Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 29-01-2013) 07-03-2013, n. 10620

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 26.10.2011 la Corte di Appello di Messina confermava quella emessa in data 18.6.2009 dal Giudice monocratico del Tribunale di Messina che aveva ritenuto la responsabilità degli imputati per il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno del sig. R.N., condannandoli, con circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante contestata, alla pena di anni uno di reclusione ciascuno con i benefici di legge, oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile con assegnazione alla medesima di una provvisionale immediatamente esecutiva al cui versamento veniva subordinata la sospensione condizionale della pena. Trattavasi di un infortunio sul lavoro occorso in data 20.07.2004 al menzionato sig. R., il quale, nelle circostanze di tempo e di luogo descritte nel capo di imputazione, durante l’attività di pavimentazione di una stradella ricadente nella proprietà della sig.ra G.R. – imputata assolta dal Giudice monocratico per non aver commesso il fatto- nell’utilizzare un’asta di alluminio di circa 4 metri di lunghezza per allineare detta pavimentazione, urtava con essa la linea elettrica aerea a media tensione soprastante il luogo in cui il precitato sig. R. eseguiva l’opera (con cavi elettrici posti a mt. 4,61 dal suolo, a seguito di riduzione dell’originaria altezza di mt. 6,11, per effetto di opere abusive modificative dello stato dei luoghi) e rimaneva folgorato con conseguente decesso. Il Tribunale riteneva fondata l’impostazione accusatoria e riconduceva al concorso di una condotta colposa di entrambi gli imputati, il M. quale datore di lavoro del R. ed il B. quale committente delle opere appaltate al primo, per negligenza e imprudenza e specificamente per aver consentito l’esecuzione dell’opera al R. in prossimità di linee elettriche aeree ad una distanza, dalla costruzione o dai ponteggi, inferiore a quella (di mt. 5) stabilita dal D.P.R. n. 164 del 1956, art. 11 e non provvedendo, previa segnalazione all’ENEL (che non risultava) ad un’adeguata protezione atta ad evitare accidentali contatti o pericolosi avvicinamenti ai conduttori delle linee medesime.

Avverso tale sentenza ricorrono per cassazione B.F. e M.C. tramite il comune difensore di fiducia, deducendo la violazione di legge in relazione all’art. 589 c.p. e al D.P.R. n. 164 del 1956 nonchè il vizio motivazionale in ordine al richiamo per relationem alla sentenza di primo grado senza specifica integrazione nella motivazione medesima ai rilievi critici formulati nell’atto di appello. Assumono, in particolare, che destinatario degli obblighi di cui al D.P.R. n. 164 del 1956 non poteva che essere l’imprenditore e, quindi il datore di lavoro che in concreto dirigeva i lavori, laddove tra il M. e il R. era intervenuto un contratto di subappalto, onde il subappaltante committente, come affermato dalla S.C., non era tenuto agli obblighi predetti e nemmeno all’obbligo di cooperazione di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, qualora si fosse ritenuto il R. mero lavoratore autonomo.

Si dolgono, inoltre, della mancata valutazione di tutti i motivi di gravame dovendo il giudice di appello, anche in caso di richiamo per relationem dalla motivazione di primo grado, rispondere a tutti i rilievi critici formulati nell’atto di appello ed in particolare la sussistenza della qualifica di datore di lavoro della vittima in capo al M. e, tra l’altro, la ricostruzione dei fatti in ordine al rapporto intercorrente tra il M. e il R. emergente dalla stessa sentenza di primo grado. Del pari, si rappresenta il mancato esame da parte della Corte territoriale delle argomentazioni poste a sostegno della posizione dell’imputato B.F., atteso che dall’istruzione dibattimentale era stato escluso che gli fosse stata commissionata alcuna modificazione dello stato dei luoghi (con conseguente riduzione dell’altezza tra piano di calpestio e cavi elettrici nel punto in cui si era verificato il sinistro) di cui al capo d’imputazione.
Motivi della decisione

I ricorsi sono inammissibili.

Le censure mosse sono aspecifiche e non consentite nel giudizio di legittimità. Esse hanno riproposto anche in questa sede le medesime doglianze rappresentate dinanzi alla Corte territoriale e da quel giudice nonchè da quello di primo grado disattese con motivazione compiuta e congrua, immune da vizi ed assolutamente plausibile.

Ed è stato affermato che "è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591, comma 1, lett. c), all’inammissibilità" (Cass. pen. Sez. 4^, 29.3.2000, n. 5191 Rv.

216473 e successive conformi, quale: Sez. 2^, 15.5.2008 n. 19951, Rv.

240109). Peraltro, questa Suprema Corte ha ritenuto che, in tema di motivazione della sentenza di appello, si deve ritenere consentita quella "per relationem" con riferimento alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate contro quest’ultima non contengano (come nel caso di specie) elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi; il giudice di appello non è infatti tenuto a riesaminare dettagliatamente questioni riferite dall’appellante nei motivi di gravame, questioni sulle quali si sia già soffermato il primo giudice con argomentazioni ritenute esatte ed esenti da vizi logici dal giudice di appello e non apparendo il richiamo alla motivazione di primo grado effettuata in termini apodittici (cfr. Cass. pen., sez. 4^, 17.9.2008, n. 38824; Sez. 5^, 22.4. 1999, n. 7572).

Del resto, come gli stessi ricorrenti riconoscono, "nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata e ravvisare, quindi, la superfluità delle deduzioni suddette" Sez. 4^, 24 ottobre 2005, n. 1149, Rv. 233187): e tanto si è appunto verificato nel caso in esame. Ancora, correttamente i giudici di merito hanno escluso che nella vicenda in esame sia intervenuto tra il M. e il R. un contratto di subappalto in completa autonomia, non potendosi ritenere che il R. agisse senza alcuna ingerenza del M., peraltro "responsabile della sicurezza", sicchè deve ritenersi che gli obblighi sanciti dal D.P.R. n. 164 del 1956, art. 11 e finanche dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, incombessero anche sul M. (cfr. Cass. pen. Sez. 4^, n. 1490 del 20.11.2009 Rv. 246302).

Peraltro, la motivazione della sentenza impugnata sui punti oggetto di censura s’appalesa congrua ed esente da vizi logici o giuridici e le valutazioni di merito ivi svolte sono insindacabili nel giudizio di legittimità, essendo il metodo di valutazione delle prove conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici (Cass. pen. Sez. un., 24 novembre 1999, Spina, 14794). Invero, il nuovo testo dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, con la ivi prevista possibilità per la Cassazione di apprezzare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo", non ha alterato la fisionomia del giudizio di cassazione, che rimane giudizio di legittimità e non si trasforma in un ennesimo giudizio di merito sul fatto. In questa prospettiva, non è tuttora consentito alla Corte di Cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. Il novum normativo, invece, rappresenta il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova", finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale: cioè, quel vizio in forza del quale la Cassazione, lungi dal procedere ad una inammissibile rivalutazione del fatto e del contenuto delle prove, può prendere in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto sia stato o no "veicolato", senza travisamenti, all’interno della decisione (Cass. pen., Sez. 5^, n. 39048 del 25.9.2007, Rv. 238215). Ciò peraltro vale nell’ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell’ipotesi di doppia pronunzia conforme, come nel caso di specie, il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice d’appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cass. pen., sez. 2^, 15.1.2008, n. 5994; Sez. 1^, 15.6.2007, n. 24667, Rv.

237207; Sez. 4^, 3.2.2009, n. 19710, Rv. 243636), evenienza non verificatasi nel procedimento in esame.

Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al pagamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2013
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