 13680/2009; n. 7837/2010; n. 1583/2012; n. 4022/2010).
L’importatore, cioè, può utilmente invocare il legittimo affidamento di cui al già visto art. 220 del codice doganale comunitario soltanto ove (i) il rilascio irregolare dei certificati sia previamente dovuto a un errore delle autorità doganali, (ii) non determinato da una situazione inesatta riferita dall’esportatore, (iii) a sua volta non ragionevolmente rilevabile dal debitore di buona fede il quale (iv) abbia comunque osservato tutte le prescrizioni della normativa in vigore (cfr. Corte giust. 14.5.1996, cause riunite C-153/94 e C-204/94; Corte giust. 3.3.2005, causa C- 499/03; Corte giust. 18.10.2007, causa C-173/06; infine Corte giust.
15.12.2011 cit.). Ebbene è risolutivo osservare che in nessuna delle sintesi redatte in fondo all’esposizione dei motivi – finanche tenendosi conto delle risultanze anteriormente mentovate che pur non rilevano, secondo la giurisprudenza delle sezioni unite di questa Corte, ove non autonomamente sintetizzate – in maniera da non ingenerare incertezze – a conclusione dei motivi (v. per tutte sez. un. 20603/2007) – è chiarito in qual senso dal contenuto dell’affidavit si sarebbe dovuto trarre l’affermazione che le autorità giamaicane sapevano, o avrebbero dovuto sapere, al momento del visto sui certificati Eur 1 (che unicamente rileva ai fini dell’errore attivo), che le merci esportate non rispondevano alle condizioni di preferenza tariffaria di cui all’accordo di Cotonou.
A disparte quindi la carenza giuridica dell’impugnata sentenza, circa l’affermata impossibilità di dare ingresso, nel processo tributario, al suaccennato documento che in effetti va emendata in questa sede, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, giacchè è ammissibile l’acquisizione di documenti di tal genere alla stregua di elementi atipici di prova, astrattamente suscettibili di fondare presunzioni (v. per tutte Cass. n. 5746/2010), vi è che in ogni caso la decisione, nel dispositivo, non ne appare incisa, deficitaria rivelandosi la deduzione della ricorrente in ordine alla decisività (del contenuto) dell’affidavit a proposito dell’insorgenza di un errore attivo dell’autorità emittente nel senso fatto proprio dalla normativa comunitaria.
6. – Per le ragioni complessivamente esposte, il ricorso va rigettato.
Le spese processuali seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 2.000,00 oltre le spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012

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