Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-07-2012, n. 13483

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – La Red s.r.l. acquistò, fino all’anno 2004, quantitativi di merce (capi di maglieria) di asserita provenienza giamaicana, scortati da apposito certificato Eur 1 e quindi soggetti a esenzione dal trattamento daziario in base all’accordo di partenariato del 23.2,2 000 (cd. accordo di Cotonou) tra la Comunità Europea e i paesi della cd. area ACP (Africa, Caraibi e Pacifico).

A seguito di indagini eseguite dall’organismo comunitario Olaf, le autorità giamaicane attestarono l’irregolarità dei redatti certificati Eur 1 in ordine all’origine preferenziale (giamaicana) della merce in questione; donde l’amministrazione doganale provvide alla revisione degli accertamenti quanto all’importazione effettuata, notificando alla società importatrice, in funzione di recupero dei tributi doganali, il previsto avviso di rettifica di cui all’art. 78 del Regolamento n. 2913/92 CE (codice doganale comunitario).

2. – La società impugnò l’avviso dinanzi alla commissione tributaria provinciale di Milano, per quanto ancora rileva contestando il difetto di motivazione dell’atto (in quanto basato su un verbale della missione dell’Olaf non sufficientemente determinato in ordine all’individuazione degli specifici certificati ritenuti invalidi) e l’omessa considerazione della preclusione alla contabilizzazione postuma di cui all’art. 220, par. 2, lett. b) del codice doganale comunitario.

3. – Tali censure furono accolte dalla commissione provinciale adita.

La decisione venne però riformata, su gravame dell’amministrazione, dalla commissione tributaria regionale della Lombardia. La quale, disattesa un’eccezione preliminare di inammissibilità dell’appello (per mancato deposito dell’autorizzazione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, comma 2), sostenne che l’atto impositivo dovevasi ritenere sufficientemente motivato per relationem al verbale dell’Olaf (previamente notificato), poichè questo aveva consentito alla parte di individuare i motivi posti al fondo dell’operata rettifica; e quindi di esercitare il diritto di difesa.

Evidenziato che alle risultanze dell’attività investigativa dell’Olaf dovevasi attribuire, ai sensi dell’art. 9 del Regolamento n. 1073/99 CE, valore di elemento di prova nei procedimenti amministrativi e giudiziari degli Stati membri, e che l’efficacia probatoria poteva essere altresì assicurata dalla documentazione raccolta nel corso della eseguita verifica, non potendosi ammettere l’antiteticità tra la verbalizzazione delle indagini svolte dall’Olaf e le conclusioni contenute nella relazione finale redatta dal medesimo organismo, la commissione regionale ritenne, nel merito:

(a) che contrariamente a quanto sostenuto dalla società importatrice, il rapporto finale dell’Olaf non era affatto risultato indeterminato quanto alle svolte conclusioni, essendosi affermato, non solo che le autorità giamaicane non erano state in grado di confermare l’origine preferenziale delle merci, ma anche che tutti i prodotti esportati verso la Comunità Europea – così come riconosciuto dalla locale dogana – erano risultati fabbricati (recte, composti) non esclusivamente da filati, sì da non poter essere considerati originari della Giamaica;

(b) che il divieto di contabilizzazione a posteriori dei dazi non potevasi considerare nella specie operante, giacchè la mancata tempestiva contabilizzazione non era stata ascrivibile a errore dell’autorità doganale italiana, ma all’apparente validità dei certificati preferenziali Eur 1; nè potevasi discorrere di buona fede dell’importatore, stante l’obbligo, su di lui incombente, di verificare il corretto comportamento dei partner commerciali, con soggezione al rischio di eventuali loro illegalità.

Infine la commissione, richiamando la sentenza 9.3.2006 della Corte di giustizia CE (causa C-293/04, Beemsterboer), osservò che le società esportatrici non avevano conservato, per il previsto periodo, alcuna documentazione probatoria, così finendo per versare nella situazione di negligenza descritta dalla citata decisione, determinativa della inversione dell’onere della prova riguardo alla esattezza della situazione di fatto attestata dai certificati preferenziali. E che tale onere – in difetto di documentazione idonea a evidenziare la situazione di fatto riferita dall’esportatore per ottenere il certificato Eur 1 – non era stato adempiuto.

In conclusione, la commissione regionale considerò legittima la contabilizzazione dei dazi operata a posteriori; e accolse l’appello dell’amministrazione doganale.

4. – La società contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a otto motivi.

L’intimata ha replicato con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato una memoria.
Motivi della decisione

1. – I motivi di ricorso risultano formulati secondo l’ordine che segue.

(i) il primo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, comma 2.

Nel quesito di diritto chiede di affermare se la norma citata, pur a seguito della riforma di cui al D.Lgs. n. 300 del 1999, sia o meno da ritenere applicabile – così come nel motivo di afferma – agli uffici periferici dell’agenzia fiscale ai fini dell’ammissibilità dell’appello.

(ii) Il secondo e il terzo motivo attengono, nel contesto di censure prospettate ai sensi, rispettivamente, dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e dell’art. 360 c.p.c., n. 5, all’assunto valore probatorio del verbale della missione dell’Olaf.

Si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 9, par. 1 e 2, del Reg. n. 1073/1999 CE, 7, della L. n. 212 del 2000, e D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5-bis, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto controverso decisivo per il giudizio. E si addebita al giudice tributario: (a) di avere erroneamente attribuito valore probatorio non solo al rapporto finale elaborato dall’Olaf all’esito delle svolte indagini, ma anche a qualsiasi atto o documento endoprocedimentale necessario per la redazione del rapporto medesimo; tale essendo il verbale della missione effettuata; nonchè (b) di aver ritenuto l’atto di accertamento correttamente motivato col mero richiamo al contenuto del ridetto verbale, nonostante che questo fosse basato sul fatto che "la gran parte dei prodotti tessili esportati dalla Giamaica (..) erano rappresentati da capi ottenuti dall’unione di parti finite o da capi pronti di origine cinese e, pertanto, non avevano titolo per l’acquisizione dell’origine preferenziale giamaicana", in tal modo – sostiene la ricorrente – non si sarebbe tenuto in conto che una simile motivazione per relationem non era in verità univoca e idonea a consentire di comprendere su quali basi fosse stato ritenuto che proprio i capi da essa contribuente importati facessero parte di quelli sopra detti, in quanto neppure il verbale dell’Olaf aveva recato elementi intesi a identificare i certificati invalidi rispetto a quelli validi.

(iii) Il quarto mezzo, denunciando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto controverso decisivo, censura la sentenza per aver affermato, in aderenza alla decisione della Corte di giustizia in data 9.3.2006 (causa 0293/04, Beemsterboer), e per il caso di inadempimento dell’obbligo di conservazione della documentazione probatoria dell’origine preferenziale delle merci, la spettanza al debitore dell’onere dimostrativo circa l’avvenuto rilascio dei certificati di origine sulla base di una esatta rappresentazione dei fatti.

La tesi esposta nel motivo è che l’inversione dell’onere della prova è invece legittima nel diverso caso in cui, a seguito di negligenza imputabile al solo esportatore, le autorità doganali si trovino nell’impossibilità assoluta di fornire la prova richiesta dall’art. 220, par. 2, lett. b) del codice doganale comunitario.

(iv) Il quinto mezzo denunzia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e sulla scorta della medesima premessa di cui al motivo che precede, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 220, par. 2, lett. b), del codice doganale comunitario.

Si afferma che, non essendo individuabile, nel caso di specie, alcuna negligenza imputabile all’esportatore, in relazione alla custodia della documentazione relativa ai certificati Eur 1, non poteva trovare applicazione l’assunto criterio di ripartizione (e di inversione) dell’onere della prova circa l’esatta rappresentazione dei fatti. Donde la commissione regionale avrebbe errato nell’applicare la disposizione citata, ritenendo gravata dell’onere di produzione documentale la società importatrice, in quanto, alla luce della ripetuta sentenza C-293/04 della Corte di giustizia, l’onere detto derivava dal fatto dell’esportatore che non avesse rispettato l’obbligo di conservazione dei documenti comprovanti l’origine preferenziale delle merci.

Il quesito di diritto, che traduce infine la censura, chiede alla Corte di dire "se, ai sensi dell’art. 220, par. 2, lett. b) del codice doganale comunitario, nella parte in cui disciplina le conseguenze del rilascio, da parte dell’autorità doganale competente, di un certificato inesatto in ordine all’assoggettabilità delle merci al regime preferenziale, la contabilizzazione a posteriori dell’importo esatto dei relativi dazi doganali sia sempre consentita per il semplice fatto che il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore; oppure se, pur in presenza di tale inesatta rappresentazione della situazione fattuale da parte dell’esportatore, la contabilizzazione a posteriori sia invece inibita quando risulti che le autorità che hanno rilasciato il certificato erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale e tale errore non era rilevabile dall’importatore di buona fede che abbia rispettato tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana".

(vi) il sesto motivo denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 220, par. 2, lett. b) del codice doganale comunitario sotto il concorrente profilo degli obblighi di verifica in capo all’importatore.

Posto che la norma (v. Corte giust. 27.6.1991, in causa C-348/89) ha l’obiettivo di tutelare il legittimo affidamento del debitore circa la fondatezza dell’insieme degli elementi che intervengono nella decisione di recupero del dazio, e che – si dice – la società era stata rafforzata nella sua buona fede dall’esito positivo di numerosi controlli effettuati negli anni, dalle autorità giamaicane, sui certificati di origine, la ricorrente chiede di stabilire "se, ai sensi dell’art. 220, par. 2, lett. b), del codice doganale comunitario il dichiarante abbia in ogni caso l’obbligo di verificare il corretto comportamento dei soggetti con i quali intrattiene rapporti di affari e debba comunque sopportare le conseguenze di eventuali illegalità poste in essere per ottenere il rilascio dei certificati; oppure se la sua buona fede sia integrata dalla diligenza dimostrata, quando nutra dubbi, nell’assumere i chiarimenti del caso e nel fornire tutte le informazioni necessarie previste dalle norme nazionali e comunitarie alle competenti autorità doganali, nei limiti dei dati e dei documenti che l’operatore può ragionevolmente conoscere ed ottenere".

(vii) Col settimo motivo si deduce la violazione, ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 112 c.p.c., sul rilievo di avere la commissione regionale preso in considerazione la condotta delle autorità italiane, ai fini dell’individuazione dell’esistenza di un "errore delle autorità doganali" ai sensi dell’art. 220, par.

2, lett. b), del codice doganale comunitario, piuttosto che la posizione delle autorità doganali giamaicane in effetti dedotta, dalla società importatrice, nelle controdeduzioni all’appello dell’agenzia fiscale. In tal modo si afferma essere la commissione incorsa nel vizio di omessa pronuncia.

(viii) Con l’ottavo motivo si deduce il vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) per avere la commissione regionale omesso di esaminare la documentazione prodotta in allegato alle controdeduzioni in appello, al fine di affermare la sussistenza dell’errore (o addirittura del dolo) delle autorità giamaicane nell’ottica di cui all’art. 220, par. 2, lett. b), 3 co., del citato codice doganale comunitario. La tesi esposta nel motivo è che l’anzidetta documentazione, ove esaminata, avrebbe dovuto indurre la commissione a ritenere che le autorità giamaicane avevano rilasciato i contestati certificati Eur 1 sapendo, o dovendo ragionevolmente sapere, che non esistevano, in verità, i presupposti per il rilascio.

2. – Il primo motivo va isolato dagli altri in quanto non attinente al profilo tributario doganale.

La ricorrente persiste nell’affermare che l’appello dell’agenzia delle dogane avrebbe dovuto essere considerato dalla commissione tributaria regionale inammissibile in ragione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, comma 2, secondo il quale gli uffici periferici, ai fini della proposizione dell’appello principale, devono essere previamente autorizzati dal responsabile del servizio del contenzioso della competente direzione regionale.

Il motivo è del tutto infondato per il fatto di essere venuta meno la necessità della invocata autorizzazione a seguito dell’istituzione delle agenzie fiscali ex D.Lgs. n. 300 del 1999.

In proposito il collegio intende dare continuità all’indirizzo delle sezioni unite della Corte incentrato sul principio che, a seguito della soppressione di tutti gli uffici e organi ministeriali ai quali fa riferimento l’art. 52, 2 co., cit., non sussistono più condizionamenti al diritto processuale di impugnazione a opera degli uffici periferici delle agenzie fiscali; donde, diversamente da quanto sostenuto nel motivo, l’istituto dell’autorizzazione preventiva al gravame devesi ritenere, per tali uffici, ormai abrogato (v. sez. un. n. 604/2005, nonchè, medesimo senso, Cass. n. 6809/2005; n. 10943/2007; n. 16430/2011).

3. – I restanti motivi, afferendo a questioni connesse, impongono alcune considerazioni di ordine generale sui principi che governano la materia.

3/a. – E’ rilievo preliminare che, in base all’accordo di Cotonou, di partenariato tra i membri del gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP), da un lato, e la Comunità Europea e i suoi Stati membri, dall’altro, i prodotti originari dei suddetti Stati ACP sono ammessi all’importazione nella Comunità Europea "in esenzione da dazi doganali e da tasse d’effetto equivalente".

In proposito, secondo il protocollo n. 1 dell’allegato V dell’accordo, si considerano originari degli Stati ACP i prodotti interamente ottenuti negli Stati detti e i prodotti ottenuti nei medesimi in cui siano incorporati materiali non interamente ottenuti sui loro territori a condizione che codesti siano stati oggetto, negli Stati de quibus, di lavorazioni o trasformazioni sufficienti ai sensi dell’art. 4 del medesimo protocollo.

La prova dell’origine, secondo quanto ancora stabilito nel titolo 4 del ridetto protocollo n. 1, devesi ricavare in linea generale dal certificato di circolazione – cd. Eur 1 – rilasciato dalle autorità doganali del paese esportatore in base ai documenti intesi a comprovare, a onere dell’impresa esportatrice, il carattere originario dei prodotti in questione.

Il profilo controverso riguarda le condizioni per il recupero del dazio (cd. contabilizzazione a posteriori) nel caso in cui la concessione di un trattamento preferenziale, subordinato – come nel caso di specie – alla presentazione di certificati di origine della merce esportata (Eur 1), risulti invalidata dal successivo riscontro di irregolarità dei certificati stessi quanto alle caratteristiche della merce.

Nel caso concreto è stato accertato dal giudice del merito, alla luce delle risultanze degli atti ispettivi allegati e richiamati in esito alle indagini eseguite dall’Olaf, che le partite di merce esportata verso la Comunità Europea, non costituite esclusivamente da filati, non potevano essere ritenute originarie della Giamaica; e che i certificati afferenti, seppure "autentici" quanto ai prodotti spediti (nel senso di coerenti all’oggetto materiale della spedizione), si erano rivelati inesatti quanto all’origine effettiva dei medesimi, così come riconosciuto dall’autorità doganale giamaicana a conclusione della missione dell’Olaf.

3/b. – Conformemente all’art. 220 del codice doganale comunitario oggi abrogato dall’art. 186 del Regolamento (CE) n. 450 del 23-4-2008 del Parlamento Europeo e del Consiglio – recante il cd. codice doganale aggiornato – ma nella fattispecie applicabile ratione temporis, "quando l’importo dei dazi risultante da un1obbligazione doganale non sia stato contabilizzato ai sensi degli artt. 218 e 219 o sia stato contabilizzato ad un livello inferiore all’importo legalmente dovuto, la contabilizzazione dei dazi da riscuotere o che rimangono da riscuotere deve avvenire entro due giorni dalla data in cui l’autorità doganale si è resa conto della situazione in atto ed è in grado di calcolare l’importo legalmente dovuto e di determinarne il debitore (contabilizzazione a posteriori). Questo termine può essere prorogato conformemente all’art. 219".

In tali casi, il par. 2, lett. b), del citato art. 220 – nel testo sostituito dall’art. 1 del Regolamento (CE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 2700 del 16-11-2000 che qui in ogni caso rileva, trattandosi di fattispecie venute in essere tra il 2002 e il 2004 fermo restando che – come stabilito da Corte giust. 9.3.2 006, causa C-293-04 – le relative disposizioni, ancorchè di natura sostanziale, restano applicabili anche alle obbligazioni sorte anteriormente, stante il carattere essenzialmente interpretativo delle stesse, in funzione della certezza del diritto e del rafforzamento di tutela dell’operatore economico – soggiunge che non si procede alla contabilizzazione a posteriori quando "l’importo dei dazi legalmente dovuto non è stato contabilizzato per un errore dell’autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione in dogana"; con la precisazione, però, che "quando la posizione preferenziale di una merce è stabilita in base ad un sistema di cooperazione amministrativa che coinvolge le autorità di un paese terzo, il rilascio da parte di queste ultime di un certificato, ove esso si riveli inesatto, costituisce, ai sensi del comma 1, un errore che non poteva ragionevolmente essere scoperto".

Prosegue la norma affermando che "il rilascio di un certificato inesatto non costituisce tuttavia un errore in tal senso se il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore, salvo se, in particolare, è evidente che le autorità che hanno rilasciato il certificato erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale".

Sempre in base alla citata lett. b) dell’art. 220, par. 2, del codice doganale comunitario, "la buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale". Ma "il debitore non può tuttavia invocare la buona fede qualora la Commissione Europea abbia pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee un avviso in cui sono segnalati fondati dubbi circa la corretta applicazione del regime preferenziale da parte del paese beneficiario".

3/c. – La disposizione traduce principi affermati nella giurisprudenza comunitaria (v., oltre alla già citata sent.

Beemsterbeoer, C. giust. 4.11.2002, c-251/00; C. giust. 19.10.2000, C- 15/99; C. giust. 14.5.1996 C-153/94 e C-204/94), e già da questa sezione accolti finanche in fattispecie anteriori al ripetuto Regolamento n. 2913/92. Alla stregua di codesti principi (v. in particolare Corte giust. 14.11.2002, causa C-251/00; Corte giust.

9.3.2006, causa C-293/04 e da ultimo Corte Giust. 15.12.2011, causa C- 409/10) è da ritenere in definitiva consolidato che: (i) le conclusioni del controllo a posteriori di certificati Eur 1 rilasciati dallo Stato di esportazione (art. 32 del prot. 1 dell’allegato V dell’accordo citato) – controllo effettuabile non soltanto quando lo Stato membro di importazione lo richieda, ma anche in via generale tutte le volte in cui esistano indizi idonei a far ritenere esistente una irregolarità sull’origine delle merci importate (cfr. Corte giust. 9.2.2006, cause riunite C-23/04 e C- 25/04) – si impongono alle autorità dello Stato membro di importazione alla stregua di valutazioni legalmente effettuate e accettate (v. Corte giust. 25.2.2010, causa C-386/08).

Donde non rilevano previsioni di ordine formale, dal momento che il verbale d’indagine condotto al riguardo dall’Olaf, sottoscritto per conto dello Stato ACP di esportazione, contenente la constatazione che i certificati Eur 1 sono inesatti (e quindi nulli), ha l’effetto di rendere siffatti risultati opponibili alle (e vincolati per le) autorità dello Stato membro di importazione (così Corte giust.

15.12.2011, causa C-409/10).

(ii) In tali casi, l’importatore non può opporsi al recupero a posteriori del dazio facendo valere che non può escludersi che talune delle merci abbiano avuto, in realtà, l’origine preferenziale indicata nei certificati (e difatti in tal senso Corte giust.

15.12.2011, causa C-409/10).

(iii) Può rilevare, in senso favorevole all’importatore, soltanto il divieto di contabilizzazione a posteriori di tributi doganali di cui al più volte citato art. 220, par. 2, lett. b), del codice doganale comunitario. Il quale però suppone la concorrente esistenza di tutte le condizioni ivi previste (v. Cass. n. 8481/2010; n. 15297/2008).

E in tale prospettiva (v. Corte giust. 9.3.2006 C-293/04 Beemsterboer, adottata giustappunto in sede di rinvio pregiudiziale di interpretazione ex art. 234 del Trattato) spetta alle autorità doganali – conformemente alle regole tradizionali di ripartizione dell’onere della prova dimostrare che il rilascio di certificati inesatti, che danno diritto al recupero daziario, è imputabile all’inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore; il che esclude l’errore "attivo" dell’autorità competente quale causa esimente della contabilizzazione a posteriori, e rende irrilevante la protesta di buona fede dell’importatore.

Ove una tale dimostrazione non sia possibile per fatto dell’esportatore stesso, e segnatamente per la mancata conservazione della documentazione giustificativa, l’onere si inverte ed è il debitore che deve provare essenzialmente e innanzi tutto che i certificati rilasciati dalle autorità dei paesi terzi erano fondati su una esatta rappresentazione di quei fatti.

(iv) Spetta così, in linea di principio, alle autorità doganali fornire la prova che il rilascio dei certificati inesatti è imputabile all’inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore.

E tuttavia, qualora a seguito di una negligenza imputabile soltanto all’esportatore le autorità doganali si trovino nell’impossibilità di fornire la prova necessaria del fatto che il certificato di circolazione delle merci Eur 1 è stato rilasciato sulla base della presentazione esatta o inesatta dei fatti da parte dell’esportatore stesso, incombe al debitore dei dazi dimostrare che tale certificato, rilasciato dalle autorità del paese terzo, si basava su una esatta presentazione dei fatti.

4. – Tali essendo le uniformità – normative e giurisprudenziali – dalle quale la fattispecie è regolata, può osservarsi quanto segue.

(a) Il secondo e il terzo motivo dell’odierno ricorso non sono fondati, giacchè, per quanto detto e in ogni caso alla luce del consolidato orientamento di questa sezione, in materia di tributi doganali non solo la relazione finale dell’Olaf, ma in generale gli accertamenti compiuti dal detto organo esecutivo della commissione Europea (di propria iniziativa o su segnalazione degli Stati membri), ai sensi del Reg. n. 1073/1999 CE, a posteriori o quando comunque vi sia motivo di dubitare dell’autenticità della documentazione relativa all’origine preferenziale della merce, hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari instaurati all’interno dei singoli Stati dell’Unione; sicchè possono essere posti a fondamento dell’avviso di recupero dei dazi, spettando al contribuente – che ne contesti le risultanze – fornire la prova di elementi contrari, idonei a far ritenere comunque sussistenti le condizioni di applicabilità del regime agevolativo (v. tra le tante Cass. n. 4997/2009; n. 23985/2008).

Il giudice d’appello, d’altronde, ha ritenuto non indeterminate le conclusioni raggiunte dall’Olaf a seguito della svolta attività d’indagine, considerate le caratteristiche dei prodotti importati, non composti esclusivamente da filati e quindi non originari della Giamaica. E ha coerentemente concluso che simili risultanze potevano costituire valida fonte di prova.

La conclusione è giuridicamente corretta, per quanto esposto a riguardo della valenza delle risultanze degli atti ispettivi dell’organismo antifrode, allegati o richiamati nell’avviso di recupero.

Mentre la valutazione del risultato probatorio è questione di merito, sottratta al sindacato della Corte se non nel profilo della logicità e adeguatezza della motivazione.

La via prescelta dalla ricorrente per contrastare l’apprezzamento della commissione regionale risulta incentrata sulla contestazione del contenuto del verbale dell’Olaf richiamato nell’atto impositivo, siccome asseritamente equivoco quanto alla riferibilità ai capi da essa importati. Ma in proposito la doglianza si risolve nella prospettazione di profili di merito attinenti al risultato e alla valutazione della prova, preclusi in sè dinanzi a questa Corte di legittimità, e in ogni caso non consentiti dal sopra esposto vincolo derivante dalle conclusioni dell’Olaf circa l’irregolarità dei certificati Eur 1; rispetto alle quali conclusioni l’importatore non è ammesso a far valere che non si può escludere che talune delle merci importate abbiano avuto l’origine preferenziale attestata dal certificato.

(b) Il quarto motivo è inammissibile in quanto non traduce un vizio coerente con il richiamato art. 360 c.p.c., n. 5. Questa norma suppone che oggetto di critica sia la motivazione in fatto dell’impugnata sentenza, non anche un costrutto giuridico qual è quello nella specie correlato alla ripartizione dell’onere della prova inter partes. La denuncia del vizio di motivazione impone, in apposita sintesi conclusiva (per le cause soggette, come quella in esame, all’abrogato art. 366-bis c.p.c.), la chiara enunciazione e del fatto controverso (sul quale la motivazione sarebbe da ritenere deficitaria) e delle specifiche ragioni di decisività di quel fatto.

La ricorrente sostiene che il fatto controverso, decisivo per il giudizio, sarebbe qui rappresentato da "la conservazione oppure no, da parte delle società del gruppo Afasia" esportatrici, per il periodo di tre anni, dei "documenti comprovanti l’origine giamaicana delle merci per cui è causa e la possibilità del loro esame al fine dei controlli da parte dell’Olaf e/o della dogana italiana".

Ma è di tutta evidenza che quello anzidetto non è il fatto controverso cui l’art. 360, n. 5, allude, sebbene la questione sottostante il corrispondente profilo giuridico, collegato (per quanto già visto) alle conseguenze dell’inosservanza dell’onere di conservazione quanto all’onere della prova ribaltabile sul debitore.

Per "fatto decisivo" (o, nell’anteriore formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per "pianto decisivo") deve invece intendersi – secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 22979/2004; n. 10156/2004; n. 15 95/2000; ancora da ultimo, in motivazione, Cass. n. 802/2011) – quello specifico fatto, vale a dire quella specifica risultanza, dalla cui differente considerazione da parte del giudice di merito (o dalla cui considerazione, laddove la motivazione sia al riguardo denunciata come omessa) sarebbe discesa con ragionevole certezza una diversa decisione.

E tale fatto non risulta indicato in seno alla censura.

(c) E’ infondato il quinto motivo, che invero si risolve nella solo generica prospettazione del fatto identificativo dell’errore attivo ("che le autorità che hanno rilasciato il certificato erano informate o avrebbero dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale"); errore certo ostativo al recupero a posteriori, ma che nella specie non risulta dal giudice di merito affatto accertato; e che dunque è in questa sede solo affermato dalla ricorrente in base a una unilaterale e distinta ricostruzione della vicenda.

(d) Si rivela inammissibile e comunque privo di fondamento il sesto motivo, posto che la buona fede del dichiarante, di cui all’annesso quesito, non rileva nel senso ivi genericamente prospettato, in quanto il semplice stato soggettivo dell’importatore al fine della debenza del tributo non ha valenza esimente in se stesso, ove non sia inquadrabile nelle situazioni di fatto individuate dalla normativa comunitaria.

Tra queste spicca – come sopra evidenziato – l’errore incolpevole imputabile a un comportamento attivo delle autorità doganali nel rilasciare le certificazioni all’esito dei controlli che esse erano tenute a fare sulle dichiarazioni di provenienza degli esportatori (v. Cass. n. 13680/2009; n. 7837/2010; n. 1583/2012; n. 4022/2012).

Per cui l’importatore può utilmente invocare il legittimo affidamento di cui al già visto art. 220 del codice doganale comunitario soltanto ove (i) il rilascio irregolare dei certificati sia previamente dovuto a un errore delle autorità doganali, (ii) non determinato da una situazione inesatta riferita dall’esportatore, (iii) a sua volta non ragionevolmente rilevabile dal debitore di buona fede il quale (iv) abbia comunque osservato tutte le prescrizioni della normativa in vigore (cfr. Corte giust. 14.5.1996, cause riunite C-153/94 e C-204/94; Corte giust. 3.3.2005, causa C- 499/03; Corte giust. 18.10.2007, causa C-173/06; infine Corte giust.

15.12.2011 cit.).

Tanto si rivela risolutivo per disattendere il sesto mezzo, non essendovi prova dell’errore attivo.

In ogni caso lo stato soggettivo di buona fede è dalla ricorrente apoditticamente affermato in virtù di fatti (l’assunzione costante di chiarimenti e di informazioni alle competenti autorità doganali) che dalla sentenza non risultano, e il cui accertamento viene inammissibilmente richiesto in questa sede di legittimità.

Val bene osservare che il fondamento della esaminata regola ex art. 220 del codice dogale comunitario è che l’importatore – quale dichiarante della merce importata – è in ogni caso responsabile del pagamento del dazio anche quando la merce sia scortata da certificati contraffatti a sua insaputa, giacchè la Comunità Europea non è tenuta a sopportare le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini rientranti nel rischio dell’attività commerciale, contro il quale gli operatori economici possono premunirsi solo nell’ambito dei loro rapporti negoziali (Corte giust.

17.7.2007, C-97/95; Corte giust. 26.11.1998, C-370/96). Sicchè semmai spetta agli operatori economici adottare, nell’ambito dei loro rapporti contrattuali, le misure necessarie per premunirsi contro i rischi dell’azione di recupero (v. C. giust. 12.5.1998, C-366/95;

17.7.1997, C-97/95).

(e) Diviene praticamente irrilevante, e semplicemente suscettibile di correzione in questa sede nei termini dianzi esposti, l’errore argomentativo dell’impugnata sentenza, denunciato nel settimo motivo, a proposito dell’autorità doganale al cui comportamento si doveva far riferimento al fine specifico di escludere l’errore attivo.

L’errore argomentativo non costituisce il vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c..

(f) Risulta inammissibile l’ottavo motivo, a misura della mancata indicazione del fatto controverso e delle ragioni della sua asserita decisività per il giudizio finale. La sintesi redatta in fondo all’esposizione ancora una volta non enuncia il fatto, sebbene la questione sottesa; e, quanto alle risultanze mentovate nell’esposizione medesima che pur non rilevano, secondo la giurisprudenza delle sezioni unite di questa Corte, ove non autonomamente sintetizzate – in maniera da non ingenerare incertezze – a conclusione della stessa (v. per tutte sez. un. 20603/2007), non è chiarito in qual senso dalle medesime si sarebbe dovuta trarre l’affermazione che le autorità giamaicane sapevano, o avrebbero dovuto sapere, al momento del visto sui certificati Eur 1 (che unicamente rileva ai fini dell’errore attivo), che le merci esportate non rispondevano alle condizioni di preferenza tariffaria di cui all’accordo di Cotonou.

5. – Per le ragioni complessivamente esposte, il ricorso, conclusivamente, è rigettato. Le spese processuali seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 2.000,00 oltre le spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 7 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012

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