Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-07-2012, n. 13467

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza nr. 133/7/2005 pronunciata in data 20/10/2005 la Commissione tributaria regionale di Roma sezione 7 accoglieva i ricorsi in appello nr. 2519 e 2520 del 2005 proposti dal Comune di Roma avverso due sentenze di primo grado rispettivamente nr.104/51/04 e 105/51/04 della Commissione tributaria provinciale di Roma con le quale, su domanda di M. srl, erano stati annullati gli avvisi di accertamento per omessa dichiarazione ed omesso versamento dell’imposta comunale di pubblicità in relazione a due teli pubblicitari, uno di 160 mq collocato in (OMISSIS), l’altro di 105 mq (per l’impresa 47,8) collocato in (OMISSIS) nell’anno 2000.
In particolare il giudice territoriale, in riforma delle due sentenze di primo grado, ha ritenuto l’inesistenza delle dichiarazioni di pubblicità di cui al D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 8, comma 1 sul presupposto che le domande di autorizzazione inoltrate al Comune di Roma dalla M. srl, in data 30 ottobre 2000 relativa al telo ubicato in (OMISSIS) nonchè in data 5 maggio 2000 relativa al telo ubicato in (OMISSIS), dovevano essere intese, sia per la formulazione letterale del testo che per la data di presentazione, unicamente come domande di autorizzazione a collocare i teli e non come dichiarazione di pubblicità di cui al D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 8, comma 1 la quale segue sul piano logico e giuridico il rilascio dell’autorizzazione o la concessione per far uso di uno specifico luogo ed impianto pubblicitario.
Il giudice d’appello, poichè nelle due fattispecie non risultava rilasciato il provvedimento comunale di autorizzazione o concessione alla installazione del telo pubblicitario ha ritenuto del tutto legittimo l’avviso di accertamento d’imposta ed irrogazione delle sanzioni su base annuale ex art. 8 basato sulla omessa dichiarazione e omesso versamento dell’imposta comunale per il mezzo pubblicitario abusivo e conseguentemente, ha accolto gli appelli proposti dal Comune di Roma e riformato le sentenze di primo grado con rigetto dei ricorsi proposti da M. srl.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la contribuente M. srl con quattro motivi.
Ha resistito il Comune di Roma con controricorso.

Motivi della decisione

1. Preliminarmente deve essere rigettata la richiesta di interruzione del processo per intervenuto fallimento della società M. srl. Infatti secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (vedi per tutte sez.un. nr.14385 del 21/6/2007) il difetto di capacità processuale di una parte, intervenuto dopo il deposito del ricorso presso la Corte di Cassazione, non ha alcuna rilevanza in quanto, nel giudizio di cassazione dominato dall’impulso di ufficio, non opera l’istituto della interruzione del processo per uno degli eventi previsti dall’art. 299 e segg. c.p.c.. Ciò non comporta peraltro alcun contrasto con l’art. 24 Cost. perchè la piena tutela del diritto di difesa viene assicurata dalla sopravvivenza della procura speciale rilasciata al difensore della parte colpita dall’evento, mentre la causa interruttiva potrà assumere rilievo eventuale nel giudizio di rinvio.
2. Con il primo motivo lettera A) la ricorrente M. srl denuncia violazione e falsa applicazione da parte del Comune di Roma delle norme in tema di rappresentanza in giudizio, in particolare del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 50 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11 così come novellato dalla L. n. 88 del 2005, art. 3 bis in quanto la costituzione in giudizio e l’atto di appello sono stati sottoscritti dal dirigente del servizio Affissioni e Pubblicità in proprio e non dal Sindaco del Comune di Roma, soggetto a cui appartiene in via esclusiva la rappresentanza in giudizio del Comune.
Il motivo è infondato.
Infatti è vero che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 3, ha disposto che "l’ente locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il dirigente dell’ufficio tributi, ovvero per gli enti locali privi di tale figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione organizzativa in cui è collocato detto ufficio".
Tuttavia occorre rilevare che, in seguito alla disciplina degli enti locali di cui al TU approvato con D.Lgs. 12 agosto 2000, n. 267, in tema di contenzioso tributario, la rappresentanza in giudizio del Comune spetta in via generale al Sindaco senza necessità di preventiva autorizzazione della giunta, ma lo statuto del Comune (atto a contenuto normativo, rientrante nella diretta conoscenza del giudice) o anche i regolamenti municipali, nei limiti in cui ad essi espressamente rinvii lo stesso statuto, possono affidarla ai dirigenti, nell’ambito dei rispettivi settori di competenza, od anche, con riguardo all’intero contenzioso, al dirigente dell’ufficio legale, e possono altresì prevedere detta autorizzazione (della giunta o del competente dirigente), altrimenti non necessaria (cfr.
Corte cass. SU 16.6.2005 n. 12868; id. SU 27.6.2005 n. 13710). Per quanto concerne in particolare il Comune di Roma, si è rilevato che il potere di rappresentanza processuale è stato attribuito ai dirigenti comunali dall’art. 34, comma 4, dello Statuto comunale, approvato con Delib. Consiliare 17 luglio 2000, n. 122 (successivamente integrato con Delib. 19 gennaio 2001, n. 22), e dall’art. 3 del Regolamento approvato con Delibera Giunta 25 febbraio 2000, n. 130 (disciplina interna del contenzioso dinanzi alle Commissioni tributarie), anche se deve intendersi limitato ai giudizi davanti alle commissioni tributarie, essendo così circoscritta dalla suddetta norma regolamentare la più ampia previsione contenuta nel citato art. 34, comma 4, dello Statuto (cfr. Corte cass. 5^ sez. 30.1.2007 n. 1915 che precisa inoltre come "per quanto, invece, riguarda il ricorso per cassazione, il sindaco è l’unico legittimato a rappresentare il medesimo Comune di Roma ed a conferire la procura speciale al difensore, ai sensi della disposizione generale contenuta nell’art. 24, comma 1, dello Statuto ed in conformità al testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 50"; conf. 5^ sez. 4.8.2010 n. 8062).
Pertanto in virtù di quanto sopra appare del tutto legittima la rappresentanza processuale del Comune di Roma a mezzo del dirigente dell’Uffizio affissioni e Pubblicità ed il motivo di ricorso appare infondato.
3. Con il secondo motivo lettera B) la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 23, 56 e 57 in quanto il Comune negli atti di appello ha proposto eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio del tutto nuove, in quanto mai sollevate prima di allora e non formulate all’atto della costituzione nel precedente grado di giudizio nel quale si era difeso in modo del tutto generico.
Il motivo è inammissibile.
Occorre infatti chiarire che la ricorrente non precisa quali sarebbero le eccezioni non rilevabili d’ufficio o le domande del tutto nuove che il Comune avrebbe formulato all’atto della costituzione davanti alla Commissione Tributaria regionale di Roma, che erano ormai precluse in quanto non proposte in primo grado e che la sentenza impugnata avrebbe invece accolto.
Risulta evidente dalla lettura della sentenza che riforma la decisione di primo grado che la decisione del giudice di appello è supportata da una diversa lettura ed interpretazione di documenti presenti fin dal primo grado del giudizio (domanda di autorizzazione in data 30/10/2000) e non certo dall’accoglimento di eccezioni non rilevabili d’ufficio formulate per la prima volta dal Comune di Roma mentre l’unica domanda nuova avanzata dal Comune, in ordine alla maggiorazione dell’importo di cui all’avviso di accertamento, è stata rigettata in quanto tale dal giudice di appello.
4. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 8, 12, 23 e 24 in ordine alla pretesa inapplicabilità della tariffa ridotta per asserita inesistenza delle dichiarazioni di pubblicità regolarmente presentate da parte istante. Secondo la ricorrente alla fattispecie era infatti applicabile l’imposta calcolata ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 5 e 8 e art. 12, comma 2 in misura ridotta considerato che le esposizioni pubblicitarie avevano carattere temporaneo, limitate ad un periodo non superiore ad un mese.
Il motivo è infondato.
La sentenza del giudice a quo afferma che nella fattispecie era mancante la dichiarazione di pubblicità, presupposto necessario per l’applicabilità della tariffa ridotta per pubblicità relativa a periodi inferiori ad un anno D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, ex art. 8, comma 4.
In effetti l’art. 8, comma 4 sopra citato prevede che qualora venga omessa la presentazione della dichiarazione, la pubblicità di cui agli artt. 12 e 13, art. 14, commi 1, 2, 3 si presume ex lege effettuata in ogni caso con decorrenza dal primo gennaio dell’anno in cui è stata accertata.
E’ pur vero che la richiesta di autorizzazione può avere contenuto comunicativo equivalente a quello della dichiarazione D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, ex art. 8 e che, in tal caso, la richiesta di autorizzazione può valere anche come dichiarazione di pubblicità, ma, a tal fine, il contribuente avrebbe dovuto far valere specificamente la richiesta equivalenza di contenuti, cosa che nella fattispecie non risulta affermata e nemmeno ipotizzata.
In definitiva in ordine al quesito proposto relativamente al secondo motivo di ricorso deve essere precisato che il giudice di appello non ha affermato che il mancato rilascio dell’autorizzazione amministrativa per l’esposizione pubblicitaria comporta l’inesistenza della dichiarazione di pubblicità presentata dal contribuente, quanto piuttosto che l’atto presentato non era una dichiarazione di pubblicità mancandone i requisiti previsti dalla legge ma invece una richiesta di autorizzazione peraltro non concessa.
5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia erroneo computo della superficie dell’impianto soggetto ad imposta e lamenta in particolare che il Comune, nell’applicare l’imposta, ha ritenuto quale superficie imponibile anche quella parte del telo pubblicitario non destinata a veicolare alcun messaggio ma riproducente la facciata dell’edificio in ristrutturazione.
Il motivo di ricorso è infondato.
Infatti corrisponde al vero che l’art. 8 del regolamento comunale del Comune di Roma Delib. n. 289 del 1994 prevede l’esclusione dal calcolo della superficie soggetta a tassazione dei sostegni strutturali al mezzo e privi di finalità pubblicitaria quali pali, supporti, cornici.
Tuttavia appare incensurabile la valutazione del giudice di appello in ordine alla mancanza di prova in relazione alla minor superficie di mq 144 anzichè 160 e del tutto condivisibile la affermazione secondo la quale l’area da tassare è la minima figura piana in cui è circoscritto il mezzo pubblicitario, vale a dire l’intero telo, non già quella in cui è circoscritto il messaggio che può anche essere di dimensioni inferiori. Alla fattispecie non risulta infatti applicabile la pronuncia di questa Corte (Cass. 5^ sez. 7/3/2005 n. 4908) che si riferisce al diverso caso di una cornice che delimita lo spazio pubblicitario oggettivamente inidonea ad essere utilizzata per la diffusione di messaggi, mentre nella fattispecie la riproduzione della facciata dell’edificio in ristrutturazione nello spazio di telo non occupato dal messaggio pubblicitario è una scelta di carattere estetico che presenta maggiore visibilità e sicuro impatto visivo in chi guarda, destinata ad attrarre maggiormente l’attenzione del destinatario.
6. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8 in relazione alla L. n. 212 del 2000, art. 10 in quanto non dovevano essere applicate le sanzioni di cui agli atti impugnati e quindi le tasse e gli interessi moratori a causa dell’obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni.
Il motivo è infondato.
Nel caso in esame non è applicabile la L. n. 212 del 2000, art. 10 statuto dei diritti del contribuente in quanto in questo caso non sussiste obiettiva incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria.
Le considerazioni che precedono inducono al rigetto del ricorso e le spese processuali, da liquidarsi come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in Euro 3.000,00 oltre iva, cap e rimborso spese come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 30 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012

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