Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 29-01-2013) 07-03-2013, n. 10622

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Ricorrono per cassazione, tramite il comune difensore di fiducia, M.P. e S.P., avverso la sentenza emessa in data 3.11.2011 dalla Corte di Appello di Lecce che, in parziale riforma di quella in data 15.7.2008 del Tribunale di Lecce, assolveva il coimputato M.R. per non commesso il fatto e riduceva la pena inflitta ai predetti ad anni uno di reclusione ciascuno, concedendo il beneficio della non menzione.

Ai ricorrenti era stato contestato di aver colposamente cagionato per negligenza la morte di C.L., in quanto, quali chirurghi, al termine dell’intervento eseguito il (OMISSIS) in laparotomia sull’addome della stessa, omettevano di verificare il campo operatorio – in particolare, il conteggio di garze e strumenti – e lasciavano nella cavità peritoneale della vittima una garza, così determinando lesioni perforative intestinali e la formazione di un ascesso piogeno misto a materiale enterico, la cui evoluzione, nonostante l’intervento del (OMISSIS), causava il (OMISSIS) il decesso della paziente.

La vicenda clinica della C. si articolava nei seguenti termini.

Il 30.7.2003 presso la Divisione di Chirurgia dell’Ospedale (OMISSIS) la paziente era sottoposta ad intervento di gastrectomia totale per neoplasia maligna dello stomaco.

Il successivo 23.10.2003 presso la stessa Divisione era operata per occlusione intestinale. Il 15.2.2004 era ricoverata presso la Divisione di Medicina dell’Ospedale di (OMISSIS) per stato cachettico (al riguardo il figlio descriveva un sensibile deperimento della C. dopo l’intervento del 23.10.2003) e, rilevata mediante TAC la presenza di un corpo estraneo, veniva nuovamente trasferita alla Divisione di Chirurgia dell’Ospedale (OMISSIS) ove, all’esito dell’intervento del 23.2.2004, era rimossa una garza chirurgica. Il successivo decorso post-operatorio, trascorso ininterrottamente in ospedale, esitava il (OMISSIS) nel decesso della C. che, su richiesta dei familiari, era stata dimessa poche ore prima della morte, sì che non risultano registrate le manifestazioni cliniche terminali della paziente.

La Corte, sulla scorta dell’anamnesi patologica prossima annotata dall’Ospedale leccese ("sospetto di presenza di raccolta ascessuale endoaddominale"), della rx e dell’esame istologico del reperto (ascesso piogeno), respingeva la tesi dei consulenti della difesa, secondo la quale la garza aveva determinato una situazione di aderenza meramente meccanica senza flogosi o sepsi, ritenendo documentata l’esistenza di un processo di flogosi che interessava la parte di intestino rimossa a causa dell’aderenza con la garza, incidendo in maniera determinante sull’evoluzione dello stato di salute della paziente, già debilitata per due precedenti interventi chirurgici (per neoplasia cardiale e per occlusione intestinale).

I ricorrenti deducono i motivi di seguito sinteticamente riportati.

1. La violazione dell’art. 40 c.p. ed il vizio motivazionale, assumendo che la sentenza impugnata aveva attribuito aprioristicamente rilevanza pregnante all’intervento del 23.2.2004 resosi necessario per rimuovere la garza dimenticata nel corso dell’intervento del 23.10.2003 dai prevenuti, benchè i consulenti del P.M. non avessero individuato la causa dell’exitus ed in assenza di argomentazioni circa le ragioni avevano portato a ritenere la responsabilità dei prevenuti pur in assenza di un riscontro autoptico.

Contestano, poi, l’intero ragionamento seguito dalla Corte per affermare l’incidenza della flogosi localizzata nel peggioramento delle condizioni cliniche del paziente, tali da cagionarne la morte.

2. La violazione di legge ed il vizio motivazionale, contestando l’assunto della Corte territoriale che respingeva la tesi difensiva della condotta commissiva dei prevenuti e non già, come ritenuto, omissiva, in ordine alla quale evidenziano la carenza motivatoria, non essendo stato espletato il dovuto giudizio controfattuale.

Rilevano, infine, che, laddove la sentenza impugnata aveva precisato che l’intervento del 23.2.2004 aveva accelerato l’exitus, non era stato puntualizzato se l’evento morte sarebbe intervenuto in epoca significativamente posteriore o solo genericamente posteriore, con esclusione, in tale ultimo caso, del nesso di causalità tra condotta ed evento e che il dubbio che l’esistenza di cause che da sole (preesistente neoplasia) avrebbero potuto determinare il decesso della paziente, avrebbe dovuto portare, ai sensi dell’art. 40 cpv.

c.p., all’assoluzione degli imputati.
Motivi della decisione

I ricorsi sono inammissibili essendo le censure mosse aspecifiche nonchè manifestamente infondate e non consentite nella presente sede. Infatti, in buona parte i motivi sono aspecifici perchè reiterativi di quelli rappresentati dinanzi al giudice di appello e da quello disattesi con motivazione compiuta e congrua, immune da vizi ed assolutamente plausibile (Cass. pen. Sez. 4, 29.3.2000, n. 5191 Rv. 216473 e successive conformi, quale: Sez. 2, 15.5.2008 n. 19951, Rv. 240109). Infatti, la motivazione della sentenza impugnata sui punti oggetto di censura s’appalesa ampia e congrua ed esente da vizi logici o giuridici; inoltre, le valutazioni di merito ivi svolte sono insindacabili nel giudizio di legittimità, essendo il metodo di valutazione delle prove conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici (Cass. pen. Sez. un., 24.11.1999, n. 24, Rv. 214794) e tanto nonostante la riapertura dell’istruttoria dibattimentale con l’escussione dei consulenti degli imputati.

Peraltro, il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

L’illogicità della motivazione, come vizio denunciarle, deve tuttora essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza. Il novum normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova", finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale:

cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere ad una inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all’interno della decisione (Cass. pen. Sez. 5, n. 39048 del 25.9.2007, Rv. 238215).

Ciò peraltro vale nell’ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell’ipotesi di doppia pronunzia conforme, come nel caso di specie in relazione alla ritenuta colpevolezza, il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice d’appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cass. pen., sez. 2, 15.1.2008, n. 5994;

Sez. 1, 15.6.2007, n. 24667, Rv. 237207; Sez. 4, 3.2.2009, n. 19710, Rv. 243636), evenienza non verificatasi nel procedimento in esame.

E’ superflua l’indagine circa l’epoca dell’exitus (di cui a Sez. 4, n. 25233 del 25.5.2005, Rv. 232013), che la Corte territoriale ritiene sia stato "accelerato" dall’intervento necessitato del 23.2.2004, dal momento che la medesima sentenza (a pag. 8) ha motivatamente escluso, la ripresa del processo neoplastico secondo quanto esposto dai consulenti del P.M., che richiamavano le emergenze della cartella clinica in occasione del ricovero dell’ottobre 2003 e gli esami eseguiti ambulatorimente, individuando il primus movens della patologia evoluta nell’exitus nell’ascesso addominale conseguito a fenomeni irritativi dipendenti dalla garza "lasciata in peritoneo in occasione dell’intervento praticato al soggetto in data 23.10.2003".

Non meno correttamente è stata esclusa la pretesa natura commissiva della condotta tenuta dagl’imputati, dal momento che il segmento di essa determinante ai fini della produzione dell’evento letale si rinviene nella mancata e doverosa asportazione della garza, ogni altra rappresentazione della stessa dovendosi ritenere, prima ancora che improponibile in questa sede, palesemente retorica (il verbo "lasciare" la garza, non indicando una condotta ispirata a fini terapeutici, equivale ad "omettere di asportare" la garza medesima).

Invero, la colposa omissione fu causa diretta del successivo intervento del 23.2.2004 i cui esiti infausti devono, quindi, necessariamente riconnettersi a quello del 23.10.2003 nel cui corso essa si verificò.

E’ opportuno rilevare che, benchè i termini prescrizionali per il reato contestato siano decorsi alla data del 9.3.2012, presupponendo l’obbligo d’immediata declaratoria delle cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p., che il giudice del gravame sia stato effettivamente investito della cognizione del processo, non può essere dichiarata, in sede di legittimità, la prescrizione del reato, laddove il ricorso, come nel caso di specie, sia ritenuto affetto da inammissibilità originaria per mancanza di specificità o manifesta infondatezza dei motivi; invero, in tal caso, il gravame non è idoneo ad introdurre un nuovo grado di giudizio (Cass. pen. Sez. 5, 4.6.1999, n. 10379, Rv. 214190; Sez. Un. 22.11.2000 n. 32, Rv. 217266).

Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al pagamento della somma di Euro 1.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2013

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